Strage di Torino (18-20 dicembre 1922): differenze tra le versioni
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L'anarchico [[Pietro Ferrero]] era il segretario della Federazione degli operai metalmeccanici di Torino. Aveva trent'anni e abitava con la madre, un fratello e una sorella in un appartamento al numero 4 di via Monte Rosa, in Barriera di Milano, nella periferia-est della città . | L'anarchico [[Pietro Ferrero]] era il segretario della Federazione degli operai metalmeccanici di Torino. Aveva trent'anni e abitava con la madre, un fratello e una sorella in un appartamento al numero 4 di via Monte Rosa, in Barriera di Milano, nella periferia-est della città. | ||
Nella tarda mattinata di quel giorno era già stato bastonato da una [[fascismo|squadra fascista]] penetrata nella Camera del Lavoro: se l'era cavata, ma quell'esperienza aveva naturalmente lasciato nella sua mente un segno profondo e probabilmente condizionò fatalmente il suo comportamento nelle ore successive. Non poteva starsene in casa: il giorno dopo sarebbe dovuto partire per Milano, ma aveva con sé 19.000 lire - una bella somma - i contributi operai che bisognava depositare agli uffici della Cassa disoccupazione. Così fece nel pomeriggio e poi, sempre in bicicletta, vagò chissà dove per quelle strade diventate pericolosissime per lui e per la gente conosciuta come lui. | Nella tarda mattinata di quel giorno era già stato bastonato da una [[fascismo|squadra fascista]] penetrata nella Camera del Lavoro: se l'era cavata, ma quell'esperienza aveva naturalmente lasciato nella sua mente un segno profondo e probabilmente condizionò fatalmente il suo comportamento nelle ore successive. Non poteva starsene in casa: il giorno dopo sarebbe dovuto partire per Milano, ma aveva con sé 19.000 lire - una bella somma - i contributi operai che bisognava depositare agli uffici della Cassa disoccupazione. Così fece nel pomeriggio e poi, sempre in bicicletta, vagò chissà dove per quelle strade diventate pericolosissime per lui e per la gente conosciuta come lui. |
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Si definisce comunemente Strage di Torino l'eccidio commesso nel capoluogo piemontese dalle squadre fasciste nelle giornate dal 18 al 20 dicembre 1922: secondo le fonti ufficiali, furono uccisi 11 antifascisti[1], mentre una trentina furono i feriti.
Generalmente si ritiene che la strage costituì la rappresaglia per l'uccisione, avvenuta la sera precedente, di due fascisti che, insieme con un altro squadrista, avevano tentato di assassinare un militante comunista che si difese sparando: esiste tuttavia anche l'ipotesi che i fascisti avessero già predisposto un'azione criminosa volta a « punire » la città di Torino, particolarmente ostile al fascismo, e che l'episodio ne abbia soltanto fornito un pretesto e anticipata l'esecuzione.
Alle vittime è stata intitolata a Torino la piazza XVIII Dicembre, sulla quale si affaccia la stazione ferroviaria di Porta Susa.
La situazione politica: Torino e il fascismo nel 1922
Dal 31 ottobre 1922 Mussolini era capo di un governo di coalizione che univa reazionari e conservatori: fascisti, popolari, liberali e i sedicenti radicali del Partito della Democrazia Sociale. Mussolini vi aveva assunto anche la carica di ministro degli Interni, mentre il fascista Aldo Oviglio deteneva il portafogli della Giustizia. Capo della Polizia era stato nominato l'11 novembre il fascista Emilio De Bono che, appena insediato, si era proposto di riformare l'organismo per renderlo sempre più funzionale agli interessi del nuovo Regime[2]. Naturalmente, oltre ad aver ottenuto il governo istituzionale del Paese, il fascismo intendeva mantenere il controllo del territorio attraverso le sue squadre, illegali ma sempre tollerate e persino favorite dalle forze dell'ordine della Polizia, dei Carabinieri e delle Guardie regie.
Prima ancora della cosiddetta Marcia su Roma, il 17 settembre era stata costituita a Torre Pellice la "Milizia fascista", embrione di quella "Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale" che, costituita dal governo Mussolini il 14 gennaio 1923, sarà un Corpo militare di Stato con funzioni di « ordine » pubblico. Il quotidiano di Mussolini « Il Popolo d'Italia » aveva comunicato il 3 ottobre il Regolamento di disciplina di questa milizia, definita « volontaria o per mercede », che la rendeva un'organizzazione di tipo para-militare, divisa in "legioni". Capo degli Milizia era il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi, che aveva ai suoi diretti ordini il capitano Cesare Forni, capo delle legioni dell'Alta Italia; capi delle "coorti" torinesi erano il marchese Carlo Scarampi del Cairo, il capitano Cagli e i tenenti Cerutti e Piero Brandimarte, quest'ultimo destinato, unicamente grazie ai suoi meriti squadristici, a diventare niente di meno che generale.
Il tenente Dante Mariotti ebbe la responsabilità dei "veliti"[3], squadre formate da poche persone che sparavano, bastonavano e sùbito fuggivano, mentre incarichi più strettamente politici erano chiamati a svolgere Annibale Monferrino, Luigi Voltolina, Mario Gioda, amico personale del duce, e Massimo Rocca, membro della Direzionale nazionale del PNF.
Il Piemonte, nel suo complesso, era stato sufficientemente « normalizzato » dalle aggressioni mirate alle sedi di partito, di sindacato, dei circoli e della stampa della sinistra, che raggiungevano spesso lo scopo di intimidire e disperdere militanti e simpatizzanti delle uniche forze realmente in grado di opporsi all'avanzata del fascismo, i quali finivano in buona parte per non partecipare più alla pubblica attività politica, lasciando il campo libero ai fascisti e a coloro che nel fascismo avevano creduto di individuare la forza che avrebbe liberato l'Italia dal « pericolo rosso ». Era stato il caso di città come Alessandria, Biella, Novara, ma non di Torino.
Come scriveva « L'Ordine Nuovo » del 18 ottobre, « Il difetto vitale, organico, incurabile del fascismo torinese è nella base della sua organizzazione: nei suoi componenti, accozzaglia eterogenea di studenti sfaccendati, di disoccupati piccolo-borghesi, di spostati dalla guerra, di gente che ha poco da perdere e si propone solo di realizzare fini immediatamente personali di egoismo e di vendetta. Tutta l'azione militare fin qui compiuta ufficialmente dal fascismo torinese – a parte le sfilate innocue – non si basa infatti sulla massa, ma su pochi uomini decisamente d'azione, parte volontari e parte avanzi da galera prezzolati. Tutta l'efficienza del fascismo torinese sta normalmente su queste ultime e poco numerose categorie di "veliti" disperati. Il resto è coreografia ».
