Martin Buber: differenze tra le versioni

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La presenza di Dio nel mondo - per la quale Buber già nei primi scritti chassidici era ricorso, e non a caso, alla tradizionale nozione di shekinah - la sua presenza nell'uomo, nonché la presenza del mondo e dell'uomo in Dio consentono di attribuire carattere fondamentale a queste relazioni, e quindi a porre a fondamento della religione l'incontro originario Dio-uomo. La presenza di Dio, nel sistema qabbalistico di Isaac Luria ([[1534]]-[[1572]]), è l'ultima delle dieci sefiroth a essersi rotta nell'originario processo di creazione, e l'essere umano ha la capacità di riceverla, ma deve rispondere con un'azione che provenga dall'integralità del suo essere, nel segno di un'unità che può arrivare a coinvolgere anche il cosmo intero. Da qui l'intuizione di Buber per cui «in principio è la relazione», dalla quale la realtà può raggiungere il proprio compimento come il dialogo tra incontrante e incontrato, che si fanno il dono reciproco della presenza.
La presenza di Dio nel mondo - per la quale Buber già nei primi scritti chassidici era ricorso, e non a caso, alla tradizionale nozione di shekinah - la sua presenza nell'uomo, nonché la presenza del mondo e dell'uomo in Dio consentono di attribuire carattere fondamentale a queste relazioni, e quindi a porre a fondamento della religione l'incontro originario Dio-uomo. La presenza di Dio, nel sistema qabbalistico di Isaac Luria ([[1534]]-[[1572]]), è l'ultima delle dieci sefiroth a essersi rotta nell'originario processo di creazione, e l'essere umano ha la capacità di riceverla, ma deve rispondere con un'azione che provenga dall'integralità del suo essere, nel segno di un'unità che può arrivare a coinvolgere anche il cosmo intero. Da qui l'intuizione di Buber per cui «in principio è la relazione», dalla quale la realtà può raggiungere il proprio compimento come il dialogo tra incontrante e incontrato, che si fanno il dono reciproco della presenza.
Rifiutando le teorizzazioni sulla «morte di Dio», Buber sottolinea invece l'eclissi di Dio nel momento in cui l'essere umano rifiuta il dialogo col suo «Tu assoluto». Più appropriatamente egli parla di «eclissi» di Dio: un'eclissi causata dall'egoismo umano, individuale e sociale. In definitiva, Buber vede la soluzione della crisi dell'umanità contemporanea nel rinnovamento della relazione con Dio, ma non in termini solipsistici. Poiché la persona integrale è un essere in comunione, il rinnovamento della relazione con Dio passa attraverso un «noi» che è la comunità. '''Buber è orientato verso una comunità che non sia sinonimo di collettivismo''' (cioè un'altra forma di alienazione)''', bensì di unione dialogica ed esistenziale fra persone, dove ognuna sia il centro comunitario.'''
Rifiutando le teorizzazioni sulla «morte di Dio», Buber sottolinea invece l'eclissi di Dio nel momento in cui l'essere umano rifiuta il dialogo col suo «Tu assoluto». Più appropriatamente egli parla di «eclissi» di Dio: un'eclissi causata dall'egoismo umano, individuale e sociale. In definitiva, Buber vede la soluzione della crisi dell'umanità contemporanea nel rinnovamento della relazione con Dio, ma non in termini solipsistici. Poiché la persona integrale è un essere in comunione, il rinnovamento della relazione con Dio passa attraverso un «noi» che è la comunità. '''Buber è orientato verso una comunità che non sia sinonimo di collettivismo''' (cioè un'altra forma di alienazione)''', bensì di unione dialogica ed esistenziale fra persone, dove ognuna sia il centro comunitario.'''
Ovviamente non manca in Buber la riaffermazione e l'esplicitazione della identità ebraica. In merito alla sua essenza, egli sottolinea la coscienza della scissione e l'anelito all'unità; e inoltre la ricerca vissuta della relazione tra morale e religione, e la religiosità come azione e come spinta messianica verso il futuro. Questi princìpi - unità, azione e futuro - sono validi per l'umanità intera: ragion per cui Buber considerava il ritorno all'autentico ebraismo come ritorno alla vera umanità. Si può benissimo definire quello di Buber - anche in ambito filosofico - un '''percorso verso l'[[utopia]]'''. L'[[utopia]] (come aveva ben compreso [[Camillo Berneri]]) è parte ineliminabile dell'orizzonte umano e il suo etimo dice soltanto della sua inesistenza in atto: il futuro resta impregiudicato, e non è detto che l'assalto al cielo fallisca sempre.
