Gennaro Rubino o l'ebbrezza della provocazione (da anarcotico.net)

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Gennaro Rubino o l'ebbrezza della provocazione

L'inclito e contegnoso e sdilinquito storico "anarchico" Pier Carlo Masini, da tutti rispettato e ammirato, teorizzatore della formazione e della necessità di un partito socialista libertario riformista e della naturale ed indispensabile convergenza tra gli anarchici e i socialdemocratici di Giuseppe Saragat, egli stesso a lungo funzionario del PSDI pur continuando a professare la sua fede anarchica (?), ci ha lasciato in ogni caso un'opera straordinaria e fondamentale, la Storia degli anarchici italiani nell'epoca degli attentati, Rizzoli Editore, Milano 1981, dalla quale però occorre sceverare, vagliare e setacciare lungamente per depurare dalle considerazioni personali dell'autore, liquidatorie ed insultanti a carico dei propagandisti del fatto e dei migliori e più puri tra loro, tra i quali immenso rifulge il nostro diletto Luigi Luccheni, i fatti semplici e belli. Ecco, tra questi, emerge luminescente un altro atto di rivolta, a tutto, a tutti, contro lo stesso buon costume e curato ma graduale rivoluzionarismo proprio degli anarchici organizzatori malatestiani, reduci dai bagordi "partitici" e "programmatici" e "tattici" del Congresso di Capolago (1891).

Oggi, 15 Novembre 2002, ricorre il centenario dell'attentato smanioso e triste che stiamo per narrarvi. Infatti, il 15 Novembre 1902, a Bruxelles il corteo reale, di ritorno da una cerimonia religiosa, venne fatto segno a tre colpi di pistola esplosi da uno degli spettatori. La carrozza del re del Belgio Leopoldo II, la prima del corteo, uscì indenne e i colpi raggiunsero solo la terza carrozza senza far vittime. L'attentatore, sottratto a fatica al linciaggio, venne subito identificato in Gennaro Rubino, quarantatreenne, di Bitonto (Bari), emigrato da tempo a Londra e indicato come anarchico. Ma l'appartenenza di Rubino al movimento anarchico era disconosciuta da tutti gli anarchici militanti, poiché egli stesso, prima sospettato e poi messo alle strette dai compagni, aveva finito per ammettere di essere stato un tempo al soldo di un famoso ispettore di polizia italiano, Ettore Prina, operante presso il Consolato italiano di Londra. Ma aveva soggiunto che, nel praticare gli anarchici, era stato affascinato dalle loro idee e se aveva continuato nel suo servizio di informatore, lo aveva fatto solo per infiltrarsi nell'apparato della polizia, identificare le vere spie e infine aiutare i compagni con i soldi del governo (cosa che aveva effettivamente fatto). Tutto questo era risultato alcune settimane prima dell'attentato e i giornali anarchici, come Il Grido della Folla di Milano e La Rivoluzione Sociale di Londra erano usciti con una pubblica diffida nei confronti del Rubino.

Il caso si presentava difficile e oscuro, anzitutto perché il Rubino arrivato in Inghilterra da socialista (aveva un bambino di nome Marx) era un personaggio ambiguo e cupo. Ma con facilità e candore aveva ammesso la sua colpa ed aveva perfino collaborato alle indagini contro sé stesso fornendo agli accusatori lettere del Prina. Dopo l'attentato egli dichiarò di «avere agito da solo, senza mandato e di essere un anarchico isolato» ma gli anarchici ufficiali non lo riconobbero dei loro. E realmente egli era un anarchico isolato, espressione di un anarchismo solingo, eremitico, anacoretico, misantropico, appartato, indipendente, eretico, intransigente, autonomo, senza referenti e referenze, asociale, anomalo e anomico, prefigurazione perplessa, magnifica e clangorea dell'Anarca jungeriano.

