Violenza

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13 maggio 1985: la polizia reprime violentemente il MOVE (organizzazione politica radicale afroamericana, ispirata ai principi della black liberation e dell'ecologismo radicale)

Il sociologo pacifista Galtung ha elaborato un'interessante definizione di "violenza". La parola violenza deriva dal termine latino violentum, e quindi dal verbo violare, che rinvia a vis, ossia forza, prepotenza. La violenza quindi, indipendentemente dalla sua legittimità, può esser definita come un certo uso della forza. A stabilire quando questa sia o non sia un abuso da parte di un soggetto (individuale o sovraindividuale) provvede l'opinione del singolo, la morale religiosa e/o la legge dello Stato. Questa relatività ha sviluppato ampi dibattiti nel corso della storia.

Una definizione

Johan Galtung definisce la violenza come "un insulto evitabile ai bisogni umani di base": sopravvivenza, benessere, identità e libertà.

Egli distingue tre forme di violenza:

  1. violenza diretta: è il tentativo deliberato di causare danno all'integrità fisica e psichica di una persona attraverso maltrattamento, omicidio, imprigionamento, lavoro forzato ecc.
  2. violenza strutturale: ha a che fare con il 'normale' e quotidiano funzionamento di istituzioni e scelte politiche. Ad esempio, che le donne afro-americane abbiano una probabilità due volte maggiore di morire di cancro al seno di quelle europee-americane a causa della qualità più bassa delle cure mediche, è una forma di violenza strutturale. Infatti il meccanismo 'normale' delle nostre istituzioni economiche causa un aumento significativo dei rischi di cancro, malattie cardiache, AIDS, depressione, minacce ambientali e morte prematura per i poveri. L'uso che facciamo delle automobili, per fare un terzo esempio, comporta la morte 'accettabile' di 50.000 persone ogni anno.
  3. violenza culturale: comprende il razzismo, il sessismo e l'omofobia, la svalutazione di culture e gruppi particolari; essa può ispirare e giustificare la violenza diretta e strutturale. [1]

Violenza di Stato e violenza politica

Exquisite-kfind.png Vedi Violenza della polizia.
Il corpo di Federico Aldrovandi, uno studente di 18 anni ucciso da quattro poliziotti

Secondo la definizione classica di Max Weber nel suo La politica e la scienza come professione (1919), « lo Stato rivendica il monopolio della violenza legittima». Storicamente, lo Stato moderno è stato costruito sulle macerie di precedenti organizzazioni sociali (feudalesimo ecc.) ed ha poi assunto il "diritto" di utilizzare la violenza per il proprio tornaconto.

L'uso e l'abuso di questo monopolio da parte dello Stato, ha comportato spesso la morte o la sofferenza fisica di moltissime persone "colpevoli" di manifestare in piazza (es. Franco Serantini) o di essere anarchici (es. Giuseppe Pinelli), di voler salvaguardare il proprio territorio (es. Movimento No Tav [2]), di essere migranti [3], carcerati (es. Marcello Lonzi [4]), rom [5] o semplicemente dei passanti (es. Federico Aldrovandi).

Violenza del capitalismo

Exquisite-kfind.png Vedi Stragi capitaliste.

Il capitalismo causa ogni anno molti morti o feriti, spessissimo catalogate ipocritamente dai media come "morti bianche". Con questo termine ci si riferisce alla morte di persone avvenute luogo di lavoro, generalmente a causa della totale o parziale mancanza di rispetto delle più elementari norme di sicurezza. Per il capitalista investire in sicurezza significa ridurre i profitti e per questo preferisce trascurare tale aspetto, spesso con il silenzio dei sindacati e delle istituzioni.

I morti sul lavoro in Italia ammontano mediamente a circa 1.300-1.400, secondo i dati ufficiali riferiti al triennio 2003-2005, ovvero circa 4 morti al giorno; il numero dei morti è talmente alto che il sistema capitalistico ha dovuto dedicare un'ipocrita giornata per la "sicurezza sul lavoro". A questo conteggio vanno aggiunti circa 300 morti dovuti a malattie professionali. L'ILO fa una stima di oltre 13 mila morti l'anno per esposizione a sostanze chimiche.