Vi era verità in quest'analisi, ma anche sottovalutazione della possibilità di crescita del movimento fascista, in sé minoritario ma portatore di quella politica reazionaria che liberali e gran parte dei popolari ritenevano necessaria per sconfiggere il socialcomunismo senza favorire una deriva totalitaria. Il 15 ottobre il segretario torinese del Partito popolare, Attilio Piccioni, aveva preannunciato la tattica che quel Partito avrebbe effettivamente adottato qualche settimana dopo, entrando nel governo mussoliniano: « La sola via possibile è l'assorbimento del fascismo per parte dello Stato [...] è necessario che il fascismo rinunci pregiudizialmente alla sua azione illegale, armata, anticostituzionale. Se sarà necessaria la collaborazione con il fascismo per assorbirlo, noi accetteremo anche questo sacrifizio »[4].
Da parte loro, i socialisti non credevano alla possibilità di successo dei fascisti, prevedendo proprio quel compromesso con Mussolini auspicato da liberali e popolari che, a loro dire, non avrebbe mutato il solito corso della politica conservatrice italiana, mentre i comunisti italiani, pur prevedendo la conquista del potere del fascismo, ostentavano indifferenza: nella relazione redatta a metà ottobre per il IV Congresso dell'Internazionale comunista, dichiararono che « il fascismo arriverà al potere e apporterà solo questo rinnovamento: che, mentre gli attuali governanti pseudo-liberali aiutano e appoggiano la reazione, il prossimo governo fascista eserciterà esso stesso direttamente la reazione »[5]. Di conseguenza, l'ordine dato ai militanti era di « non assumere alcuna iniziativa e di agire solo in casi di attacchi e provocazioni dirette contro il proletariato e i suoi istituti »[6].
Intanto, a Torino, da settembre vi era un nuovo prefetto, Carlo Olivieri, trasferito da Bari dove si era reso meritevole, agli occhi del fascismo, per aver consegnato la città alle bande del ras pugliese Giuseppe Caradonna[7], impiegando l'esercito per chiudere la Camera del Lavoro. Appena arrivato a Torino, fece perquisire la sede de « L'Ordine Nuovo », guadagnandosi la lode della devecchiana « Gazzetta del Popolo » e la benevolenza, per bocca de « La Stampa », degli industriali che, scontenti della politica economica di Giolitti e poi di quella del Facta, da più di un anno finanziavano il Fascio torinese perché portasse la città alla « normalizzazione ». Il 10 novembre 1922, infatti, i primi atti del Consiglio dei ministri del nuovo governo fascista furono a favore dei grandi industriali: fu abolita la nominatività dei titoli azionari, furono rivisti a loro favore i contratti per le forniture militari, fu ridotta l'imposta di successione e fu ritirato il progetto di riforma agraria già presentato alla Camera dal precedente governo Facta.
Il 28 ottobre squadre fasciste torinesi avevano disarmato impunemente una cinquantina di alpini davanti alla Caserma Rubatto, allontanandosi indisturbati con il bottino. Il giorno dopo fu devastata la sede de « L'Ordine Nuovo », in via Arcivescovado 3, sotto gli occhi compiaciuti del capo della squadra politica della Questura, il commissario Mariano Norcia, che pure era al comando di alcuni reparti del 91° Reggimento Fanteria, e del vice-questore Odilio Tabusso. Seguirono assalti e saccheggi dei negozi alimentari - i cosiddetti « distributori » gestiti dall'Alleanza Cooperativa Torinese, storica cooperativa della sinistra cittadina, diretta espressione dell'Associazione Generale Operaia - conclusi con l'incendio della Camera del Lavoro nella notte del 2 novembre. Il 29 novembre veniva ucciso il comunista Pietro Longo[8]: uno degli assassini, il fascista Maurizio Vinardi, due mesi prima aveva anche tentato di uccidere l'anarchico Giovanni Vaudano che, denunciato il fatto, mentre il suo aggressore era stato rilasciato, si era visto arrestare con l'imputazione di « canti sovversivi ».
Intanto nella FIAT - come nelle altre fabbriche dopo la fine delle occupazioni - era avvenuta la « normalizzazione »: la fine delle grandi commesse di guerra aveva gettato sulla strada 1.300 operai e il rinnovamento tecnologico aveva aumentato la produttività senza che a essa seguissero incrementi salariali. Rimaneva il problema delle commissioni operaie presenti nelle fabbriche e molto meno accomodanti dei sindacalisti riformisti, e sul tema Giovanni Agnelli si mostrava pubblicamente democratico: « I sindacati ci vogliono », concedeva in un'intervista, precisando subito « ma devono essere apolitici! ».
L'ex tribuno socialista Benito Mussolini - che da otto anni percepiva finanziamenti da agrari e industriali - era perfettamente d'accordo: parlando alla Fonderia Gomboloita di Milano il 1° dicembre 1922 di fronte a industriali e a operai selezionati per l'occasione tra i simpatizzanti fascisti, ammetteva che « gli operai hanno creduto di doversi e potersi rendere estranei alla vita nazionale » - cioà alla reazione fascista - e minacciava: « se vi saranno minoranze ribelli e faziose che cercheranno di opporsi, esse saranno inesorabilmente colpite ». Quest'ordine non era certo nuovo, sulla bocca di Mussolini, ma ora aveva il crisma dell'ufficialità e dell'autorevolezza data dal potere conferitogli dal re e dalla maggioranza del Parlamento.
L'agguato
Francesco Prato[9] era nato nel 1889 a Valmacca, in provincia di Alessandria. Era venuto a Torino giovanissimo, abitava a pensione in corso Spezia, nel quartiere operaio di Barriera Nizza, e aveva trovato lavoro come bigliettaio dei tram. Socialista, nel 1921 aveva aderito al Partito comunista. Come scrisse due anni dopo un giornalista de « l'Unità » il Prato, « temperamento audace, battagliero, insofferente d'ogni sopruso e d'ogni prepotenza, incuteva timore agli stessi fascisti. Ovunque si trattava di difendere dei compagni o delle istituzioni proletarie dalle violenze delle camicie nere, il Prato si trovava in prima linea ». Odiato dai fascisti, sapeva che la sua vita, nelle condizioni dell'Italia di allora, era legata a un filo: « e alla pelle Prato ci pensò. Non cessò mai la sua attività politica ma, ad ogni buon conto, non uscì mai senza la rivoltella in tasca »[10].
La sera del 17 dicembre 1922, una fredda e nebbiosa domenica, il Prato, mentre, concluso il suo turno di lavoro, stava andando a trovare la fidanzata, fu atteso per strada da tre fascisti che gli spararono colpendolo a una gamba. Si difese sparando a sua volta, ferendone mortalmente due, il ferroviere Giuseppe Dresda e lo studente Lucio Bazzani, mentre il terzo, l'artigiano Carlo Camerano, rimasto solo leggermente ferito, si dava alla fuga correndo ad avvisare dell'accaduto i suoi camerati. Prato trovò rifugio in casa di amici dove, tenuto sempre nascosto, qualche giorno dopo un medico dell'Alleanza Cooperativa l'operò estraendogli il proiettile e ingessandolo. La vita del Prato non valeva più niente in Italia e il Partito decise di farlo espatriare: il 17 febbraio Paolo Robotti e le sorelle Rita ed Elena Montagnana lo portarono in auto a Milano da dove altri compagni lo trasferirono in Svizzera, a Zurigo, e di qui in Unione Sovietica, dove passerà il resto della vita. Morirà nel 1943 in un gulag staliniano.
