Un immigrato racconta il suo viaggio dall'Eritrea (da «Sicilia Libertaria»)

Da Anarcopedia.
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Localizzazione dell'Eritrea

Testimonianza di un migrante eritreo sul lungo viaggio intrapreso che lo ha condotto dalla sua terra all'Italia. [1]

Testimonianza

«Io sognavo una nuova vita... ».

Premessa

Ho vissuto in Eritrea fino all'età di 22 anni poi, il 24 maggio del 2004 ho deciso di lasciare la mia terra. Vivere oggi in Eritrea è davvero difficile, soprattutto se decidi di disertare. Negli ultimi anni il servizio militare sembrava non avere mai fine ed è anche per questo che ho deciso di fuggire. Sapevo che se mi avessero preso avrei dovuto scontare una pena severissima e che mi avrebbero rinchiuso in una prigione e poi da lì portato al fronte e di nuovo nei campi. L'unico modo per evadere il servizio militare era quello di falsificare il permesso di due settimane che viene dato per andare a trovare la propria famiglia. La mia idea era di andare via, lontano, in Italia da mio fratello o in America da mia zia. Non era certo facile ma sembrava possibile. Occorreva trovare le persone “giuste”, quelle che già avevano aiutato altri miei connazionali. In compagnia di un amico, anch'egli deciso a raggiungere l'Italia, cominciammo facendo delle passeggiate al centro e sostando nei bar alla ricerca di informazioni In uno di questi bar della città incontrammo un tipo che voleva andare in Sudan; era un ragazzo che già più volte aveva tentato la fuga ma sempre invano. Abbiamo discusso su come poter raggiungere il Sudan e la cosa dopo un po'sembrava fattibile. Il piano era semplice: arrivare prima di tutto a Tessenei, la città vicino al confine sudanese e da lì verso Kessela la città del Sudan (dove puoi ritenerti “libero”), e poi procedere per Kartoum.

Inizia il viaggio

Partimmo da Asmara all'alba con un autobus di linea fino a Tessenei. Durante la strada trovammo almeno 25 posti di blocco, fortunatamente non troppo difficili da sviare. Arrivammo a Tessenei al tramonto con 2500 nakfa (100 euro) in tasca che ci servivano per affrontare il “vero” viaggio. Prima di partire ci siamo rifocillati e, indossato il vestito del popolo musulmano (jallbia) per confonderci tra loro, appena il sole fu tramontato, partimmo alla volta del deserto verso il Sudan. Non fu affatto facile: ci sono tantissime guardie che sorvegliano il confine tra Eritrea e Sudan e bisogna trovare strade diverse per poter sfuggire ai controlli. Il nostro tragitto sarebbe dovuto durare 3 giorni ma la nostra guida, già al secondo giorno, si era persa. Per fortuna nel deserto incontrammo dei nomadi che ci diedero da bere e da mangiare offrendosi poi di accompagnarci con la loro macchina in cambio di denaro. Non avevamo altra scelta. Ormai eravamo in territorio sudanese e se non accettavamo il loro aiuto l'alternativa era il deserto. Pagammo 1000 nkf e ripartimmo, con la paura però di poter essere ingannati e riportati dentro il confine eritreo. Verso le tre di notte scorgemmo una luce in lontananza e i nostri autisti ci lasciarono dicendoci che quella che si vedeva, a pochi chilometri di cammino, era la città di Kessela. Abbiamo riposato e la mattina successiva ci siamo incamminati verso la città. Presto ci accorgemmo che quella non era affatto la città che cercavamo ma un villaggio di nomadi in pieno deserto. Kessela distava ancora 50 km. Gli uomini del villaggio, vedendoci arrivare, ci circondarono. Dopo aver mangiato abbiamo chiesto la via per raggiungere la città promettendo in cambio 100 nkf. Temevamo che la fregatura del giorno prima si ripetesse ma, anche stavolta, non avevamo altra scelta se non quella di fidarci. Uno di loro ci indicò una strada che costeggiava un giardino vicino al villaggio e che ci avrebbe portato verso il fiume Gash, un fiume che nasce in Eritrea e muore in Sudan attraversando la città di Kessela. L'indicazione era giusta. Trovammo il fiume e seguendolo ci condusse alla città del Sudan. Era il terzo giorno di viaggio ed eravamo già sfiniti. La nostra guida aveva un amico sudanese che ci ospitò per tre giorni dandoci cibo, acqua e tutto ciò che ci serviva, ma il nostro scopo era quello di andare al campo U.N.H.C.R. (United Nation High Commission), un posto in cui tutti i rifugiati appena arrivati richiedono una carta umanitaria con la quale puoi andare in tutte le città del Sudan e rimanerci, se vuoi, anche tutta la vita lavorando tranquillamente. Restai al campo una settimana prima di ripartire e dopo aver ricevuto la mia carta mi diressi a Kartoum per trovare lavoro e prendere informazioni per il viaggio verso l'Italia.