Violenza contro gli animali

Exquisite-kfind.png Vedi Specismo e Antropocentrismo.
Violenza sugli animali: esperimento su primate (1961).

Nel panorama delle violenze di stato e del capitalismo, alcuni anarchici estendono il concetto di violenza, nonché quello di eguaglianza e antiautoritarismo, anche agli animali non umani. Questi, infatti, rifiutando qualsiasi idea o pratica di dominio, rifiutano anche nella vita quotidiana di partecipare attivamente o passivamente a qualsivoglia sfruttamento, e alcuni lottano attivamente alla loro liberazione. Diverse sono state le personalità di tendenze anarchiche e libertarie che si sono battuti per la liberazione animale. Alcuni sono morti per questo, come ad esempio Barry Horne, che si lasciò morire di fame per l'abolizione della vivisezione; alcuni altri invece, quasi sempre, hanno trovato ostacoli nella repressione, soprattutto nelle "frange" radicali, ossia quelle che portano la lotta in una posizione contraddittoria col sistema nel suo inseme e che, quindi, vengono interpretati nelle azione e nei pensieri obsoleti (o illegali e violenti) e sconvenienti.

Queste posizioni vengono dalla presa di coscienza di diversi fattori, tra i quali vi sono le condizioni di miliardi di esseri senzienti che, silenti, vengono usati esattamente come risorse ed estrapolati dal loro contesto naturale e/o sociale appropriato, e sui quali viene quindi usata violenza (nonostante ciò, il fatto che gli animali non umani siano esseri senzienti e che provino tutto lo spettro delle emozioni che prova l'uomo, raramente è ridotta a mera prova scientifica, ma viene soprattutto vissuta come frutto di empatia e posizioni anti-autoritarie); un'altro fattore sono spesso le posizioni anti-autoritarie stesse, che, talvolta accompagnate da prese di coscienza ecologiche radicali e anarchiche, sono quello che spinge la lotta per la liberazione animale a muoversi nel grande movimento sociale o individuale anti-autoritario e radicale.

La posizione degli anarchici

Esempio di violenza usata dalle forze dell'ordine in tenuta antisommossa contro il movimento No TAV in Val di Susa. Nell'immagine si vede un poliziotto che senza remore spara lacrimogeni altamente tossici sui manifestanti

Esistono anarchici che invece ritengono maggiormente coerente la loro posizione, rifiutando la violenza anche come mezzo: sono gli anarco-pacifisti, tra cui non possiamo non ricordare Tolstoj. [6]

Contrariamente al luogo comune che dipinge il movimento anarchico come incline alla violenza e all'uso della forza per valere le proprie ragioni [7], gli anarchici, di qualsiasi tendenza o corrente, sono non-violenti rispetto al fine preposto. Ci sono anarchici che ritengono legittimo l'uso della forza, ma sempre come mezzo e non come fine: non esiste alcun anarchico, da poter esser definito tale, che promuova la costruzione di una società fondata sulla violenza. Tutti gli anarchici auspicano una società umana fondata su rapporti interpersonali non-violenti e capace di dirimere le questioni interne con metodi pacifici.

Esiste indubbiamente nella tradizione anarchica una certa tendenza alla violenza iconoclasta o agli attentati contro i simboli del potere (siano essi esseri umani o oggetti), tuttavia storicamente mai si è cercato di far del male a degli innocenti. Quando, assai raramente, è capitato che un attentato abbia colpito nel mucchio (probabilmente più per negligenza o per casualità che per un'esplicita volontà dell'attentatore), come per esempio l'attentato al teatro Diana del 23 marzo 1921 [8], sono stati sempre condannati dalla stragrande maggioranza del movimento, anche se questo non necessariamente significa che gli attentatori siano stati abbandonati a sé stessi o giudicati indegni di essere chiamati anarchici.