Alle origini della sparatoria vi era un particolare odio tra il Prato e il Camerano, che non si sa se fosse causato anche da motivi extra-politici. In luglio Prato spedì dalla Russia una lettera al Camerano, il quale aveva testimoniato alla polizia che era stato Prato a sparare a tradimento prima al Dresda e poi a lui e al Bazzani. Nella lettera era scritto che il Camerano « era la causa di tutto. Io non mi trovo pentito affatto di ciò che feci, capo primo, perché eravate dei fascisti, e secondariamente son stato aggredito a mano armata. Se tu non farai la dichiarazione giusta di quella notte come ci incontrammo, la pagherai. Ricordati bene che eravate in tre, mi avete affrontato con le rivoltelle alla gola e mi avete sparato, e io mi son difeso. A me non importa nulla di prendermi l'ergastolo, ma voglio che la popolazione sappia come venne lo scontro, che possa calcolare ove era di più la delinquenza ».
Giustamente, il Prato aveva previsto cosa sarebbe avvenuto al processo, che fu sbrigato in poche ore, il 20 ottobre 1924. Tutti i testimoni erano fascisti, la stessa lettera del Prato rappresentava una confessione e non importava ai giudici fascistizzati che egli fosse l'aggredito, come ricordò inutilmente Salvatore Paola, l'avvocato d'ufficio dell'imputato latitante, chiedendo l'assoluzione per legittima difesa. Secondo i giudici « il Prato premeditava di assalire i fascisti e di sparare contro di essi » e perciò lo condannarono all'ergastolo.
Il Regime farà naturalmente dei due squadristi dei « martiri » e il 28 settembre 1934 le due pallottole che li uccisero saranno richieste, in quanto « cimeli » da esporre in una mostra, dal IV Gruppo Rionale Fascista di Torino « Lucio Bazzani »[11]. Il dottor Majola, Procuratore Generale del Re, accogliendo sollecitamente la richiesta il 30 settembre, sottolineava - associando, secondo l'abitudine del Ventennio, la retorica al ridicolo - come « i segni del martirio e della bieca, selvaggia aggressione debbano avere degna sede in una mostra che eternamente sia di esempio e di ricordo per le generazioni della nuova Italia »[12].
La strage: il 18 dicembre
Quella sera la legione fascista di Torino con il "console" Piero Brandimarte in testa, aveva festeggiato al Teatro Alfieri la costituzione della nuova squadra « Francesco Baracca », comandata dall'attore Carlo Tamberlani: madrina della cerimonia l'attrice Alda Borelli, sorella della più nota Lyda; erano presenti anche squadre fasciste provenienti da Parma[13]. Dopo i discorsi di rito, gli squadristi, in numero di due o tremila, attraversarono cantando la città fino alla sede del Fascio, sul Lungo Po di corso Cairoli.
La mattina dopo, 18 dicembre, si potevano vedere nelle strade del centro « gruppi di camicie nere provenienti da altre città : essi erano armati di pistola, di manganello e avevano a tracolla una coperta arrotolata [...] altri gruppi di fascisti forestieri appollaiati persino sui predellini e parafanghi di alcune automobili saettanti, brandivano pugnali, pistole, e gridavano per terrorizzare i passanti. Ci parve di capire la vera ragione dell'affluenza a Torino di squadristi da altre località [...] i caporioni fascisti, per giustificare il massacro che si apprestavano a scatenare contro gli antifascisti torinesi, prendevano a pretesto la batosta che il nostro compagno Prato aveva inferto ai loro sgherri »[14].
Quella stessa mattina Mussolini parlava al Grand Hôtel di Roma ai fascisti venuti ad ascoltarlo da Siena: « Gridatelo. Lo Stato fascista è deciso a difendersi a tutti i costi coll'energia più fredda e inesorabile. Sono il depositario della volontà della migliore gioventù italiana. Ho doveri terribili da compiere e li compirò ». Dalle 11, come scriveva nel suo diario, il vice-questore Tabusso era a colloquio in Prefettura con il vice-prefetto, con il segretario del Fascio piemontese Marchisio e con due comandanti di squadre.
Alle 11.30 una cinquantina di fascisti fecero irruzione nella Camera del Lavoro, al numero 12 di corso Siccardi: vi erano poche persone. Trovarono e bastonarono il deputato socialista Vincenzo Pagella, il ferroviere Arturo Cozza e il segretario della Federazione dei metalmeccanici, l'anarchico Pietro Ferrero, e poi li lasciarono andare. Date le circostanze, era un trattamento di favore: i fascisti non erano ancora intenzionati a uccidere, forse perché non ne avevano ancora l'ordine.
Poco dopo mezzogiorno, l'incontro in Prefettura si concluse. Le autorità decisero di non mobilitare le forze dell'ordine: « Dovevo essere proprio io - dichiarò poi il vice-questore - a correre l'alea di un sicuro conflitto e tentare di fare quello che in passato e in condizioni più favorevoli e più propizie non avevano voluto fare altri assai più autorevoli di me? ».
Già : perché mai doveva essere proprio questo « servitore dello Stato » facente funzione di questore ad assicurare l'ordine pubblico? Giudicando con il senno di poi, è lecito ipotizzare che in quella riunione sia stato deciso, su istruzioni provenienti da Roma, di lasciare mano libera ai fascisti per una rappresaglia che servisse a dare una lezione ai « sovversivi » e a far capire, se ve ne fosse stato il bisogno, chi fosse ora a comandare nel Paese. Lo confermerebbe il telegramma inviato in serata allo stesso Tabusso da De Vecchi: « Per affetto che mi lega a Torino et miei fascisti et per sua nota energia raccomando ambito limiti istruzioni superiori massima energia anche evitare mia venuta deciso purificare et punire per sempre ».[15] Insomma, queste criptiche istruzioni superiori sembravano prescrivere: ammazzate pure, ma senza esagerare.
Carlo Berruti
Verso le 13 una diecina di fascisti della squadra « Enrico Toti » - che avevano già devastato la casa di Maria e Carlo Berruti, alla ricerca di quest'ultimo - entrarono nell'ufficio delle Ferrovie di corso Re Umberto 48, all'angolo con via Valeggio: data l'ora, c'era poca gente. Prelevarono Carlo Berruti, segretario del Sindacato ferrovieri e consigliere comunale comunista, e il socialista Carlo Fanti, li caricarono in una macchina scoperta e li portarono davanti al Fascio torinese. Qui arrivò un giovane ed elegante fascista: salì al posto del Fanti, che venne rilasciato e poté allontanarsi.