Ovviamente non manca in Buber la riaffermazione e l'esplicitazione della identità ebraica. In merito alla sua essenza, egli sottolinea la coscienza della scissione e l'anelito all'unità; e inoltre la ricerca vissuta della relazione tra morale e religione, e la religiosità come azione e come spinta messianica verso il futuro. Questi princìpi - unità, azione e futuro - sono validi per l'umanità intera: ragion per cui Buber considerava il ritorno all'autentico ebraismo come ritorno alla vera umanità. Si può benissimo definire quello di Buber - anche in ambito filosofico - un '''percorso verso l'[[utopia (concetto)|utopia]]'''. L'[[utopia (concetto)|utopia]] (come aveva ben compreso [[Camillo Berneri]]) è parte ineliminabile dell'orizzonte umano e il suo etimo dice soltanto della sua inesistenza in atto: il futuro resta impregiudicato, e non è detto che l'assalto al cielo fallisca sempre.


== L'anarchismo di Martin Buber <ref name="mb"></ref>==
== L'anarchismo di Martin Buber <ref name="mb"></ref>==
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[[Image:Landauer.jpg|left|thumb|250px|left|[[Gustav Landauer]] ha condiviso con Martin Buber una profonda amicizia personale e intellettuale.]]
[[Image:Landauer.jpg|left|thumb|250px|left|[[Gustav Landauer]] ha condiviso con Martin Buber una profonda amicizia personale e intellettuale.]]
Non è possibile trascurare l'influsso esercitato dall'amicizia personale e intellettuale con [[Gustav Landauer]] ([[1870]]-[[1919]]). Idee di quest'ultimo sono state riprese e portate avanti da Buber, con particolare riguardo al [[federalismo]] libertario e comunitario, del quale egli vedeva un riscontro nelle prime esperienze dei [[kibbutzim]] socialisti in Palestina. Un [[socialismo]] capace di rinnovare l'animo umano; una democrazia basata sulle relazioni dirette; una libertà che si formi nello spirito della persona prima ancora della sua oggettivazione nella società, e quindi prima della militanza sociale e politica; la rigenerazione spirituale come vera leva del progresso (ben più delle scienze e delle tecniche); il [[socialismo]] anche quale dimensione culturale per superare l'atomismo individualistico; il modello federativo basato sulla partecipazione volontaria e sulle relazioni umane; l'umanizzazione della vita sociale: sono tutti questi elementi che accomunano le concezioni di Buber e [[Gustav Landauer|Landauer]].
Non è possibile trascurare l'influsso esercitato dall'amicizia personale e intellettuale con [[Gustav Landauer]] ([[1870]]-[[1919]]). Idee di quest'ultimo sono state riprese e portate avanti da Buber, con particolare riguardo al [[federalismo]] libertario e comunitario, del quale egli vedeva un riscontro nelle prime esperienze dei [[kibbutzim]] socialisti in Palestina. Un [[socialismo]] capace di rinnovare l'animo umano; una democrazia basata sulle relazioni dirette; una libertà che si formi nello spirito della persona prima ancora della sua oggettivazione nella società, e quindi prima della militanza sociale e politica; la rigenerazione spirituale come vera leva del progresso (ben più delle scienze e delle tecniche); il [[socialismo]] anche quale dimensione culturale per superare l'atomismo individualistico; il modello federativo basato sulla partecipazione volontaria e sulle relazioni umane; l'umanizzazione della vita sociale: sono tutti questi elementi che accomunano le concezioni di Buber e [[Gustav Landauer|Landauer]].
Fondamentale nel pensiero buberiano è la nozione di «'''interumanità'''» («zwischenmenschlichkeit»), coinvolgente la '''socializzazione delle relazioni interpersonali''', la '''cooperazione''' e l''''umanitarismo''', il '''superamento delle istituzioni centralizzate''', che sono di ostacolo alla libertà, all'autodeterminazione e alla giustizia. Con ''Sentieri in Utopia'' Buber non ha voluto certo svalorizzare l'[[utopia]], bensì il contrario, se si considera che per lui l'[[utopia]] è «la nostalgia di ciò che è giusto». Va notata la data in cui fu scritto questo libro: il [[1946]], vale a dire quando in Palestina i sogni di conciliazione dell'autore si erano ormai del tutto frantumati. Questa nostalgia diventa allora orgogliosa rivendicazione di un dover essere che - indipendentemente dal rifiuto attuale da parte del mondo (e in primis dello stesso mondo di Buber) - sussiste comunque, resta vivo quale pietra di paragone e segno di condanna senza appello.