Un anno in Sudan

In Sudan sono rimasto circa un anno a lavorare per guadagnare un po'di soldi perché quelli che avevo non bastavano a pagare il viaggio. In Sudan durante il tempo libero, cercavo un modo legale per lasciare il paese e andare a studiare in Australia o in America ma era difficile, non mi veniva dato mai il visto; a quel punto, non c'era altra via che quella illegale. Mi avevano detto che potevo trovare delle informazioni andando negli internet point del centro perché era da lì che si organizzavano i viaggi per la Libia. In quel periodo arrivavano spesso notizie sui viaggi intrapresi precedentemente da altri, viaggi molto pericolosi. Avevo paura, non volevo partire senza alcuna garanzia. Le proposte che mi vennero fatte furono numerose. Bastava sentirsi pronti ed avere abbastanza denaro per arrivare a Tripoli, da lì aspettare altri soldi dalla famiglia e continuare il viaggio verso l'Europa. Mi offrirono un “pacchetto viaggio” che sembrava interessante, ad un costo relativamente basso per andare da Kartoum a Tripoli. Il “pacchetto” proponeva: l'attraversamento del deserto fino a Kufra in 3 giorni al prezzo di 250 dollari e da Kufra a Tripoli al prezzo di 300 dollari. Era concesso un solo bagaglio con i vestiti e un bagaglio con 24 bottiglie di acqua, ananas, farina gialla e zucchero Ho deciso una notte dei primi di giugno e mi diressi al posto che mi avevano indicato. Lì trovai altre 20 persone. Alle 18 una macchina ci fece salire e alle 2 di notte eravamo già a 100 km da Kartoum, in mezzo al deserto, in un oasi dove c'erano altre persone che aspettavano di partire. Ci fecero scendere con tutti i bagagli e la macchina che ci aveva portati fin lì scomparve. Adesso eravamo in 70 (eritrei, etiopici, sudanesi) pronti con le nostre paure ad affrontare un'altra tappa del viaggio che ci avrebbe portato verso la costa libica. C'erano uomini, donne, bambini e tutti aspettavamo lì la partenza. Dopo un po'arrivarono due jeep Lancaster con il portellone posteriore aperto e la cabina autisti occupata da due uomini. Appena scesi ci dissero di consegnargli i 250 dollari e di caricare i nostri bagagli con i viveri e il carburante. Salimmo sulle macchine: le donne e i bambini prima, poi gli uomini, in totale 35 persone per ogni macchina, ognuno seduto sui propri viveri. Eravamo stretti, alcuni stavano sopra il tettuccio della macchina e altri sulle sponde della jeep. Viaggiammo notte e giorno, fermandoci solo poche ore per bere acqua, mangiare e riposarci. La strada è tutta nel deserto; non si percorre la via abituale ma si guida a zig-zag per non lasciare tracce. Nel deserto oltre la paura di morire per la fame, la sete e la stanchezza, avevamo paura di incontrare i “pirati del deserto” che ci avrebbero portato via i soldi ma anche il mezzo, lasciandoci lì a morire. Per fortuna non incontrammo nessuno. Alle 12 il sole era cocente e la stanchezza alle gambe, per essere costretti a rimanere immobile per ore, ci stremava. Io stavo seduto sulla sponda della jeep e quando sei troppo stanco e le gambe si addormentano bisogna stare attenti a non cadere giù dalla macchina, che viaggiando alla velocità di 130-140 km orari non si accorge certo della perdita di qualcuno dei suoi passeggeri.