La macchina ripartì in direzione di Nichelino e si fermò in aperta campagna, non lontano dalla linea ferroviaria. A cento metri di distanza, sui pali dell'alta tensione stavano lavorando alcuni operai delle Ferrovie, che poterono così osservare tutta la scena. Tra di loro era il diciottenne comunista Gustavo Comollo:[16] « I fascisti erano tre o quattro. Scesero spingendo avanti uno, lo fecero andare per un sentiero e lui camminò tranquillo senza voltarsi [...] gli spararono tre o quattro colpi nella schiena [...] lui cadde giù. Ricordo che cadde lentamente. In fretta quelli salirono sull'auto e sparirono a gran velocità [...] Dopo un poco ci siamo avvicinati. Alcuni amici dissero che c'era Mariotti su quella macchina [...] forse c'era anche il traditore Porro [...] poi è venuta della gente e anche i carabinieri [...] Berruti restò un bel po' steso per terra ».[17]
Dante Mariotti era il comandante della squadra « Enrico Toti »,[18] mentre « il traditore » era Luigi Porro, figlio di Carlo, uno degli inetti generali dello Stato Maggiore rimossi dopo il disastro di Caporetto. Nel 1921 quel giovane studente d'ingegneria si era iscritto al Partito comunista, ma l'anno dopo era tornato nel più congegnale ambiente della canaglia fascista. Secondo tutte le testimonianze, anche di parte fascista, in quei giorni il Porro indicò i comunisti da colpire.[19] Secondo Teresa Noce,[20] il Porro comandò un gruppo di fascisti che era alla ricerca di Luigi Longo, suo compagno di corso all'Università, entrando nel negozio della famiglia Longo, nella centrale via Po, per assassinarlo, ma Longo si trovava allora a Mosca.[21]
Il vice-prefetto Palumbo provvide a comunicare al ministro dell'Interno, che era poi Mussolini, la nota sull'accaduto, si direbbe con qualche brivido di compiacimento e molte inesattezze: « Il Berruti pericoloso anarchico schedato ch'ebbe già a soggiornare in Svizzera ed in Inghilterra, e qui conviveva con altra nota sovversiva ».
Leone Mazzola
Nel primo pomeriggio una squadra fascista fece irruzione nell'osteria di via Nizza 300. Chiesero i documenti agli avventori, li perquisirono. A Ernesto Ventura trovarono la tessera del Partito socialista: lo ferirono con una revolverata. Il gestore del locale, Leone Mazzola, protestò e venne afferrato e trascinato nel retrobottega dove c'era la camera da letto. Perquisendo, si trovò nella stanza una scheda elettorale, dove c'era il simbolo della falce e il martello: il Mazzola venne subito preso a coltellate e freddato da numerosi colpi di pistola.
Mentre il vice-prefetto Palombo comunicava a suo modo la notizia al ministro degli Interni: « Veniva ucciso da sconosciuti con ferite d'armi da fuoco e da punta e taglio certo Mazzola Leone trovato in possesso di documenti sovversivi », la successiva inchiesta, ordinata da Roma e svolta in gennaio dai funzionari fascisti Giovanni Gasti e Francesco Giunta, stabilirà che il Mazzola non solo era monarchico e uomo d'ordine, ma era perfino un confidente della polizia politica, alla quale forniva informazioni riservate proprio sui comunisti. La vedova sosterrà che sarebbe stato un debitore del marito a passare ai fascisti la falsa notizia che egli fosse comunista.
Giovanni Massaro
Durante l'irruzione in quell'osteria alcuni avventori erano fuggiti: uno di questi si rifugiò nella sua casa vicina, in via Nizza 279, ma fu inseguito, raggiunto nel suo appartamento, e ucciso con quattro colpi di pistola alla testa. Il cadavere fu caricato sul camion dei fascisti e scaricato in periferia, alla prima campagna che allora si apriva nel fondo di via San Paolo.
Senza documenti, quell'uomo vestito di una tuta da operaio fu riconosciuto solo qualche giorno dopo. Si chiamava Giovanni Massaro, aveva 34 anni: aveva lavorato come manovale delle Ferrovie, ma aveva perso il lavoro perché soffriva di turbe psichiche e ogni tanto doveva essere ricoverato in manicomio. Un povero diavolo, insomma: « anche per il probabile stato di turbamento in cui egli poté trovarsi a causa della propria demenza, lo catturarono e lo uccisero ».[22]
Matteo Chiolero
Era già buio quando il fattorino del tram Matteo Chiolero, simpatizzante comunista, finito il suo turno, era tornato nella sua casa di via Abegg 7 e si era messo a tavola, con la moglie e la figlia di due anni. Ma bussarono alla porta e lui s'alzò e andò ad aprire: tre revolverate lo colpirono al petto, senza che fosse stata scambiata una sola parola.
La moglie corse alla porta, rincorse i fascisti sulle scale, gridando: quelli tornarono indietro, andarono alla porta, toccarono il cadavere del marito e le dissero di non preoccuparsi: «Dorme». Poi sparirono.
Andrea Chiomo
Il comunista Andrea Chiomo aveva 25 anni: l'anno prima era stato assolto nel processo per l'omicidio del fascista Dario Pini. L'assoluzione aveva chiuso il conto con la giustizia ufficiale, non con quella fascista. Sapeva che un giorno o l'altro avrebbero cercato di ammazzarlo e per questo motivo voleva espatriare in Francia, ma occorrevano soldi e quelli lui non li aveva.
La sera del 18 dicembre si trovava in casa di amici, quando vennero sei o sette fascisti a prelevarlo: lo trascinarono in strada, dove c'era tutta la squadra « Dario Pini », comandata da Paolo Dovis. C'era anche il fratello del Pini, e due altri caporioni: Carlo Natoli e Piero Brandimarte. Chiomo venne tempestato di colpi, gettato a terra e trascinato per i capelli per centinaia di metri: due guardie regie videro la scena, ma fecero finta di nulla. Anche un maresciallo dei carabinieri chiese spiegazioni: gli squadristi risposero che lo stavano portando alla casa del Fascio, e quello proseguì per la sua strada.
Pur in queste condizioni, Chiomo ebbe un ultimo scatto di disperata energia: riuscì a rialzarsi e a fuggire, ma non poteva andare lontano. Inseguito, fu abbattuto da una fucilata e rantolò a lungo nel buio di via Pinelli, all'angolo di via San Donato. Quando un'ambulanza lo portò all'ospedale era troppo tardi: era completamente tumefatto e non aveva più capelli. La madre morì di crepacuore pochi mesi dopo.
Pietro Ferrero
L'anarchico Pietro Ferrero era il segretario della Federazione degli operai metalmeccanici di Torino. Aveva trent'anni e abitava con la madre, un fratello e una sorella in un appartamento al numero 4 di via Monte Rosa, in Barriera di Milano, nella periferia-est della città.
Nella tarda mattinata di quel giorno era già stato bastonato da una squadra fascista penetrata nella Camera del Lavoro: se l'era cavata, ma quell'esperienza aveva naturalmente lasciato nella sua mente un segno profondo e probabilmente condizionò fatalmente il suo comportamento nelle ore successive. Non poteva starsene in casa: il giorno dopo sarebbe dovuto partire per Milano, ma aveva con sé 19.000 lire - una bella somma - i contributi operai che bisognava depositare agli uffici della Cassa disoccupazione. Così fece nel pomeriggio e poi, sempre in bicicletta, vagò chissà dove per quelle strade diventate pericolosissime per lui e per la gente conosciuta come lui.