Fondamentale nel pensiero buberiano è la nozione di «'''interumanità'''» («zwischenmenschlichkeit»), coinvolgente la '''socializzazione delle relazioni interpersonali''', la '''cooperazione''' e l''''umanitarismo''', il '''superamento delle istituzioni centralizzate''', che sono di ostacolo alla libertà, all'autodeterminazione e alla giustizia. Con ''Sentieri in Utopia'' Buber non ha voluto certo svalorizzare l'[[utopia (concetto)|utopia]], bensì il contrario, se si considera che per lui l'[[utopia (concetto)|utopia]] è «la nostalgia di ciò che è giusto». Va notata la data in cui fu scritto questo libro: il [[1946]], vale a dire quando in Palestina i sogni di conciliazione dell'autore si erano ormai del tutto frantumati. Questa nostalgia diventa allora orgogliosa rivendicazione di un dover essere che - indipendentemente dal rifiuto attuale da parte del mondo (e in primis dello stesso mondo di Buber) - sussiste comunque, resta vivo quale pietra di paragone e segno di condanna senza appello.
Di primo acchito il libro in questione sembra un'opera storica e politica, giacché è incentrata sul pensiero di grandi pensatori rivoluzionari e su talune esperienze pratiche. In realtà, tutto il discorso è retto da un sottostante filo rosso di natura profetica e religiosa, con il quale interagisce l'aspetto politico. La prospettiva in cui si è mosso Buber è innegabilmente messianica ed escatologica, poiché il fine ultimo degli esseri umani è inscindibilmente legato alle sorti del mondo. Tuttavia, nell'ambito della nostalgia per il giusto '''Buber ha distinto l'escatologia dall'[[utopia]]''': la prima è l''''immagine di un tempo perfetto in cui si dà il compimento della creazione'''; la seconda è l''''immagine dello spazio perfetto'''. '''L'eschaton è nelle mani di Dio, ma l'utopico è in quelle degli esseri umani.''' E riguardo all'escatologia ha effettuato la distinzione fra '''«escatologia profetica»''' ed '''«escatologia apocalittica»'''. La prima, di matrice ebraica, implica comunque una partecipazione attiva delle persone; la seconda, invece, di matrice iranica, per il suo carattere determinista fa sì che la persona vi svolga un ruolo essenzialmente passivo. Calata in ambito politico, la distinzione investe le differenze fra il '''pensiero libertario''' e il '''[[marxismo]]''', inquadrandoli rispettivamente nella prima e nella seconda categoria escatologica.
Di primo acchito il libro in questione sembra un'opera storica e politica, giacché è incentrata sul pensiero di grandi pensatori rivoluzionari e su talune esperienze pratiche. In realtà, tutto il discorso è retto da un sottostante filo rosso di natura profetica e religiosa, con il quale interagisce l'aspetto politico. La prospettiva in cui si è mosso Buber è innegabilmente messianica ed escatologica, poiché il fine ultimo degli esseri umani è inscindibilmente legato alle sorti del mondo. Tuttavia, nell'ambito della nostalgia per il giusto '''Buber ha distinto l'escatologia dall'[[utopia (concetto)|utopia]]''': la prima è l''''immagine di un tempo perfetto in cui si dà il compimento della creazione'''; la seconda è l''''immagine dello spazio perfetto'''. '''L'eschaton è nelle mani di Dio, ma l'utopico è in quelle degli esseri umani.''' E riguardo all'escatologia ha effettuato la distinzione fra '''«escatologia profetica»''' ed '''«escatologia apocalittica»'''. La prima, di matrice ebraica, implica comunque una partecipazione attiva delle persone; la seconda, invece, di matrice iranica, per il suo carattere determinista fa sì che la persona vi svolga un ruolo essenzialmente passivo. Calata in ambito politico, la distinzione investe le differenze fra il '''pensiero libertario''' e il '''[[marxismo]]''', inquadrandoli rispettivamente nella prima e nella seconda categoria escatologica.
Influenzato da [[Gustav Landauer|Landauer]], '''Buber ha inteso la prospettiva comunitaria, libertaria e umanista come permanente rivoluzione della vita personale''' (nel giorno per giorno) volta alla ricerca del contenuto e del senso dell'esistenza. Di conseguenza '''la rivoluzione diventa un costante movimento per evitare che si staticizzi, che si cristallizzi nell'istituzionalità'''. Per l'esigenza di procedere in una direzione qualitativamente appropriata, Buber ha respinto ogni progetto di accentramento socio/economico e politico, e quindi l'impostazione [[leninista]], rimarcando quanto di positivo c'è in quel '''«socialismo utopistico»''' a cui [[Marx]] e [[Lenin]] avevano contrapposto un '''socialismo «scientifico»''' che, nel caso di [[Lenin]], si è rivelato scientifico solo in senso popperiano: cioè falsificabile e, nel concreto, auto-falsificato.  
