Manifiesto de los Treinta (Spagna, 1931)

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Ángel Pestaña, uno dei firmatari del manifesto

Il Manifiesto de los Treinta è il manifesto ideologico della fazione moderata della CNT spagnola (posibilistas), redatto nel 1931, in opposizione a quella radicale (faistas). Il documento fu una esplicita condanna della strategia della CNT-FAI.

Manifesto dei Trenta

AI COMPAGNI, AI SINDACATI, A TUTTI.

Una superficiale analisi della situazione attraversata dal nostro paese ci porterà a dichiarare che la Spagna si ritrova in un momento di intensa propensione rivoluzionaria, dalla quale ne deriveranno profonde perturbazioni collettive. Non possiamo negare l'importanza del momento né i pericoli di questo periodo rivoluzionario perché, piaccia o no, la forza stessa degli eventi ci porterà tutti noi a subire le conseguenze di questa perturbazione. L'avvento della Repubblica ha aperto una parentesi nella normalità della storia del nostro paese. Rovesciata la monarchia, cacciato il re dal suo mandato, proclamata la Repubblica con l'accordo tacito di gruppi, partiti, organizzazioni ed individui che soffrirono la violenza della dittatura ed il periodo repressivo di Martínez Anido [1] e di Arlegui, è facile comprendere come tutti questi accadimenti ci avrebbero condotto ad una situazione nuova, ad uno stato di cose diverso da quello che fino a quel momento è stata la vita nazionale degli ultimi 50 anni, dalla restaurazione [2] ad oggi. Ma se i fatti citati sono stati il collante che ci hanno portato a distruggere una situazione politica e a tentare di aprire una nuova fase diversa dal passato, i fatti successi in seguito sono arrivati a dimostrare la nostra asserzione che la Spagna stia vivendo un momento davvero rivoluzionario. Agevolata la fuga del re ed il rimpatrio della "chusma dorata" [3] e dei "sangue blu", un'enorme esportazione di capitale ha avuto luogo ed ha impoverito il paese più di quanto già non lo fosse. Alla fuga dei plutocrati, banchieri, finanzieri e burocrati dello Stato è seguita una speculazione vergognosa e spudorata, che ha portato ad una svalutazione straordinaria della peseta e della ricchezza del paese, di un cinquanta per cento.

A questo attacco agli interessi economici per produrre fame e miseria nella maggior parte degli spagnoli, è seguita la cospirazione velata, ipocrita, di tutti i clericali, di tutti gli "incapucciati", di tutti quelli che per trionfare non hanno inconvenienti ad accendere una candela a Dio ed un'altra al diavolo. Il dominare, soggiogare e vivere dello sfruttamento di tutto un popolo che viene umiliato, è quello che risalta per in cima di tutto. Le conseguenze di questa confabulazione dai procedimenti criminali sono una profonda e intensa paralizzazione dei crediti publici, e per tanto, un colasso di tutte le industrie, che provoca una crisi spaventosa, come chissà mai si sia conosciuta nel nostro paese. Laboratori che chiudono, fabbriche che licenziano i propri operai, opere pubbliche che si paralizzano o ormai non cominciano più; disminuizione delle richieste nel settore del commercio, mancanza di sbocco dei prodotti della terra; operai che passano settimane e settimane senza un posto di lavoro; infinità d'industrie limitate a due, o tre giorni di lavoro (pochissime a quatro). Gli operai che hanno una settimana intera di lavoro, che possono andare in fabbrica o nei laboratori sei giorni, non eccedono del trenta per cento. L'impoverimento del paese è già un fatto conclamato ed accettato. Al margine di tutte queste sventure che il popolo subisce, si nota la permissività, il procedere eccesivamente legalista del governo. Andati via tutti i ministri della rivoluzione, l'hanno negata, attaccandosi alla legalità come il mollusco alla rocca, e non danno segni di energia se non quando si tratta di mitragliare al popolo. In nome della Repubblica, per difenderla secondo loro, si utilizza tutto l'apparato di repressione dello Stato e si sparge il sangue dei lavoratori ogni giorno. Ormai non è più questa o quella popolazione è in tutte dove il secco detonare dei "máuseros" ha segato vite giovani e in salute. Nel frattempo il governo nulla ha fatto, nè nulla fará, sotto l'aspetto economico. Non ha espropriato ai grandi terratenenti, veri orchi del campesino spagnolo; non ha ridotto di un solo centesimo i guadagni degli speculatori della cosa pubblica; non ha distrutto nessun monopolio; non ha posto un freno a nessun abuso di coloro che sfruttano e si arricchiscono con la fame, il dolore e la miseria del popolo. Si è collocato in una posizione contemplativa quando si è cercato di restringere privilegi, di distruggere ingiustizie, di evitare latrocini tanto infami quanto indegni. Come stupirci, quindi, di quello successoci? Da un lato superbia, speculazione, sgambetti della cosa pubblica, nei beni colettivi, su quello che ci appartiene in comune, nei valori sociali. Dall'altro, permessivismo, tolleranza verso gli oppressori, gli sfruttatori, con i mietitori di vittime fra il popolo; mentre a quest'ultimo lo si incarcera e perseguita, lo si minaccia e lo si stermina.