Verso le 10 di sera venne incrociato in corso Valdocco da due conoscenti, i comunisti Andrea Viglongo e Mario Montagnana, redattori de « L'Ordine Nuovo », che stavano andando a dormire in casa di Viglongo, lì vicino, in via Cernaia: Montagnana abitava lontano, era pericoloso avventurarsi per strada e aveva accettato l'invito dell'amico. Ferrero « ci sembrò molto preoccupato - dirà poi Viglongo - l'impressione fu che andasse in giro a caso, senza una meta. Parlammo dei fatti del giorno, gli dicemmo di non stare per strada, perché correva pericolo. Sorrise senza dire nulla. Ci disse solo che il giorno dopo sarebbe andato a Milano, faceva un'ultima puntata a Porta Susa per guardare gli orari del treno e sarebbe rincasato. Lo vedemmo allontanarsi e sparire »[23].
Forse Ferrero andò effettivamente alla stazione: di qui, dalla piazza che ora nel nome ricorda quel giorno, dovette prendere via Cernaia: all'incrocio con corso Siccardi doveva scegliere. A sinistra, con un lungo percorso, si sarebbe indirizzato verso casa; prendendo a destra, si andava invece alla Camera del Lavoro, e anche quella era un po' casa sua: Ferrero svoltò a destra.
La Camera del Lavoro era piena di fascisti, l'avevano « conquistata » e ora la tenevano come un trofeo di vittoria. Dall'altra parte del corso, Ferrero si fermò a guardare la scena e ad ascoltare i canti e le urla: era quasi notte, forse pensava che in quel buio nebbioso non sarebbe stato notato. L'imprudenza gli fu fatale: quell'ombra ferma laggiù fu vista e, si sa, la canaglia s'inquieta sempre quando si crede osservata anche solo da un'ombra.
Una decina di loro uscì correndo verso di lui, che non si mosse nemmeno. Quando gli furono vicini, lo riconobbero, lo riempirono di bastonate, di calci, di pugni, lo trascinarono dentro, lo gettarono in una stanza che avevano trasformato in prigione. Non era ancora morto, ma non si alzerà più. Verso mezzanotte lo tirarono di nuovo sulla strada e, sempre tra calci e bastonate, gli legarono una caviglia a un camion che partì e lo trascinò per 200 metri fino al monumento a Vittorio Emanuele: c'è da augurarsi che fosse già morto, perché qui gli cavarono gli occhi e gli strapparono i testicoli[24].
Nella stessa testimonianza, tra gli squadristi che si accanirono sul corpo di Ferrero, veniva indicato Carlo Natoli come il più accanito. Questo Natoli, già presente nella squadra che uccise Andrea Chiomo, era mutilato di guerra: privo di una gamba, infierì sul cadavere di Ferrero zampettando sulle sue stampelle. Un'immagine tragica e grottesca insieme, che da sola rende l'immagine del fascismo.
Abbandonato il cadavere - che verrà notato da un passante e trasportato alla camera mortuaria dell'ospedale San Giovanni - i fascisti tornarono alla Camera del Lavoro e, alle 2 di notte, diedero fuoco all'edificio, impedendo ai vigili del fuoco d'intervenire finché non fu interamente distrutto.
Un mese dopo, all'inchiesta Gasti-Giunta, il vice-questore Tabusso presentò una relazione nella quale, tra l'altro, citò un secondo telegramma trasmesso da Cesare Maria De Vecchi il 19 dicembre nel quale il gerarca « dava la sua completa adesione all'opera delle squadre d'azione, incoraggiandole ». Il Tabusso aggiungeva che pochi giorni dopo la strage, in un teatro torinese, il De Vecchi « alla presenza di migliaia di persone, si assumeva tutte le responsabilità morali e politiche di quanto successo »[25].
Il discorso era stato tenuto il 31 dicembre, dopo la rivolta delle Guardie regie del 28 dicembre, che protestavano contro il decreto di scioglimento del loro corpo. In esso De Vecchi aveva denunciato un connubio tra guardie regie e « sovversivi », connubio che in realtà esisteva solo nella sua fantasia. Colpisce, nel discorso di De Vecchi, la presenza dello stesso frasario utilizzato due anni dopo anche da Mussolini, ad ammissione e giustificazione dell'omicidio di Giacomo Matteotti.
Erminio Andreoni
L'operaio Erminio Andreoni, di 24 anni, abitava in via Alassio 25 con la moglie e il figlio di un anno: i fascisti, dopo averlo già cercato nel pomeriggio del 18 dicembre, lo trovarono a mezzanotte, lo portarono nella campagna vicina e lo uccisero a colpi di pistola. Poi tornarono nella casa e la devastarono.
Matteo Tarizzo
Matteo Tarizzo, 34 anni, aveva lavorato come operaio alla FIAT, poi s'era messo in proprio, aprendo una piccola officina in via Madama Cristina. Di qui tornò la sera tardi nella vicina casa di via Canova 35 e già dormiva quando i fascisti sfondarono la porta.
Lo fecero rivestire e lo portarono in un prato: gli sfondarono il cranio a bastonate e lasciarono sul cadavere alcune copie de «L'Ordine Nuovo», il quotidiano che Tarizzo leggeva abitualmente.
Complessivamente, in quel primo giorno ci furono, ufficialmente, otto morti e quindici feriti, senza contare coloro che, gravi o leggere che fossero state le ferite, preferirono non denunciare le aggressioni cui erano stati vittime per timori di successive, ulteriori rappresaglie. Gli episodi più gravi riguardarono Giacomo Strumia, ferito alla gamba da un proiettile, Luigi Barolo, raggiunto da un colpo di pistola al collo, Luigi Massara, ferito al ventre, e Ferdinando Avanzini e Vincenzo Stratta, colpiti da una pugnalata. Quest'ultimo, pugnalato al petto, riuscì a sfuggire alla squadra fascista: uno dei suoi aggressori, un certo Buo, si suicidò nel 1924, dopo il delitto Matteotti, quando credette che il fascismo fosse ormai finito[26].
La strage: il 19 dicembre
In mattinata, il vice-prefetto Palombo, che sembrava limitarsi a tenere la contabilità dei successi dei fascisti, comunicava a Mussolini che « complessivamente fra i sovversivi risultano ieri, 18 dicembre, uccisi 8 individui ». Il Capo della polizia De Bono, da Roma, ricevuta telefonicamente da un funzionario della Prefettura la notizia che « la città è tranquilla. Vita cittadina normale. Così pure il servizio tranviario », si dichiarava favorevole alla « smobilitazione » fascista; anche l'agenzia di Regime Stefani confermava che « la città è completamente tranquilla ed ha il suo aspetto normale ».
In tanta presunta tranquillità, il quotidiano torinese « La Gazzetta del Popolo » poteva così dedicarsi a esprimere il cordoglio per i due squadristi uccisi dal Prato, e il cronista poteva dar fondo alla sua modesta capacità lirica: « Nella camera ardente della sede del Fascio riposano Dresda e Bazzani. Nella vasta sala, dove penetra per le grandi vetrate tutta la malinconia della triste giornata senza sole, si alzano i drappi neri listati d'oro, infiniti fiori, tra i quali si agitano e si animano le fiamme dei ceri. I due morti hanno raccolto un imponente tributo di compianto e di pietà da un ininterrotto pellegrinaggio di visitatori ».