Influenzato da [[Gustav Landauer|Landauer]], '''Buber ha inteso la prospettiva comunitaria, libertaria e umanista come permanente rivoluzione della vita personale''' (nel giorno per giorno) volta alla ricerca del contenuto e del senso dell'esistenza. Di conseguenza '''la rivoluzione diventa un costante movimento per evitare che si staticizzi, che si cristallizzi nell'istituzionalità'''. Per l'esigenza di procedere in una direzione qualitativamente appropriata, Buber ha respinto ogni progetto di accentramento socio/economico e politico, e quindi l'impostazione [[leninista]], rimarcando quanto di positivo c'è in quel '''«[[socialismo utopistico]]»''' a cui [[Marx]] e [[Lenin]] avevano contrapposto un '''socialismo «scientifico»''' che, nel caso di [[Lenin]], si è rivelato scientifico solo in senso popperiano: cioè falsificabile e, nel concreto, auto-falsificato.  


Buber e tutti gli ebrei anarchici animati da una speranza messianica ed escatologica avevano riposto enormi aspettative nell'esperimento dei [[kibbutzim]] in Palestina, quale nuovo modo di organizzazione sociale e produttiva anticapitalista e libertario. Ed effettivamente nella prima metà del secolo scorso si trattò di un fenomeno che fece epoca nell'ambito delle sinistre non staliniste. Il [[kibbutz]] (al plurale [[kibbutzim]]) - cioè «assemblea» oppure «insieme», e nel nome c'è già il programma - è una comunità agricola o anche industriale autogestita di tipo collettivista, originariamente formatasi sotto l'influsso del comunismo libertario. <ref>Il primo [[kibbutz]] fu fondato nel [[1909]]. Gli aderenti passarono da 179 nel [[1914]] a 2624 nel [[1927]] e a 22.932 nel [[1941]]. Ai primi del [[1990]] erano 124.900, ripartiti in 270 [[kibbutzim]]. Sull'argomento si veda, in particolare: Roberto Massari, ''Sui kibbutzim (1966-1967)'', in ''Dentro e oltre gli anni '60. Culture, politica e sociologia (1960-74)'', Massari editore, Bolsena 2005, pp. 47-110; il saggio - scritto fra l'autunno-inverno del '66 e gli inizi del '67 - si occupa ampiamente delle caratteristiche dei [[kibbutzim]] presenti all'epoca, a poco tempo dallo scoppio della Guerra dei sei giorni, che ne modificherà sostanzialmente la natura decretando di fatto la scomparsa della loro originaria fisionomia collettivistica.</ref> Era in comune la proprietà della terra, delle case e dei mezzi di produzione in genere <ref>A differenza di quel che accadeva nel moshav, villaggio cooperativo in cui i soci conservavano la proprietà individuale della terra, ma gestivano in comune acquisti e vendite.</ref>, e anche l'educazione dei bambini. A quel tempo nei [[kibbutzim]] non c'erano strutture elette e il potere era direttamente gestito dall'assemblea dei membri. Costoro non avevano problemi economici di sorta, poiché di tutto si faceva carico la segreteria della comunità. Originariamente vi si conduceva una vita assai spartana <ref>Col tempo, tuttavia, la linea anticapitalista e comunista si è andata via via attenuando fino all'apertura al mercato, alla proprietà e al profitto, fino alla vera e propria privatizzazione. Originariamente i lavori erano assegnati a ciascuno dalla comunità e il salario (uguale per tutti) era fissato dall'assemblea, mentre adesso i lavori sono scelti dai singoli, il salario è liberalizzato e le case sono in proprietà privata.</ref> e all'interno non circolava denaro. I [[kibbutzim]] si raggrupparono poi in federazioni perlopiù sulla base di affinità partitiche e ideologiche. Generalmente sono stati considerati frutto del [[marxismo]], ma di marxista avevano solo il rifiuto della proprietà privata. I princìpi portanti - [[autogestione]], libere assemblee, [[autonomia]] e [[federalismo]] - erano invece tipici dell'[[anarchismo]]. I membri dei [[kibbutzim]] erano per lo più [[atei]] o agnostici e comunque poco propensi alla religiosità. Pur tuttavia non mancarono i credenti che combinavano religione e [[anarchismo]], soprattutto i qabbalisti e i chassidici. Giora Manor (del kibbutz Mishmar Ha-Emek) ha scritto: «da quando è stato concepito [...] il kibbutz è sempre stata una libera società che ogni membro può lasciare - come molti hanno fatto e fanno - se non condivide le sue decisioni. [...] è prevalso il principio anarchico della libera volontà degli individui. [...] Naturalmente i kibbutz hanno regole e ci si aspetta che i membri vi si attengano. Non vi è cioè «anarchia» intesa come totale assenza di norme. Ma '''la corretta definizione anarchica dell'anarchia non è quella di una società senza norme e regole, ma di una società basata sull'accettazione volontaria delle decisioni e dei regolamenti sociali da parte di ogni individuo'''. Consenso senza coercizione e sanzioni istituzionalizzate. Ciò è esattamente quanto avviene nella vita del kibbutz». <ref>Giora Manor, ''La natura anarchica del kibbutz'', in Archivio Pinelli, aprile 2000, pp. 19-22.</ref>