Pier Carlo Masini (foto Archivio famiglia Masini,Cerbaia Val di Pesa)

Lo stesso Giuseppe Ciancabilla, sempre prodigo di affetto per tutti gli sventurati insorti o in via di insurrezione, diffidente e disincantato, reso astioso da malinteso senso di solidarietà e consonanza nei confronti degli amici di campo anarchico delle altre tendenze, fu influenzato in questo frangente dalla tendenza meno desiderosa d'azione, avversa alle rivolte individuali e più propensa ad un'opera pedagogica ed educazionista nei confronti delle "masse", opera come sempre vana, archetipica dei soliti (diranno che siamo monotoni, ma così fu) seguaci del Malatesta, e parlò di "regicidio poliziesco", di un attentato ammaestrato dalla polizia per rialzare il prestigio del re dei Belgi, alquanto scosso: una figlia ripudiata per essere passata a seconde nozze dopo la tragica morte del marito, l'arciduca Rodolfo d'Austria, un'altra figlia finita in manicomio per i suoi eccessi coniugali ed extraconiugali, e il sovrano stesso al centro di ogni sorta di scandali. Ma l'ipotesi della messinscena non appare molto solida, sol che si pensi alla ferita morale e politica che ogni attentato comporta per le istituzioni od anche al pericolo delle imitazioni.

Fu proprio, per noi sorprendentemente, tanto per cambiare, il Malatesta che su questo episodio particolare dette una valutazione più cauta rispetto alle sue consuete condanne in toto dei gesti di ribellione individuale. Dopo aver comunque esplicitamente condannato, e a ragione, il comportamento precedente del Rubino («non si fa la spia per scherzo»), egli non escluse l'ipotesi che l'attentatore, allontanato con infamia dal movimento e scaricato dalla polizia, ridotto alla miseria e alla disperazione, avesse cercato col suo gesto di riscattarsi. "Io farò un atto per cui vedrete se sono uomo di fede" avrebbe dichiarato a Londra Rubino prima di partire alla volta del Belgio.

Il pericolo di finire linciato dalla folla, particolare che tanto ci ricorda la circostanza analoga sofferta da Gianfranco Bertoli, l'assunzione della esclusiva responsabilità dell'atto, una costante per tutti gli stirneriani, ed infine la condanna all'ergastolo, anche in questo riecheggiando Bertoli, ma in questa occasione comminata per una revolverata assai maldestra che forse voleva essere solo un gesto dimostrativo, sembrano delineare «un penoso caso umano», scrive Masini, nel quale, peraltro, sia pure in modo indiretto, era stata coinvolta la polizia italiana. Era questa l'ennesima brutta figura dei servizi del governo italiano che non mancava di ricorrere sistematicamente al prezzolamento e al delitto.

Il controverso caso Rubino veniva a chiudere, nella storia degli anarchici italiani, l'epoca degli attentati, aperta otto anni prima dal giovane delicato ed amabile Sante Caserio: una serie di fatti che impresse nella grossa opinione pubblica una non labile immagine dell'anarchismo come fenomeno di violenza e di terrore. Eppure proprio in quello stesso periodo nell'area del potere si producevano tali eventi collettivi di violenza e di terrore, vidimati dalla legge dei potenti, da ridurre a cronaca minima i gesti degli anarchici. Basti pensare alla guerra ispano-americana del 1898, alla spedizione contro i Boxer in Cina, ai genocidi nelle colonie tedesche in Africa, alle guerre anglo-boere, alla strage degli Obrenovic nella reggia di Belgrado.

Questo scoppio di rabbia individuale di Rubino, come, bisogna riconoscerlo, bene lo delineò il Masini, era stato non solo più che comprensibile, ma anche più che giustificato, e tanto più apprezzabile perché inserito in un elenco di ribellioni al potere costituito poco esteso, rispetto ai misfatti della barbarie borghese, di ieri come di oggi. Il gesto provocatore di Gennaro Rubino, che tanto sconcerto aveva infuso negli stessi anarchici ufficiali, non ebbe i numerosi emuli che avrebbe dovuto avere, e questo lo rende ancora più mirabile, stupefacente e memorabile, ai nostri stanchi occhi iniettati di sangue e alla nostra rancorosa e deprecabile mente. Perciò noi, senza più miraggi di speranza, gridiamo cento anni dopo, più che mai: Evviva Rubino, anarchico colpevole!

«Noi distruggeremo ridendo. Noi incendieremo ridendo. Noi uccideremo ridendo. Noi esproprieremo ridendo. E la società cadrà. La patria cadrà. Tutto cadrà, poiché l'Uomo libero è nato. È nato, colui che attraverso il pianto e il dolore ha imparato l'arte dionisiaca della gioia e del riso.» (Renzo Novatore, Verso il Nulla Creatore, 1921)


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