Non era ancora finita. Nella prima mattinata i fascisti fecero irruzione a « L'Ordine Nuovo »: sequestrati i tre redattori Montagnana, Viglongo e Pastore, più altri tre collaboratori, li portarono alla Casa del Fascio dove erano Brandimarte, Carlo Scarampi e « il traditore » Porro. Qui, legati e bastonati, furono interrogati per sapere dove si trovasse Gramsci. Poi, una breve passeggiata fino al corso Massimo d'Azeglio: fatti allineare sul marciapiede, gli squadristi si apprestarono a fucilarli, ma «arrivò uno con un ordine e, di mala voglia, ci dissero di andarcene - "Per questa volta" »[27].
Angelo Quintagliè
Angelo Quintagliè, 43 anni, era un ex-carabiniere - e perciò leale «al Re e alla Patria», come testimoniò poi la vedova - assunto nelle Ferrovie come usciere: la mattina del 19 dicembre, in quell'ufficio dove il giorno prima era stato sequestrato e poi ucciso Carlo Berruti, chiese informazioni sull'accaduto a un manovale fascista che lì lavorava, un certo Gallegari. Saputo della morte di Berruti, Quintagliè espresse apertamente rammarico e deplorazione. Fu una grave imprudenza.
Un'ora dopo entrarono nell'ufficio sei squadristi che, identificato il Quintagliè, gli si gettarono addosso, tempestandolo prima di bastonate e infine uccidendolo a revolverate. La moglie denunciò inutilmente il fatto: rimasti non identificati gli assassini, la spia Gallegari, denunciato nel 1945 dal figlio di Angelo Quintagliè, scontò due soli anni di carcere[28].
Cesare Pochettino
Cesare Pochettino, 26 anni, era un artigiano che lavorava nella bottega della sorella e del cognato Cesare Zurletti. Quest'ultimo non aveva mai nascosto di avere simpatia per il fascismo, mentre il Pochettino non s'interessava di politica.
Verso mezzogiorno del 19 dicembre, entrambi vennero sequestrati da tre squadristi armati che li condussero nella collina di Valsalice. Protestarono entrambi di non essere « sovversivi », ma non ci fu niente da fare: condotti sul limite di un burrone, gli squadristi spararono: Pochettino, ucciso, rotolò lungo il pendio, lo Zurletti cadde a terra, ferito da quattro colpi sulla schiena. Si salverà, perché i fascisti lo credettero morto.
L'inchiesta del successivo gennaio stabilirà che erano stati « denunciati calunniosamente come comunisti pericolosi » da loro nemici personali.
Pochi, date le circostanze, furono i ferimenti denunciati in quella giornata: una mezza dozzina di operai bastonati e con qualche ferita da coltello.
La strage: il 20 dicembre
Il 20 dicembre Massimo Rocca, dirigente nazionale del Partito fascista, giunge a Torino per partecipare ai funerali dei due fascisti: emana - non si capisce con quale autorità e secondo quale legge - un bando contro tutti i « sovversivi » torinesi: ordina che i loro esponenti più in vista, come Gramsci, Terracini e altri, debbano lasciare la città, mentre tutti gli altri non possano circolare dopo la mezzanotte, a meno che non siano muniti di un salvacondotto rilasciato dal Fascio torinese. Il giorno dopo lo stesso Mussolini revocò il « bando ».
Al funerale, dopo aver reso omaggio ai due « purissimi caduti », comunica di aver mandato un mazzo di fiori alla famiglia di Carlo Berruti, « avversario politico ma amico personale da lunga data ». Rocca ha fama di essere un fascista « dal volto umano », e ci tiene a mantenerla.
Evasio Becchio
I giovani operai Evasio Becchio e Ernesto Arnaud erano in un'osteria di via Nizza, nel tardo pomerriggio del 20 dicembre. Un gruppo di fascisti vi fece irruzione, li prelevò facendoli salire su un camion che li condusse, lungo corso Bramante, in corso Galileo Ferraris. Fatti scendere sul prato che si distende in quel luogo, i fascisti, armati di moschetti e pistole, si disposero a ventaglio e fecero fuoco. Becchio morì sul colpo, Arnaud, ferito, venne ancora colpito da una coltellata che doveva essere il suo colpo di grazia, ma riuscì a sopravvivere.
Per questa aggressione, fu fatto il nome di uno dei responsabili, lo squadrista Mario Platner, che naturalmente sarà prosciolto in istruttoria. Lo stesso risultato fu ottenuto per i pochi individui implicati nell'omicidio di Cesare Pochettino, mandati assolti il 3 maggio 1923.
In questo giorno avvennero poche altre violenze a Torino, normale amministrazione nell'Italia fascistizzata: il prefetto Olivieri, tornato finalmente in sede per « prendere in mano la situazione », poteva trasmettere al ministero degli Interni che erano stati solamente incendiati da un centinaio di fascisti tre circoli comunisti.
Evasio Becchio fu l'undicesima e ultima vittima « ufficiale » della strage, ma sembra che i morti siano stati molti di più.
Dopo la strage
I responsabili
Il "console" Pietro Brandimarte, intervistato il 19 dicembre - il giorno dopo l'inizio della strage - da « Il Secolo » di Milano, dichiarò che per reagire al « vigliacco attentato », circa tremila fascisti erano stati mobilitati: « Abbiamo voluto dare un esempio [...] questa rappresaglia io la ritengo giusta. Noi abbiamo colpito senza pietà chi ci aveva provocato e abbiamo colpito i sovversivi nel loro covo di Barriera di Nizza. I comunisti sono avvisati. Abbiamo l'elenco di tutti loro e se si verificheranno altri incidenti gravi come questi, noi li scoveremo e daremo altri esempi ».
Lo stesso Brandimarte fu ancora più esplicito quasi due anni dopo: il 24 giugno 1924 dichiarò al « Popolo di Roma » che la rappresaglia era stata « ufficialmente comandata e da me organizzata [...] noi possediamo l'elenco di oltre tremila nomi sovversivi. Tra questi tremila ne abbiamo scelto 24 e i loro nomi li abbiamo affidati alle nostre migliori squadre, perché facessero giustizia ».
Dunque, secondo Brandimarte, 24 erano state le persone da uccidere, ma ne furono uccise 22 perché due erano « scampati alla fucilazione ». All'insistenza del giornalista, che gli faceva notare come questura e prefettura avessero comunicato un numero inferiore di vittime, Brandimarte ribadiva con ferma arroganza: « Cosa vuole che sappiano in questura e prefettura? Io sarò ben in grado di saperlo più di loro [...] gli altri cadaveri saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si troveranno nelle fosse, nei burroni o nelle macchie delle colline circostanti ». In effetti, riportava il quotidiano, la maggior parte delle vittime era stata portata in riva al Po o nella collina che sovrasta la città per essere giudicata da una « corte marziale » di squadristi e poi « giustiziata » da un « plotone di esecuzione ».
Brandimarte confermava, infine, che il capo « del fascismo torinese è l'on. De Vecchi. Egli ci ha telegrafato, come è noto, per condividere in pieno la responsabilità della nostra azione »[29].