Buber e tutti gli ebrei anarchici animati da una speranza messianica ed escatologica avevano riposto enormi aspettative nell'esperimento dei [[kibbutzim]] in Palestina, quale nuovo modo di organizzazione sociale e produttiva anticapitalista e libertario. Ed effettivamente nella prima metà del secolo scorso si trattò di un fenomeno che fece epoca nell'ambito delle sinistre non staliniste. Il [[kibbutz]] (al plurale [[kibbutzim]]) - cioè «assemblea» oppure «insieme», e nel nome c'è già il programma - è una comunità agricola o anche industriale autogestita di tipo collettivista, originariamente formatasi sotto l'influsso del comunismo libertario. <ref>Il primo [[kibbutz]] fu fondato nel [[1909]]. Gli aderenti passarono da 179 nel [[1914]] a 2624 nel [[1927]] e a 22.932 nel [[1941]]. Ai primi del [[1990]] erano 124.900, ripartiti in 270 [[kibbutzim]]. Sull'argomento si veda, in particolare: Roberto Massari, ''Sui kibbutzim (1966-1967)'', in ''Dentro e oltre gli anni '60. Culture, politica e sociologia (1960-74)'', Massari editore, Bolsena 2005, pp. 47-110; il saggio - scritto fra l'autunno-inverno del '66 e gli inizi del '67 - si occupa ampiamente delle caratteristiche dei [[kibbutzim]] presenti all'epoca, a poco tempo dallo scoppio della Guerra dei sei giorni, che ne modificherà sostanzialmente la natura decretando di fatto la scomparsa della loro originaria fisionomia collettivistica.</ref> Era in comune la proprietà della terra, delle case e dei mezzi di produzione in genere <ref>A differenza di quel che accadeva nel moshav, villaggio cooperativo in cui i soci conservavano la proprietà individuale della terra, ma gestivano in comune acquisti e vendite.</ref>, e anche l'educazione dei bambini. A quel tempo nei [[kibbutzim]] non c'erano strutture elette e il potere era direttamente gestito dall'assemblea dei membri. Costoro non avevano problemi economici di sorta, poiché di tutto si faceva carico la segreteria della comunità. Originariamente vi si conduceva una vita assai spartana <ref>Col tempo, tuttavia, la linea anticapitalista e comunista si è andata via via attenuando fino all'apertura al mercato, alla proprietà e al profitto, fino alla vera e propria privatizzazione. Originariamente i lavori erano assegnati a ciascuno dalla comunità e il salario (uguale per tutti) era fissato dall'assemblea, mentre adesso i lavori sono scelti dai singoli, il salario è liberalizzato e le case sono in proprietà privata.</ref> e all'interno non circolava denaro. I [[kibbutzim]] si raggrupparono poi in federazioni perlopiù sulla base di affinità partitiche e ideologiche. Generalmente sono stati considerati frutto del [[marxismo]], ma di marxista avevano solo il rifiuto della proprietà privata. I princìpi portanti - [[autogestione]], libere assemblee, [[autonomia]] e [[federalismo]] - erano invece tipici dell'[[anarchismo]]. I membri dei [[kibbutzim]] erano per lo più [[atei]] o agnostici e comunque poco propensi alla religiosità. Pur tuttavia non mancarono i credenti che combinavano religione e [[anarchismo]], soprattutto i qabbalisti e i chassidici. Giora Manor (del kibbutz Mishmar Ha-Emek) ha scritto: «da quando è stato concepito [...] il kibbutz è sempre stata una libera società che ogni membro può lasciare - come molti hanno fatto e fanno - se non condivide le sue decisioni. [...] è prevalso il principio anarchico della libera volontà degli individui. [...] Naturalmente i kibbutz hanno regole e ci si aspetta che i membri vi si attengano. Non vi è cioè «anarchia» intesa come totale assenza di norme. Ma '''la corretta definizione anarchica dell'anarchia non è quella di una società senza norme e regole, ma di una società basata sull'accettazione volontaria delle decisioni e dei regolamenti sociali da parte di ogni individuo'''. Consenso senza coercizione e sanzioni istituzionalizzate. Ciò è esattamente quanto avviene nella vita del kibbutz». <ref>Giora Manor, ''La natura anarchica del kibbutz'', in Archivio Pinelli, aprile 2000, pp. 19-22.</ref>
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Tuttavia, le speranze di Buber e dei fautori di una conciliazione con gli arabi si sono risolte in disillusione e dramma, per motivi riguardanti entrambe le parti in causa. Da un lato abbiamo proprio l'intreccio con il [[sionismo]] politico, che rapidamente assunse connotati di «nazionalismo» religioso e di imperialismo, determinando così un cambio di paradigma da cui è conseguito - per la sua vittoria - il naufragio dell'[[anarchismo]] e di tutto il pensiero libertario in un Israele dominato da una tutt'altro che messianica volontà di potenza temporale. Resta del tutto aperta la questione se e fino a che punto non vi abbia contribuito anche l'estinzione della cultura yiddish, a causa del genocidio della Germania nazista in Europa. Dall'altro lato c'è il fatto che gli arabi, sotto il colonialismo anglo-francese, erano diventati tutt'altro che aperti alla conciliazione con i nuovi venuti dall'Europa. Nel mondo ebraico addirittura non mancò chi rivolse a Buber lo strampalato rimprovero di aver sovrapposto il [[sionismo]] al messianismo. In realtà aveva cercato di fondere messianismo e [[sionismo]] in una visione tanto limpida quanto - purtroppo - tutta e solo sua; con la conseguenza che ancora una volta il messianismo ha cozzato col mondo della politica aliena, e ancora una volta a vincere è stata quest'ultima.
