Martin Buber: differenze tra le versioni

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La visione buberiana contiene innegabilmente una sorta di nostalgia per le comunità del passato, maggiormente organiche rispetto agli aggregati sociali frutto della vittoria del capitalismo e della sua espansione. E non casualmente Buber ha ripreso la distinzione di Tönnies fra comunità e società, additando in quest'ultima la mancanza di interna coesione. <ref> Cfr. Ferdinand Tönnies, ''Gemeinschaft und Gesellschaft'', 1887 (trad. italiana: ''Comunità e società'', a cura di Maurizio Ricciardi, Laterza, Roma 2011).</ref> Tuttavia egli non ha certo vagheggiato un ritorno al passato, cioè la riproposizione pedissequa di quel che è stato. Anche rispetto al passato la sua comunità è nuova, ma non antitetica, poiché le si apparenta nei valori. Una comunità nuova - una '''federazione di comunità''' - che egli non concepisce come «stato», ma come processo, riprendendo così la classica visione anarchica delle comunità in cui liberamente si sperimentano nuove forme di organizzazione e di produzione. La sua sottolineatura circa l''''esigenza che il rinnovamento rivoluzionario debba avvenire nel profondo delle coscienze personali, prima ancora che nelle istituzioni e nelle forme produttive''', è della massima importanza, essendo egli consapevole di come sia proprio la mancanza di diffusa coscienza comunitaria e della coesione interna che ne deriva a rendere alla fine necessario lo [[Stato]] e la sua fisiologica coercizione/[[repressione]]. '''L'alternativa non è fra [[Stato]] [[liberale]] e [[Stato]] illiberale, bensì fra [[Stato]] e [[libertà]].'''
La visione buberiana contiene innegabilmente una sorta di nostalgia per le comunità del passato, maggiormente organiche rispetto agli aggregati sociali frutto della vittoria del capitalismo e della sua espansione. E non casualmente Buber ha ripreso la distinzione di Tönnies fra comunità e società, additando in quest'ultima la mancanza di interna coesione. <ref> Cfr. Ferdinand Tönnies, ''Gemeinschaft und Gesellschaft'', 1887 (trad. italiana: ''Comunità e società'', a cura di Maurizio Ricciardi, Laterza, Roma 2011).</ref> Tuttavia egli non ha certo vagheggiato un ritorno al passato, cioè la riproposizione pedissequa di quel che è stato. Anche rispetto al passato la sua comunità è nuova, ma non antitetica, poiché le si apparenta nei valori. Una comunità nuova - una '''federazione di comunità''' - che egli non concepisce come «stato», ma come processo, riprendendo così la classica visione anarchica delle comunità in cui liberamente si sperimentano nuove forme di organizzazione e di produzione. La sua sottolineatura circa l''''esigenza che il rinnovamento rivoluzionario debba avvenire nel profondo delle coscienze personali, prima ancora che nelle istituzioni e nelle forme produttive''', è della massima importanza, essendo egli consapevole di come sia proprio la mancanza di diffusa coscienza comunitaria e della coesione interna che ne deriva a rendere alla fine necessario lo [[Stato]] e la sua fisiologica coercizione/[[repressione]]. '''L'alternativa non è fra [[Stato]] [[liberale]] e [[Stato]] illiberale, bensì fra [[Stato]] e [[libertà]].'''
È forte nell'opera buberiana il richiamo al '''ritorno alla terra''', a fronte dell'atomizzazione e disgregazione esistenti nella vita cittadina. Pur tuttavia, fare di Buber l'apostolo dell'abbandono tout court dell'urbanesimo vorrebbe dire tradirne il pensiero. In realtà il senso della sua posizione sta nella '''creazione di forme di convivenza comunitaria che vadano al di là degli attuali assetti urbani''', senza trascurare che a monte di tutto c'è il rinnovamento, sia interiore che nei rapporti intersoggettivi. Qualcuno ha definito la concezione sociale di Buber «teocrazia anarchica», in realtà Buber si è riallacciato all'originario patto teologico-politico della storia di Israele, ma dell'Israele premonarchico, in cui il Melekh («Re») era Dio e non un uomo. Cosicché '''accettare la regalità divina si accompagna con l'anelito all'autonomia dell'essere umano, con il rifiuto del dominio'''.
È forte nell'opera buberiana il richiamo al '''ritorno alla terra''', a fronte dell'atomizzazione e disgregazione esistenti nella vita cittadina. Pur tuttavia, fare di Buber l'apostolo dell'abbandono tout court dell'urbanesimo vorrebbe dire tradirne il pensiero. In realtà il senso della sua posizione sta nella '''creazione di forme di convivenza comunitaria che vadano al di là degli attuali assetti urbani''', senza trascurare che a monte di tutto c'è il rinnovamento, sia interiore che nei rapporti intersoggettivi. Qualcuno ha definito la concezione sociale di Buber «teocrazia anarchica», in realtà Buber si è riallacciato all'originario patto teologico-politico della storia di Israele, ma dell'Israele premonarchico, in cui il Melekh («Re») era Dio e non un uomo. Cosicché '''accettare la regalità divina si accompagna con l'anelito all'autonomia dell'essere umano, con il rifiuto del dominio'''.
La Sion di Buber, la sua Terra Promessa, ha natura spirituale, religiosa e antistatalista: un ideale virtualmente universale. Niente a che vedere col progetto politico e nazionalista di Theodor Herzl, bensì un «sionismo tutto buberiano», fedele alla Torah e orientato alla realizzazione del Regno di Dio, per il quale Gerusalemme potesse diventare l'alternativa reale alla stalinista Mosca e alla capitalista New York. Disse Buber che «Israele perde se stesso se sostituisce la Palestina con un'altra terra, e perde se stesso se sostituisce Sion con la Palestina». Qui in effetti c'è la grande illusione di Buber: pensare ancora che un Israele in fase di allontanamento sempre più progressivo dalla Sion spirituale - ancor prima che Buber si stanziasse in Palestina - potesse diventare l'araldo e il precursore di un mondo redento.
La Sion di Buber, la sua Terra Promessa, ha natura spirituale, religiosa e antistatalista: un ideale virtualmente universale. Niente a che vedere col progetto politico e nazionalista di Theodor Herzl, bensì un «sionismo tutto buberiano», fedele alla Torah e orientato alla realizzazione del Regno di Dio, per il quale Gerusalemme potesse diventare l'alternativa reale alla stalinista Mosca e alla capitalista New York. Disse Buber che «Israele perde stesso se sostituisce la Palestina con un'altra terra, e perde stesso se sostituisce Sion con la Palestina». Qui in effetti c'è la grande illusione di Buber: pensare ancora che un Israele in fase di allontanamento sempre più progressivo dalla Sion spirituale - ancor prima che Buber si stanziasse in Palestina - potesse diventare l'araldo e il precursore di un mondo redento.


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