Dunque, Brandimarte e De Vecchi sono sicuramente i responsabili dell'eccidio. Nessuno ha mai indicato come superiore mandante il nome di Mussolini. Si sa che egli telefonò al prefetto di Torino, un giorno immediatamente successivo alla strage: « Come capo del fascismo mi dolgo che non ne abbiano ammazzati di più; come capo del governo debbo ordinare che vengano rilasciati i comunisti arrestati ».[30]
Un'interessante testimonianza è quella da Federico Picolotti.[31] Socialista, operaio della FIAT, il 19 o 20 dicembre 1922 fu convocato in direzione, dove si trovò di fronte Giovanni Agnelli, altri due dirigenti, e Pietro Brandimarte, rivestito della sua brava divisa nera e grigio-verde con stivaloni e frustino. Questi gli chiese a quale partito appartenesse e alla risposta del Picolotti, dopo aver scorso dei nomi scritti su un suo taccuino, disse che il suo nome non era compreso « tra quelli da ammazzare ». Si offrì di concedergli un salvacondotto, dal momento che i suoi fascisti lo stavano cercando, e si congedò. A quel punto Agnelli rassicurò l'operaio, perché della questione avrebbe parlato con Mussolini. Qualche giorno dopo gli riferì di stare tranquillo, che « nessuno gli avrebbe fatto del male ».
L'amnistia
Se quell'operaio socialista poteva stare tranquillo, ancor di più potevano stare gli assassini: il 22 dicembre il governo Mussolini emanò un decreto di amnistia - il Regio Decreto 1641 del 22 dicembre 1922 - preparato dal ministro di « Giustizia » Aldo Oviglio:[32] i responsabili di reati di natura politica venivano amnistiati, a condizione che i fatti delittuosi fossero stati commessi « per un fine, sia pure indirettamente, nazionale ». Pertanto, i crimini fascisti, essendo stati commessi per fini « non contrastanti con l'ordinamento politico-sociale », non erano punibili, ma non quelli eventualmente commessi da « sovversivi », essendo essi volti ad « abbattere l'ordine costitutivo, gli organi statali e le norme fondamentali della convivenza sociale ». Questo mostro giuridico - che tra l'altro comprometteva politicamente anche quella magistratura non ancora connivente con il Regime, costretta a distinguere tra reati commessi da fascisti o da antifascisti - fu subito controfirmato da re Vittorio.
L'inchiesta fascista
Messi così al sicuro i responsabili degli omicidi, il fascismo poteva anche permettersi un'inchiesta sui fatti, non per accertare il loro reale svolgimento, ma per definire e sistemare i rapporti di potere all'interno del Fascio torinese. Una parte di quei dirigenti, il segretario Mario Gioda in testa e la corrente minoritaria della cosiddetta « sinistra » fascista, non sopportava infatti lo strapotere del quadrumviro De Vecchi e cercò, con il pretesto degli « eccessi » delle azioni squadristiche, di limitarne il ruolo e, se possibile, di farlo cadere in disgrazia presso lo stesso Mussolini.
L'inchiesta svolta da Francesco Giunta, della Direzione nazionale del PNF, e dal questore Giovanni Gasti, iniziata il 2 gennaio 1923, si concludeva il 6 gennaio con la stesura di una relazione che venne esaminata dal Gran Consiglio del fascismo il successivo 13 gennaio. Già il 4 gennaio il Giunta aveva anticipato le conclusioni dell'inchiesta con un telegramma al sottosegretario agli Interni Finzi: vi definiva « selvagge » le azioni degli squadristi e comunicava di aver disposto il loro disarmo, malgrado l'opposizione di De Vecchi.
La relazione definiva gli omicidi di dicembre « sbrigliamento da ogni freno morale » che aveva portato « a errori inconcepibili, a scambi di persone e al sacrificio di vittime innocenti, consumato in circostanze di tale efferatezza da insinuare nell'animo un senso di invincibile angoscia ». La relazione riconosceva un fatto importante: la strage fu « l'effetto, calcolato e voluto, sia pure come sanzione punitrice e giustiziera, delle deliberazioni di uomini che avevano una responsabilità di decisione e di comando, di vigilanza e di guida, che dovevano essere pienamente consapevoli delle conseguenze morali, giuridiche e politiche dei loro ordini [...] La premeditazione o l'incoscienza del Direttorio del Fascio torinese [leggi: De Vecchi] e del Comando della Legione [leggi: Brandimarte] incute raccapriccio e sgomento ».
L'attacco a De Vecchi era diretto e tanto più violento in quanto s'insinuava un suo frondismo nei confronti dello stesso Mussolini: De Vecchi aveva esercitato « una vera e propria opera di dittatura e sopraffazione, appoggiandosi sulle squadre a lui completamente asservite [...] le squadre sarebbero giunte a tal segno di insofferenza [nei confronti di altri fascisti] da minacciare nella vita chiunque osasse dissentire ». La relazione indica esplicitamente lo scopo perseguito da De Vecchi: egli è « un avversario dell'on. Mussolini » e « un possibile concorrente. Egli ambiva a diventare ministro e l'essere stato scartato avrebbe suscitato in lui un malcelato rancore. L'on. De Vecchi avrebbe lasciato comprendere di potere esercitare un'influenza superiore a quella dello stesso presidente del Consiglio: di aspirare con fondatezza al posto di ministro e, facendo assegnamento sull'amicizia del Sovrano e degli altri membri della Famiglia Reale e sulla parentela col fu ministro Lanza, di potere, in un prossimo domani, essere designato quale sicuro capo di Governo ».
La documentazione della seduta del Gran Consiglio che esaminò la relazione Giunta-Gasti non è pervenuta: fu evidentemente distrutta a suo tempo per eliminare quanto di penalmente rilevante poteva essere contenuto in quei verbali. Ma le decisioni prese attestano che De Vecchi riuscì vincitore nello scontro con i suoi avversari interni: il Fascio torinese fu sciolto ma ricostituito ai vertici con uomini della sua corrente. De Vecchi, rimasto comandante della Milizia e ras piemontese, confermò Piero Brandimarte come console della Milizia e quadrumviro del Direttorio torinese: a « pagare » - per modo di dire - per la loro opposizione al duo De Vecchi-Brandimarte, furono quattro funzionari Franco Fiore, Mario Gobbi, Pietro Gorgolini e un certo Cherasco, successivamente reintegrati, e il vice-questore Tabusso, curiosamente reo di aver fatto proprio quello che i fascisti gli chiedevano, cioè di stare a guardare.
La caduta del fascismo
Un'altra seduta del Gran Consiglio del fascismo - quella della notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943 - provocò la provvisoria caduta di Mussolini e del fascismo. Tra i firmatari dell'ordine del giorno Grandi era stato anche il gerarca Cesare De Vecchi, il quale poi, spaventato come gli altri dal suo gesto, si era stabilito in Val d'Aosta, luogo privilegiato per essere al confine con la neutrale e accogliente Svizzera.