E come colpo finale, in basso il popolo soffrendo, vegetando, passando fame e miseria, vedendo il modo in cui sottilmente gli viene detratta la rivoluzione che egli ha fatto. Nei posti pubblici, negli organi giudiziari, laddove si può tradire la rivoluzione, continuano afferrati coloro che vi arrivarono per favoritismo ufficiale del Re, o por l'influenza dei ministri. Questa situazione dopo dell'aver distrutto un regime, dimostra che la rivoluzione che si è smessi di fare, diventa ora inevitabile e necessaria. Tutti riconosciamo che è così. I ministri, riconoscendo la bancarotta del regime economico; la stampa, constatando l'insoddisfazzione del popolo, e questi ribellandosi contro gli incidenti di cui è vittima. Tutto, insomma, viene a confermare l'imminenza di determinazioni che il paese dovrebbe intraprendere per, così salvando la rivoluzione, salvarsi.

UN'INTERPRETAZIONE.

Essendo la situazione di fondo una tragedia colettiva; volendo il popolo uscire dal dolore che lo attormenta e uccide, e non essendoci che un'unica possibilità, la rivoluzione, come affrontarla? La storia ci dice che le rivoluzioni le hanno sempre fatte le minoranze audaci che hanno saputo come impulsare il popolo contro i poteri costituiti. Basta che queste minorie lo vogliano, che se lo propongano, affinché in una situazione come questa, la distruzione del regime imperante e delle forze difensive che lo sostengono, sia un dato fatto? Vediamo. Queste minoranze, provviste di alcuni elementi aggresivi, in un giorno buono, o approfittando una sorpresa, sfidano le forze dell'ordine, si confrontano con loro e provocano il fatto violento che può condurci alla rivoluzione. Una preparazione rudimentale, dei piccoli elementi di scontro per cominciare, ed è già sufficiente. Confidino il trionfo della rivoluzione al valore di appena pochi individui e al problematico intervento delle moltitudini che li asseconderanno quando questi scenderanno per strada.