Tuttavia, le speranze di Buber e dei fautori di una conciliazione con gli arabi si sono risolte in disillusione e dramma, per motivi riguardanti entrambe le parti in causa. Da un lato abbiamo proprio l'intreccio con il [[sionismo]] politico, che rapidamente assunse connotati di «nazionalismo» religioso e di imperialismo, determinando così un cambio di paradigma da cui è conseguito - per la sua vittoria - il naufragio dell'[[anarchismo]] e di tutto il pensiero libertario in un Israele dominato da una tutt'altro che messianica volontà di potenza temporale. Resta del tutto aperta la questione se e fino a che punto non vi abbia contribuito anche l'estinzione della cultura yiddish, a causa del genocidio della Germania nazista in Europa. Dall'altro lato c'è il fatto che gli arabi, sotto il colonialismo anglo-francese, erano diventati tutt'altro che aperti alla conciliazione con i nuovi venuti dall'Europa. Nel mondo ebraico addirittura non mancò chi rivolse a Buber lo strampalato rimprovero di aver sovrapposto il [[sionismo]] al messianismo. In realtà aveva cercato di fondere messianismo e [[sionismo]] in una visione tanto limpida quanto - purtroppo - tutta e solo sua; con la conseguenza che ancora una volta il messianismo ha cozzato col mondo della politica aliena, e ancora una volta a vincere è stata quest'ultima.


Tirando le somme, l'opera sociale e politica di Buber si inquadra - a un livello indubbiamente alto - nelle ricerche di alternative all'antisocialità dell'individualismo borghese, del [[capitalismo]] e di quello che, dopo lo svuotamento della rivoluzione d'Ottobre, è stato il socialismo reale. Le due apparenti alternative - che Buber ha rifiutato - si identificano nello sfruttamento e nell'oppressione, nonché nella disorganizzazione sociale ed esistenziale della persona, eliminando gli spazi dialogici. Nel suo sforzo di superamento, Buber ha ripreso la tradizione dell'utopismo socialista e libertario, in ciò animato anche da una solida fede in Dio e - nonostante tutto - nell'essere umano. Questa concezione non ha avuto seguito; ma ciò non significa che fosse irrealista e non esprimesse esigenze concrete e positive. Una volta [[Oscar Wilde]] definì il cinico come una persona che accetta il mondo per quello che è e si tiene lontana dal dover essere. Buber vide la realtà del mondo, ma fece del dover essere l'asse centrale della sua vita intellettuale, consapevole che il sogno non è disarmato di fronte alla realtà mondana, se diventa un sogno in comune ed è armato di volontà collettiva. Il punto sta proprio qui: nel voler '''fare il possibile desiderando l'impossibile'''. Il realizzarsi di questo presupposto può aprire il sogno a una prospettiva messianica ed escatologica. In questo Buber traeva lievito dalla tradizione culturale ebraica, per la quale la storia non è un progresso lineare e irreversibile ed esiste sempre la possibilità di rinnovamento e riscatto, ma non in termini di gradualità: il rinnovamento, la '''rivoluzione''', è per lui (perfettamente in linea con [[Gustav Landauer|landauer]]) l''''irruzione improvvisa del nuovo''', l''''irruzione messianica del rinnovamento'''. L'attesa del Messia è l'immagine iconica di ciò. D'altro canto - notava Buber - chi pensa alla storia come progresso non attende certo il Messia. In merito al messianismo Buber ha operato per far pendere da una parte ben precisa, piuttosto che dall'altra, la tensione dialettica - esistente nell'ebraismo - fra attendere e agire, tra fede in Dio e fede nell'essere umano, con riguardo alla sua partecipazione alla salvezza, propria e del mondo, orientandosi verso la creazione di un ordine sociale giusto, senza oppressi né oppressori, e quindi senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Di qui la visione di una '''comunità basata su rapporti umani autentici, sul mutualismo reciproco e sul riconoscimento completo dell'Altro'''. La '''visione di un mondo libero, in cui la libertà non è la vuota e solipsistica libertà dell'individualismo borghese, bensì la liberazione di massa dai vincoli del capitalismo (privato o di [[Stato]]) e dell'atomizzazione'''; la '''visione di una possibilità di vivere spontaneamente in comunità volontarie'''.