Il 20 agosto 1943 un articolo della rifondata « Gazzetta del Popolo » ricordava le responsabilità sue e di Brandimarte nella strage del dicembre 1922. Dal suo rifugio valdostano rispose il 23 agosto con una lettera nella quale negava sfacciatamente non solo di averli predisposti, ma persino di averli approvati, e mentiva spudoratamente sostenendo di aver « preso misure contro i responsabili » della strage. Ammetteva bensì solo quello che non poteva smentire, ossia di averne « assunta la responsabilità politica al di là di ogni giudizio del bene o del male, perché ho sostenuto che su chi ha tempra del Capo tali responsabilità deve sempre gravare ». Ricordava anche un altro suo discorso, tenuto a Torino nell'aprile del 1923, nel quale aveva sostenuto la necessità, per reprimere le opposizioni, di « trovare sempre mezz'ora di stato d'assedio e un minuto di fuoco ». Veramente, nel suo discorso del 1923, i minuti di fuoco erano cinque: ma che cos'era quel pudico « minuto di fuoco » se non l'esplicita ammissione, giustificazione e incoraggiamento dell'omicidio come prassi di azione politica?
Giovanni Roveda, già segretario della Camera del Lavoro di Torino all'epoca della strage, commentava le affermazioni dell'ex-gerarca con una lettera indirizzata al « Giornale d'Italia » il 30 agosto. Ricordava le bugie del De Vecchi - « il lupo inferocito contro la classe operaia torinese e contro il popolo italiano si mette a belare da agnellino: l'uomo più di tanti altri responsabile di tanto sangue innocente sparso ora si indigna anche al ricordo dei famosi "cinque minuti di fuoco" e grida no, non è vero, ne voleva - bontà sua - uno solo » - e annunciava di aver sporto denuncia contro De Vecchi, Brandimarte e gli altri responsabili.
Con l'inizio dell'inchiesta e, soprattutto, con l'instaurazione della Repubblica di Salò e a seguito della sua condanna a morte decretata nel processo di Verona, questa « tempra di Capo » e indomito sprezzatore del pericolo che aveva sempre goduto della benevolenza e della protezione della Chiesa, si nascose in un convento. Poi, con falsi documenti procuratigli dai salesiani, fuggì in Paraguay, il paradiso, allora, dei criminali nazisti.
Note
- ↑ Tutte le fonti non ufficiali dell'epoca, anche di parte fascista, riferirono di almeno 22 vittime.
- ↑ Alla fine di dicembre verrà istituita la Milizia Nazionale e vennero soppresse le Guardie regie, un'iniziativa che provocò rivolte tra le guardie, soffocate dall'intervento dell'Esercito.
- ↑ Da velites, gli antichi soldati romani armati alla leggera, incaricati di effettuare brevi e rapidi assalti contro il nemico.
- ↑ G. Carcano, cit., p. 22. Per altro, l'ala sinistra dei popolari, rappresentata da Guido Miglioli, era contraria a qualunque accordo con i fascisti.
- ↑ In Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I, p. 230.
- ↑ Amadeo Bordiga, Il processo ai comunisti e gli altri, in «Lo Stato Operaio», I, 11, 8 novembre 1923.
- ↑ G. Carcano, cit., p. 12. Fu il padre di Giulio Caradonna, a lungo deputato del MSI.
- ↑ Padre di un attivo militante comunista, Giuseppe Longo, cugino del futuro segretario del PCI Luigi.
- ↑ Esiste, nell'antifascismo italiano, un omonimo Francesco Prato (Mondovì, 4 maggio 1894 - Vicoforte di Mondovì, 29 aprile 1945), ucciso dai Tedeschi. Cfr. la biografia dell'ANPI. Da notare che i due Prato sarebbero stati entrambi « Guardie rosse » e avrebbero svolto attività di difesa della sede de « L'Ordine Nuovo »: non sembra impossibile che vi sia stata una confusione nella loro biografia di quegli anni.
- ↑ Mario Segre, « l'Unità », 5 agosto 1924.
- ↑ Al Bazzani fu anche intitolata, fino alla Liberazione, la popolare via Saluzzo, nel quartiere torinese di San Salvario.
- ↑ Per tutta questa vicenda, cfr. Giancarlo Carcano, Strage a Torino. Una storia italiana dal 1922 al 1971, pp. 43-52.
- ↑ La cerimonia è descritta nella « Gazzetta del Popolo » del 18 dicembre 1922.
- ↑ Umberto Massola, in « L'Antifascista », dicembre 1962.
- ↑ G. Carcano, cit., pp. 64-65.
- ↑ Detto Pietro: su di lui cfr. la nota biografica dell'ANPI.
- ↑ In G. Carcano, cit., pp. 59-60.
- ↑ Notizie sulla composizione delle squadre fasciste sono contenute in Dante Maria Tuninetti, Squadrismo, squadristi, piemontesi, Roma, Pinciana 1942.
- ↑ Lo squadrista e poi repubblichino F. G., importante esponente del fascismo piemontese che non volle che fosse pubblicato il suo nome in un'intervista concessa nel 1972, dichiarò che in quei giorni il Porro, appartenente alla squadra « Enrico Toti » indicò delle persone, ma « non ammazzò nessuno ». Va tenuto conto che quando l'intervista fu rilasciata l'ingegner Luigi Porro, dirigente d'azienda, era ancora vivo. Cfr. G. Carcano, cit., p. 112.
- ↑ Al tempo, giovane operaia comunista che poi sposò Luigi Longo e divenne una dirigente di primo piano del PCI.
- ↑ G. Carcano, cit., p. 115.
- ↑ Dalla relazione dell'inchiesta Gasti-Giunta.
- ↑ Andrea Viglongo, intervista del 23 ottobre 1971, in G. Carcano, cit., pp. 82-83.
- ↑ Secondo la deposizione del deputato socialista Filippo Amedeo all'inchiesta Giunta-Gasti, gennaio 1923, in G. Carcano, cit., p. 85.
- ↑ In G. Carcano, cit., pp. 91-92.
- ↑ G. Carcano, cit., pp. 66-70.
- ↑ A. Viglongo, in G. Carcano, cit., p. 91.
- ↑ G. Carcano, cit., pp. 92-94.
- ↑ G. Carcano, cit., pp. 98-99.
- ↑ « Il Risorgimento », 1 maggio 1925.
- ↑ Rilasciata a l'«Avanti!» il 21 marzo 1947.
- ↑ Questo decreto sarà revocato il 27 luglio 1944. L'Oviglio (1873-1942), fascista della prima ora, cercò di separare le sue responsabilità dal fascismo, dimettendosi dopo il delitto Matteotti: quando si avvide che il fascismo aveva superato anche quella prova, ritornò tra le sue fila e fu nominato senatore.
Bibliografia
- Francesco Antonio Repaci, Terrorismo fascista: la strage di Torino del 1922, Torino, Eclettica 1945
- Walter Tobagi, Gli anni del manganello, Milano, Fratelli Fabbri Editore, 1973
- Giancarlo Carcano, Strage a Torino. Una storia italiana dal 1922 al 1971, Milano, La Pietra 1973
- Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, 5 voll., Torino, Giulio Einaudi 1967-1975 ISBN 8806138774