No c'è bisogno di pianificare nulla, ne contare con niente, ne pensare se non solo in lanciarsi sulla strada per vincere questo mastodonte: lo Stato. Pensare che questi abbia elementi di difesa formidabili, che sia difficile distruggerlo mentre i suoi espedienti di potere, la sua forza morale sopra il popolo, la sua economia, la sua giustizia, il suo credito morale ed economico non siano sconfitti da latrocinii e torpezze, per l'immoralità e incapacità dei suoi dirigenti e per il debilitamento delle sue istituzioni; pensare che frattanto che questo non occorra non debba distruggersi lo Stato, è perdere il tempo, dimenticare la storia e disconoscere la stessa psicologia umana. Di questo ci si dimentica, ci si sta dimenticando attualmente. E per dimenticarlo tutto, ci si dimentica perfino della morale stessa rivoluzionaria. Tutto si lascia al caso, tutto si confida nell'imprevisto, si crede nei miracoli della santa rivoluzione, come se la rivoluzione fosse una qualche panacea e non un fatto doloroso e crudele che dovrà necessariamente forgiare l'uomo tramite la sofferenza del suo corpo e il dolore della sua mente. Questo concetto della rivoluzione, figlio della più pura demagogia, patrocinato durante dozzine di anni da tutti i partiti politici che hanno cercato e conquistato molte volte l'assalto al potere, per quanto possa sembrare paradossale ha anche difensori all'interno dei nostri ambienti e si è riaffermato in determinati nuclei di militanti. Senza accorgersi, essi stessi cadono in tutti i vizi della demagogia politica, in vizi che ci condurrebbero a donare la rivoluzione, se fosse fatta sotto queste condizioni e si vincesse, al primo partito politico che si presentasse, o anche, a governare su di noi; a prendere il potere per governare come se fossimo un partito politico qualsiasi. Possiamo, dobbiamo noi sommarci, può e deve sommarsi la Confederazione Nazionale del Lavoro, a questa concezione catastrofica della rivoluzione, del Fatto, del gesto rivoluzionario?

LA NOSTRA INTERPRETAZIONE.

Di fronte a questo concetto minimalista, classico e un tantino pericolosetto della rivoluzione (che attualmente ci porterebbe ad un fascismo repubblicano, mascherato da "Berretto frigio", ma sempre fascismo alla fine) si eleva quell'altro, quello vero, l'unico con significato pratico e comprensivo, quello che può portarci, che ci porterà indiscutibilmente alla consecuzione del nostro obbiettivo finale.

Questo impone che la preparazione non sia solamente di elementi aggresivi, di combattimento, ma che bisogna avere questi con in più anche elementi morali, che oggi sono i più difficili da vincere. Non si basa la rivoluzione esclusivamente sulla audacia delle minorìe più o meno audaci, piuttosto, deve essere un movimiento travolgente in massa del popolo, della classe lavoratrice che cammina verso la sua liberazione definitiva; dei sindacati e della Confederazione; determinando così il Fatto, il gesto ed il momento preciso della rivoluzione. La nostra visuale non crede che la rivoluzione sia unicamente ordine, metodo; questo deve rientrare per molto nella preparazione e nella rivoluzione stessa, ma lasciando anche spazio sufficiente per l'iniziativa individuale, per il gesto e l'azione che corrisponde all'individuo. Di fronte al concetto caotico e incoerente della rivoluzione che hanno i primi, si erge l'ordinato, previdente e coerente dei secondi. Questo è giocare alla rivolta, alla sommossa, alla rivoluzione; è in realtà, ritardare la vera rivoluzione.

Ebbene, la differenza è ben apprezzabile. A poco a poco che ci si mediti, si noteranno i vantaggi dell'uno rispetto all'altro procedimiento. Che ognuno di noi decida quale delle due interpretazioni adottare.

PAROLE FINALI.

Verrà facile pensare a chi ci legge che non abbiamo scritto e firmato quanto antecede per piacere, per il capriccioso desiderio che i nostri nomi appaiano al pie' di uno scritto di carattere pubblico e che è dottrinale. La nostra attitudine è determinata; abbiamo adottato una posizione che apprezziamo necessaria agli interessi della Confederazione e che si riflette nella seconda delle interpretazioni esposte sulla rivoluzione.