Tirando le somme, l'opera sociale e politica di Buber si inquadra - a un livello indubbiamente alto - nelle ricerche di alternative all'antisocialità dell'individualismo borghese, del [[capitalismo]] e di quello che, dopo lo svuotamento della rivoluzione d'Ottobre, è stato il socialismo reale. Le due apparenti alternative - che Buber ha rifiutato - si identificano nello sfruttamento e nell'oppressione, nonché nella disorganizzazione sociale ed esistenziale della persona, eliminando gli spazi dialogici. Nel suo sforzo di superamento, Buber ha ripreso la tradizione dell'[[utopismo socialista]] e libertario, in ciò animato anche da una solida fede in Dio e - nonostante tutto - nell'essere umano. Questa concezione non ha avuto seguito; ma ciò non significa che fosse irrealista e non esprimesse esigenze concrete e positive. Una volta [[Oscar Wilde]] definì il cinico come una persona che accetta il mondo per quello che è e si tiene lontana dal dover essere. Buber vide la realtà del mondo, ma fece del dover essere l'asse centrale della sua vita intellettuale, consapevole che il sogno non è disarmato di fronte alla realtà mondana, se diventa un sogno in comune ed è armato di volontà collettiva. Il punto sta proprio qui: nel voler '''fare il possibile desiderando l'impossibile'''. Il realizzarsi di questo presupposto può aprire il sogno a una prospettiva messianica ed escatologica. In questo Buber traeva lievito dalla tradizione culturale ebraica, per la quale la storia non è un progresso lineare e irreversibile ed esiste sempre la possibilità di rinnovamento e riscatto, ma non in termini di gradualità: il rinnovamento, la '''rivoluzione''', è per lui (perfettamente in linea con [[Gustav Landauer|landauer]]) l''''irruzione improvvisa del nuovo''', l''''irruzione messianica del rinnovamento'''. L'attesa del Messia è l'immagine iconica di ciò. D'altro canto - notava Buber - chi pensa alla storia come progresso non attende certo il Messia. In merito al messianismo Buber ha operato per far pendere da una parte ben precisa, piuttosto che dall'altra, la tensione dialettica - esistente nell'ebraismo - fra attendere e agire, tra fede in Dio e fede nell'essere umano, con riguardo alla sua partecipazione alla salvezza, propria e del mondo, orientandosi verso la creazione di un ordine sociale giusto, senza oppressi né oppressori, e quindi senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Di qui la visione di una '''comunità basata su rapporti umani autentici, sul mutualismo reciproco e sul riconoscimento completo dell'Altro'''. La '''visione di un mondo libero, in cui la libertà non è la vuota e solipsistica libertà dell'individualismo borghese, bensì la liberazione di massa dai vincoli del capitalismo (privato o di [[Stato]]) e dell'atomizzazione'''; la '''visione di una possibilità di vivere spontaneamente in comunità volontarie'''.