Sepolto nel deserto

Erano già trascorsi 7 giorni; l'acqua a disposizione era finita ed eravamo ancora in pieno deserto. I nostri autisti avevano due bidoni d'acqua che ci davano una volta al giorno appena prima di andare a riposare dopo una giornata di attraversamento. Il 7° giorno alle 16 mentre stava facendo buio, ci hanno fatto scendere per farci riposare, ma l'atmosfera era tesa, era successo qualcosa. Un mio connazionale, stremato dal viaggio, era morto. Altri eritrei lo hanno sepolto nel deserto prendendo i suoi documenti per comunicare, appena arrivati a Tripoli, il decesso alla sua famiglia; dopo tutti quei giorni in viaggio nel deserto e senz'acqua, la stanchezza ci uccideva piano piano. Alle 19 ripartimmo. Eravamo già in territorio libico. Due ore dopo il crepuscolo ci raggiunsero due macchine con due persone a bordo. Ci fecero scendere e ci dissero che per continuare il viaggio avremmo dovuto pagare altri soldi. L'accordo, ovviamente, non era quello, ma nel mezzo del deserto, al buio, non hai altra scelta: paghi. I nuovi autisti vollero 300 dollari per arrivare fino a Kufra, la nostra meta. Salimmo e partimmo nel buio della notte per 1000 km ancora, in direzione di Kufra che raggiungemmo dopo 3 giorni. Ospitati nel giardino privato di uno dei libici che ci aveva condotti in macchina, mangiammo e riposammo fino alle 15. Alle 16 arrivarono 2 macchine che avrebbero dovuto portarci a Tripoli in 3 giorni, invece l'ennesima fregatura! Verso le 20, arrivati a Bengasi, un'altra città del territorio libico, ci portarono dentro un cortile con muri alti e qualche stanza dove dormire per la notte. La stanchezza era già tantissima e a questa si aggiungeva lo sconforto per le numerose truffe subite. Eravamo deboli e perciò facilmente ricattabili da qualsiasi impostore. La mattina successiva si presentarono nuovi “personaggi” libici che ci chiesero 130 dollari per condurci a Tripoli. Sempre la stessa storia! e sempre quella sensazione di impotenza a ribellarti. Non c'era altra scelta, eravamo nuovamente con le spalle al muro . Sia io che altri che viaggiavano con me avevamo finito i soldi che ci eravamo portati da Kartoum; alcuni nostri connazionali hanno fatto una colletta per aiutarci ma i soldi non sono bastati per tutti: 4 etiopici, purtroppo, sono rimasti al campo di Bengasi. Tripoli dista 400 km da Bengasi e in due giorni era previsto l'arrivo. Il primo giorno viaggiammo senza mai fermarci fino ad arrivare in una fattoria a 200 km dalla capitale. Lì ci divisero in gruppi di 24 ad attendere altri mezzi per continuare. Dopo un po'arrivarono dei taxi: gli autisti ci dissero che al prezzo di 20 dollari ci avrebbero portati a destinazione ma alle 18, quando il sole sparì, i 4 taxi fecero una deviazione verso un bosco e lì si fermano costringendoci con una mazza di legno a scendere; a quel punto, dopo avere avvisato per telefono qualcuno, scapparono.

