Antonio D'Alba

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Antonio D'Alba

Antonio D'Alba (Roma, 4 dicembre 1891 - Roma, 17 giugno 1953), di mestiere muratore, è stato un anarchico italiano. A Roma, il 14 marzo 1912, attentò alla vita di Vittorio Emanuele III sparandogli due colpi di rivoltella. Il re uscì indenne, ma D'Alba fu catturato e condannato ai lavori forzati.

Biografia

Antonio D'Alba nasce a Roma il 4 dicembre 1891 da Cesare, di professione guardiano/giardiniere, e Cristina Bellante, portinaia. A causa delle difficoltà economiche in cui versa la famiglia, sin dalla tenera età di 11 anni comincia a lavorare come manovale edile. A 15 anni cominciano per lui i primi guai con la giustizia: il 3 gennaio 1906 viene condannato a sei giorni di reclusione per furto. In seguito sarà ancora condannato per furto e per maltrattamenti ai genitori.

L'anarchismo

Intorno i 17 anni si avvicina all'anarchismo, anche se non proprio con una militanza attiva. Il 21 febbraio 1910, la questura di Roma propone per lui la vigilanza speciale, ma l'autorità giudiziaria rifiuta di applicare la misura restrittiva perché riteneva che negli ultimi tempi si fosse ravveduto. In effetti, Antonio D'Alba aveva continuato ad esercitare la professione di muratore senza essere segnalato agli organi di polizia per nessun motivo, fino a quando, d'improvviso, mette in atto a Roma un clamoroso attentato contro il re Vittorio Emanuele III..

L'attentato e le immediate conseguenze

Il mattino del 14 marzo 1912, l'anarchico romano, dopo essersi nascosto tra le colonne di palazzo Salviati, si fa largo tra la poca gente presente al passaggio del corteo reale ed esplode due colpi di rivoltella contro la carrozza in cui era Vittorio Emanuele III. Il re e la regina si stavano recando al Pantheon per assistere ad una messa funebre in suffragio di Umberto I, ucciso 12 anni prima dall'anarchico Gaetano Bresci; entrambi escono indenni, due dei due colpi esplosi feriscono invece un maggiore dei corazzieri e un cavallo della scorta. Antonio D'Alba viene immediatamente bloccato e percosso dalla gente accorsa.

Arrestato, D'Alba manifesta una personalità che sconcerta le autorità, alternando dichiarazioni sulla propria appartenenza all'anarchismo ad atteggiamenti al limite dello squilibrio mentale, talvolta dichiarando di avere agito da solo e tal'altra di avere avuto complici e mandanti. La polizia indirizzerà le proprie indagini verso la Svizzera, dove l'attentato aveva prodotto un certo entusiasmo tra gli anarchici italiani emigrati.

Alla fine le indagini porteranno a stabilire che, con buone probabilità, l'attentato fu l'azione diretta di una singola individualità, ma ciò ebbe comunque conseguenze importanti per la vita politica italiana. Innanzitutto, a causa dell'attentato di D'Alba, si incrinano i rapporti tra il capo del govenro Giolitti e il re, essendo emerse palesi manchevolezze nell'apparato di polizia (il questore di Roma fu sostituto); poi l'attentato sarà la causa indiretta dell'espulsione dal partito socialista di Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi e Angiolo Cabrini, che si erano felicitati con Vittorio Emanuele per lo scampato pericolo.

Il processo e la condanna

In attesa del processo, Antonio D'Alba tenta il suicidio, ma senza riuscire a portarlo a termine. L'8 ottobre 1912, davanti ai giudici della corte d'assise di Roma, proclama la sua fede nell'anarchismo, dichiarando sprezzantemente di aver agito da solo. La sua difesa viene assunta dall'avvocato socialista Enrico Ferri, che fonderà il processo sull'incapacità di intendere e volere del D'Alba. Per Ferri l'accusato non è «né delinquente nato né delinquente passionale, né delinquente politico», ma soltanto un «cervello instabile e semioscuro», uno dei «miseri abbandonati dalla famiglia nel fango della strada».

Il processo è breve e si conclude il 9 ottobre 1912 con la condanna dell'anarchico a trent'anni di carcere e a tre anni di vigilanza speciale. All'imputato non viene riconosciuta nessuna attenuante, esclusa la minore età, in virtù del quale non gli viene comminato l'ergastolo. Trasferito nel carcere di Noto (prov. Siracusa), D'Alba minaccia più volte il suicidio giacché l'isolamento era molto duro ed equiparabile a vera e propria tortura fisica e psicologica. Il 21 gennaio 1914 gli viene finalmente tolto l'isolamento e viene posto sotto stretta sorveglianza.

In carcere riceve molta solidarietà dai militanti anarchici, compreso anche somme di denaro. Il 25 giugno 1920, per paura che improvvise proteste popolari potessero provocarne la liberazione, Antonio D'Alba viene trasferito nella prigione di S. Stefano, dove vi rimane fino al 31 ottobre 1921, quando viene dimesso in seguito a provvedimento di grazia.

Gli ultimi anni

Ritornato a Roma, Antonio D'Alba manifesta segni di squilibrio mentali. Viene posto sotto stretta osservazione medica e gli viene diagnosticato uno stato di demenza precoce. Nel dicembre 1921 viene rinchiuso in manicomio. Le sue condizioni generali col tempo peggiorano sempre più. Diventa cieco e sordo ma mentalmente pare più stabile (a quanto riferiscono i medici), per questo passerà il resto della sua vita nel reparto "tranquilli".

Antonio D'Alba muore nel manicomio di Roma, all'età di sessantadue anni, il 17 giugno 1953.

Bibliografia

  • Luigi Balsamini, Antonio D'Alba: storia di un mancato regicidio, CSL Camillo Di Sciullo, Chieti, 2004.
  • R. Bracalini, Il re "vittorioso". La vita, il regno e l'esilio di Vittorio Emanuele III, Milano 1980.
  • L. Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione, Bari 1969.
  • Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, Milano 1969.
  • L. Salvatorelli, Storia del Novecento, Milano 1957.

Voci correlate

Collegamenti esterni