La visione buberiana contiene innegabilmente una sorta di nostalgia per le comunità del passato, maggiormente organiche rispetto agli aggregati sociali frutto della vittoria del capitalismo e della sua espansione. E non casualmente Buber ha ripreso la distinzione di Tönnies fra comunità e società, additando in quest'ultima la mancanza di interna coesione. <ref> Cfr. Ferdinand Tönnies, ''Gemeinschaft und Gesellschaft'', 1887 (trad. italiana: ''Comunità e società'', a cura di Maurizio Ricciardi, Laterza, Roma 2011).</ref> Tuttavia egli non ha certo vagheggiato un ritorno al passato, cioè la riproposizione pedissequa di quel che è stato. Anche rispetto al passato la sua comunità è nuova, ma non antitetica, poiché le si apparenta nei valori. Una comunità nuova - una '''federazione di comunità''' - che egli non concepisce come «stato», ma come processo, riprendendo così la classica visione anarchica delle comunità in cui liberamente si sperimentano nuove forme di organizzazione e di produzione. La sua sottolineatura circa l''''esigenza che il rinnovamento rivoluzionario debba avvenire nel profondo delle coscienze personali, prima ancora che nelle istituzioni e nelle forme produttive''', è della massima importanza, essendo egli consapevole di come sia proprio la mancanza di diffusa coscienza comunitaria e della coesione interna che ne deriva a rendere alla fine necessario lo [[Stato]] e la sua fisiologica coercizione/[[repressione]]. '''L'alternativa non è fra [[Stato]] [[liberale]] e [[Stato]] illiberale, bensì fra [[Stato]] e [[libertà]].'''
La visione buberiana contiene innegabilmente una sorta di nostalgia per le comunità del passato, maggiormente organiche rispetto agli aggregati sociali frutto della vittoria del capitalismo e della sua espansione. E non casualmente Buber ha ripreso la distinzione di Tönnies fra comunità e società, additando in quest'ultima la mancanza di interna coesione. <ref> Cfr. Ferdinand Tönnies, ''Gemeinschaft und Gesellschaft'', 1887 (trad. italiana: ''Comunità e società'', a cura di Maurizio Ricciardi, Laterza, Roma 2011).</ref> Tuttavia egli non ha certo vagheggiato un ritorno al passato, cioè la riproposizione pedissequa di quel che è stato. Anche rispetto al passato la sua comunità è nuova, ma non antitetica, poiché le si apparenta nei valori. Una comunità nuova - una '''federazione di comunità''' - che egli non concepisce come «stato», ma come processo, riprendendo così la classica visione anarchica delle comunità in cui liberamente si sperimentano nuove forme di organizzazione e di produzione. La sua sottolineatura circa l''''esigenza che il rinnovamento rivoluzionario debba avvenire nel profondo delle coscienze personali, prima ancora che nelle istituzioni e nelle forme produttive''', è della massima importanza, essendo egli consapevole di come sia proprio la mancanza di diffusa coscienza comunitaria e della coesione interna che ne deriva a rendere alla fine necessario lo [[Stato]] e la sua fisiologica coercizione/[[repressione]]. '''L'alternativa non è fra [[Stato]] [[liberale]] e [[Stato]] illiberale, bensì fra [[Stato]] e [[libertà]].'''
È forte nell'opera buberiana il richiamo al '''ritorno alla terra''', a fronte dell'atomizzazione e disgregazione esistenti nella vita cittadina. Pur tuttavia, fare di Buber l'apostolo dell'abbandono tout court dell'urbanesimo vorrebbe dire tradirne il pensiero. In realtà il senso della sua posizione sta nella '''creazione di forme di convivenza comunitaria che vadano al di là degli attuali assetti urbani''', senza trascurare che a monte di tutto c'è il rinnovamento, sia interiore che nei rapporti intersoggettivi. Qualcuno ha definito la concezione sociale di Buber «teocrazia anarchica», in realtà Buber si è riallacciato all'originario patto teologico-politico della storia di Israele, ma dell'Israele premonarchico, in cui il Melekh («Re») era Dio e non un uomo. Cosicché '''accettare la regalità divina si accompagna con l'anelito all'autonomia dell'essere umano, con il rifiuto del dominio'''.
È forte nell'opera buberiana il richiamo al '''ritorno alla terra''', a fronte dell'atomizzazione e disgregazione esistenti nella vita cittadina. Pur tuttavia, fare di Buber l'apostolo dell'abbandono tout court dell'urbanesimo vorrebbe dire tradirne il pensiero. In realtà il senso della sua posizione sta nella '''creazione di forme di convivenza comunitaria che vadano al di là degli attuali assetti urbani''', senza trascurare che a monte di tutto c'è il rinnovamento, sia interiore che nei rapporti intersoggettivi. Qualcuno ha definito la concezione sociale di Buber «teocrazia anarchica», in realtà Buber si è riallacciato all'originario patto teologico-politico della storia di Israele, ma dell'Israele premonarchico, in cui il Melekh («Re») era Dio e non un uomo. Cosicché '''accettare la regalità divina si accompagna con l'anelito all'autonomia dell'essere umano, con il rifiuto del dominio'''.
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