Malatesta e la coerenza mezzi-fini [9]

Errico Malatesta afferma la necessità di una coerenza tra mezzi e fini:

«Ogni fine vuole i suoi mezzi [perché], stabilito lo scopo a cui si vuol raggiungere, per volontà o per necessità, il gran problema della vita sta nel trovare il mezzo che secondo le circostanze conduce con maggior sicurezza e più economicamente allo scopo prefisso. Dalla maniera con cui viene risolto questo problema dipende, per quanto può dipendere dalla volontà umana, che un uomo o un partito raggiunga o no il suo fine, che sia utile alla sua causa o serva, senza volerlo, alla causa nemica». [10]
«È certo che i fini e i mezzi sono collegati tra loro da un nesso intimo, il quale fa sì che per ogni fine vi sia un mezzo che meglio gli conviene, come ogni mezzo tende a realizzare il fine che gli è naturale, anche senza e contro la volontà di coloro che lo adoperano». [11]

Se l'anarchia vuol dire per principio «non-violenza, non-dominio dell'uomo sull'uomo, non imposizione per forza di uno o di più su quella degli altri» [12], come va usato il mezzo della violenza senza farsi sopraffare dalla sua logica? Dove inizia e dove finisce la sua necessità? E chi ha il diritto di usarlo? Per Malatesta la forza, in questo caso la violenza, non può superare gli ambiti della sua funzione negativa, che le deriva dall'essere uno strumento dell'anarchismo, non certo un elemento costitutivo dell'anarchia. Ecco quindi la necessità di affermare che «la nostra violenza è, per così dire, negativa: serve a distruggere quegli ordinamenti che per mezzo della forza organizzata in governo costringono gli uomini a subire la volontà altrui e a farsi sfruttare dagli altri». [13]

Date queste premesse, Malatesta non può che considerare la violenza rivoluzionaria «una dura necessità» per evitare, appunto, di «scambiare il mezzo col fine». [14] «Necessaria purtroppo per resistere alla violenza [altrui], non serve per edificare niente di buono: essa è la nemica naturale della libertà, la genitrice della tirannia e perciò deve essere contenuta nei limiti della più stretta necessità. La rivoluzione serve, è necessaria, per abbattere la violenza dei governi e dei privilegiati; ma la costituzione di una società di liberi non può essere che l'effetto della libera evoluzione». [15]

La violenza deve essere predicata e preparata «se non vogliamo che l'attuale condizione di schiavitù larvata, in cui si trova la grande maggioranza dell'umanità, perduri e peggiori. Ma essa contiene in sé il pericolo di trasformare la rivoluzione in una mischia brutale senza luce d'ideale e senza possibilità di risultati benefici; e perciò bisogna insistere sugli scopi morali del movimento e sulla necessità, sul dovere di contenere la violenza nei limiti della stretta necessità. Noi non diciamo che la violenza è buona quando l'adoperiamo noi ed è cattiva quando l'adoperano gli altri contro di noi. Noi diciamo che la violenza è giustificabile, è buona, è morale, è doverosa, quando è adoperata per la difesa di sé stesso e degli altri contro le pretese dei violenti; è cattiva, è immorale se serve a violare la libertà altrui». [16] «Noi consideriamo la violenza necessaria e doverosa per la difesa, ma solo per la difesa. Tutta la violenza necessaria per vincere, ma niente di più o di peggio». [16] Del tutto logicamente, arriva a concludere: «se per vincere si dovesse elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere». [17]

L'azione anarchica, quindi, deve contemplare la violenza come necessità di liberazione dalla violenza dei governi e dei padroni, non però per edificare l'anarchia. Per l'anarchismo essa è un mezzo che non va rifiutato "a priori" perché, se la non-violenza è un valore costitutivo dell'anarchia, questa, tuttavia, ha altri valori più grandi da anteporre, quali la libertà, l'uguaglianza e la stessa dignità dell'uomo. In questo senso «la violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia criminale [...] perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri». [12] La necessità della violenza, pertanto, si giustifica come "extrema ratio", quasi come riluttante considerazione dell'impossibilità di fare altrimenti: «perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l'altro a lavorare per lui ed a servirlo, l'altro, se vuole conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati». [12]