50 dollari e una donna in cambio di un passaggio

Questo “qualcuno” dopo un po'arriva. Era un tipo grasso, fatto di cocaina, con un mercedes e l'aria da “politico che conta” nel territorio libico. Ci chiese 50 dollari e una donna in cambio di un passaggio. Arrivammo ad un accordo: niente donna ma solo 30 dollari ciascuno. Se ne andò via con la sua mercedes per ritornare più tardi con un camion. Il viaggio durò tutta la notte. Al mattino l'uomo si fermò in una caffetteria, ci fece scendere per fare colazione e poi con una scusa si allontanò e scomparve per sempre. Eccoci di nuovo in un posto che “NON era” Tripoli, senza soldi e con tanta stanchezza. Il proprietario del bar, forse in accordo con il grassone, ci chiese se volevamo un aiuto; lui avrebbe potuto chiedere un passaggio per noi a dei suoi clienti. Molti di noi accettarono il passaggio e andarono via. Io e altri 3, invece, salimmo in una macchina al prezzo di 10 dollari che ci portò alla periferia di Tripoli in una zona di “smistamento” dove si trovano taxi “legali” che con la cifra di 5 dollari sanno già dove portarti. A Tripoli affittai per un mese un appartamento insieme ad altri 12 miei connazionali al prezzo di 110 dollari in attesa della nave per l'Europa. Il proprietario dell'appartamento veniva quasi ogni giorno per informarsi se qualcuno di noi fosse pronto a partire per l'Europa, il che si traduceva nella possibilità di pagare la traversata in nave. Dopo un mese avevo ripagato i debiti del viaggio nel deserto e avevo in tasca 1.200 dollari per l'altro viaggio, l'ultimo, e così gli dissi che ero pronto a partire. Ero felice, quel momento lo aspettavo da quasi un anno.

Le stelle ci avrebbero guidato fino alla Sicilia.

Immaginavo che dal ponte della nave avrei potuto guardare la mia terra allontanarsi sognando l'avvicinarsi di una nuova vita. Un pomeriggio, alle 18, arrivò un furgone per accompagnare sia me che gli altri miei dodici inquilini all'imbarco. Il viaggio per uscire da Tripoli durò un paio d'ore e dopo circa 100 km arrivammo in una fattoria dove c'erano ad aspettarci altre 200 persone. Rimanemmo lì fino all'indomani quando al calare della notte arrivarono dei camion che ci caricarono tutti. Il terrore di essere lasciato nel deserto non mi abbandonò mai ma capivo che nonostante le difficoltà dovevo rimanere tranquillo; tornare indietro era comunque impossibile. Alle 2 arrivammo sulla costa ed entro le 3 doveva svolgersi tutta l'operazione di imbarco. La “nave da crociera” che immaginavo era adesso una barchetta blu e verde di circa 10 metri di lunghezza per 5 metri di larghezza e ancora non riuscivo a capire come avrebbero potuto starci 250 persone. A piccoli gruppi, ci portarono a bordo: prima le donne e i bambini, poi gli uomini, stipati tutti come bestie. Poco prima di salpare sentimmo il capitano della barca discutere animatamente con gli organizzatori del viaggio che pretendevano di far salire ancora altre persone a bordo. Il rischio sarebbe stato eccessivo e il capitano rifiutò. Era già tardissimo, dovevamo partire immediatamente, le guardie di confine avevano avuto una tangente di un'ora soltanto. Al buio, le stelle ci avrebbero guidato fino alle coste siciliane. La traversata nel Mediterraneo durò tre infiniti giorni, senza cibo e con pochissima acqua. Gli uomini stavamo in coperta mentre le donne e i bambini nella piccola stiva. Le onde ci inzuppavano i vestiti ed eravamo talmente stretti che qualsiasi movimento era impossibile. Il 26 settembre entrammo nelle acque italiane; ci avvistò un elicottero e un'ora dopo ci raggiunse un'imbarcazione della guardia costiera che ci portò in salvo. Ero stremato, ma felice. Adesso, pensavo, potrò mostrare il mio passaporto e iniziare la mia vita in Italia da uomo libero, ricominciare a studiare e magari trovare un lavoro, il sogno che inseguivo da tutta una vita . Mi ritrovo invece poche ore dopo in una stanza dell'ufficio immigrazione della questura. Tra me e la mia libertà, questa volta c'è solo un pezzo di carta con tutta la sua violenza: il permesso di soggiorno.

Note

  1. Un immigrato racconta il suo viaggio dall'Eritrea, da «Sicilia Libertaria» n. 246 del dicembre 2005.

Voci correlate


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