Siamo rivoluzionari, sì; ma non coltivatori del mito della rivoluzione. Vogliamo che il Capitalismo e lo Stato, sia esso rosso, bianco o nero, sparisca, però non per soppiantarlo con un altro; ma affinché, una volta fatta la rivoluzione economica per la classe operaia, questa possa impedire la restaurazione di qualsiasi potere, qualunque sia il suo colore. Vogliamo una rivoluzione nata da un profondo sentire del popolo, come quella che oggi si sta forgiando, e non una rivoluzione che ci viene offerta, che pretendono portare un manipolo di individui, che se a questa arriveranno, chiamatela pure come volete, fatalmente si convertirebbero in dittatori al giorno seguente del loro trionfo. Però questo lo vogliamo e lo desideriamo noi. Lo vuole cosí anche la maggioranza dei militanti dell'Organizzazione? Ecco quello che interessa delucidare, quello che bisogna mettere in chiaro quanto prima. La Confederazione è un'organizzazione rivoluzionaria, non un'organizzazione che coltiva la sommossa, la rivolta, che perpetra il culto della violenza per la violenza; della rivoluzione per la rivoluzione. Considerandolo così, noi dirigiamo le nostre parole ai militanti tutti, e gli ricordiamo che l'ora è grave e segnaliamo la responsabilità che ciascuno andrà a contrarre per la propria azione o la propria omissione. Se oggi, domani, passato, o quando sarà, se li si invitasse ad un movimento rivoluzionario, non dimentichino che loro si devono alla Confederazione Nazionale del Lavoro, ad una organizzazione che ha il diritto di controllarsi a se stessa, di vigilare i suoi propri movimenti, di attuare per propria iniziativa e di determinarsi per propria volontà. Che la Confederazione deve essere quella che, seguendo i suoi propri fini, deve dire come, quando e in che circostanze si debba attuare; che ha personalità e mezzi propri per fare quello che deve fare.

Che tutti sentano la responsabilità di questo momento eccezionale che tutti noi stiamo vivendo. Non dimentichino che così come il fatto rivoluzionario può condurre al trionfo, e che quando non si trionfa si deve cadere con dignità, tutti i fatti sporadici della rivoluzione conducono alla reazione e al trionfo delle demagogie. Adesso, che ciascuno adotti la posizione che meglio intende. La nostra, già la sapete. E fermi in questo proposito la manterremo in qualsiasi momento e luogo, anche se per mantenerla fossimo travolti dalla corrente contraria.

Barcellona, agosto 1931.

Juan López, Agustín Gibanel, Ricardo Fornells, José Girona, Daniel Navarro, Jesús Rodríguez, Antonio Valladriga, Ángel Pestaña, Miguel Portoles, Joaquín Roura, Joaquín Lorente, Progreso Alfarache, Antonio Peñarroya, Camilo Piñón, Joaquín Cortés, Isidoro Gabín, Pedro Massoni, Francisco Arín, José Cristiá, Juan Dinarés, Roldán Cortada, Sebastián Clará, Juan Peiró, Ramón Viñas, Federico Uleda, Pedro Cané, Mariano Prat, Espartaco Puig, Narciso Marcó, Jenaro Minguet.

Note

  1. Severiano Martínez Anido (Ferrol, La Coruña, 1862 - Valladolid, 24 dicembre 1938) fu un militare spagnolo, ministro del governo con la dittatura di Primo de Rivera (1925-1929) e Ministro dell'ordine pubblico del primo governo del generale Francisco Franco. Pestaña evidentemente fa riferimento al periodo in cui Anido fu agli ordini di primo de Rivera e, ancor prima, al suo ruolo di governatore militare di Barcellona (1919-1922), in cui diresse la repressione del movimento operaio e della CNT in particolare
  2. Si definisce Restaurazione borbonica il periodo che va dalla fine della Prima Repubblica Spagnola alla proclamazione della Seconda Repubblica nel 1931. Questo periodo è caratterizzato da una certa stabilità istituzionale, dal modificarsi dello stato in senso liberale e dalla rivoluzione industriale. (Storia della Spagna)
  3. Sinonimo di "buona società " in senso denigratorio.

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