Addirittura, la violenza diventa un imperativo morale, quando si è posti nella situazione di potere agire attivamente per impedire l'ulteriore propagarsi della sopraffazione: «il non resistere al male attivamente, cioè in tutti i modi possibili e adeguati, in teoria è assurdo, perché in contraddizione collo scopo di evitare e distruggere il male, ed in pratica è immorale perché rinnega la solidarietà umana ed il dovere che ne consegue di difendere i deboli e gli oppressi». [18] Malatesta, però, non riesce a definire ulteriormente il concetto di difesa e gli ambiti entro cui questa diventa legittima, se non nel senso di considerare come difesa ogni azione di liberazione dallo sfruttamento e dall'oppressione; concetto del tutto generico. Soprattutto non riesce a stabilire chi ha il diritto di esercitare la violenza. Infatti, rimanendo al suo criterio, questo diritto dovrebbe essere solo di coloro che subiscono lo sfruttamento e l'oppressione, vale a dire le masse popolari. Ma, più che le masse popolari, a rivendicare l'uso della violenza è in realtà chi parla ed agisce in loro nome, cioè i rivoluzionari di professione. Malatesta da un lato rivendica la legittimità della violenza da parte degli oppressi, dall'altro deve poi riconoscere che ad esercitarla veramente non è chi la subisce. Egli infatti non può sfuggire dalla realistica consapevolezza che la vera lotta è tra le minoranze agenti e coscienti.

Note

  1. Fonte: Dieci ragioni perché è difficile reagire alla violenza strutturale
  2. Video: un poliziotto spara un lacrimogeno su un cameraman
  3. Migrante muore per sfuggire ad un controllo
  4. Il caso di Marcello Lonzi
  5. Violenze della polizia contro donne e bimbi dentro il campo rom Triboniano a Milano
  6. Tolstoj, gli anarchici e la violenza, di Piero Brunello (A - Rivista Anarchica, anno 34, n. 297, marzo 2004)
  7. Metteva in guardia contro questo pregiudizio, che rischia di far trascurare la portata teorica del pensiero anarchico, già il giurista tedesco Rudolf Stammler nel 1894: «Il numero crescente di tentativi di assassinio e di attentati criminali provenuti recentemente dalla parte anarchica hanno fatto nascere in ampie cerchie l'idea che l'anarchismo sia soltanto una banda di fanatici mezzi matti e illusi. È stato completamente dimenticato - o forse non è mai stato particolarmente conosciuto - che c'è una teoria dell'anarchismo che gioca sempre un ruolo altamente significativo nella filosofia sociale» (Die Theorie des Anarchismus, Verlag von O. Häring, Berlino, 1894, pag. 1).
  8. La strage del Diana
  9. Fonte: Giampietro Berti, Mezzi e fini: il problema della violenza, in Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, vol. II
  10. Malatesta, Un po' di teoria, in En-Dehors, Parigi, 17 agosto 1892
  11. Malatesta, Socialismo e anarchia, in L'Anarchia, Londra, agosto 1896
  12. 12,0 12,1 12,2 Malatesta, Anarchia e violenza, in Pensiero e Volontà, Roma, 1 settembre 1924
  13. Malatesta, La questione della terra, in Umanità Nova, Milano, 19 maggio 1920
  14. Malatesta, Errori e rimedi, in L'Anarchia, Londra, agosto 1896
  15. Malatesta, Ancora sulla rivoluzione in pratica, in Umanità Nova, Roma, 14 ottobre 1922
  16. 16,0 16,1 Malatesta, Morale e violenza, in Umanità Nova, Roma, 21 ottobre 1922
  17. Malatesta, Il terrore rivoluzionario, in Pensiero e Volontà, Roma, 1 ottobre 1924 (sul problema della violenza nel pensiero di Malatesta cfr. Fabbri, L'uomo e il pensiero, pp. 140-149 e Richards, L'importanza di Malatesta per gli anarchici di oggi, in E. Malatesta, Vita e idee, a cura di Vernon Richards, Pistoia, 1968, pp. 345-355)
  18. Malatesta, Cristiano?, in Pensiero e Volontà, Roma, 16 aprile - 16 maggio 1925

Voci correlate

Collegamenti esterni