Il sabotaggio (di Émile Pouget)

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Le Sabotage è un libro di Émile Pouget pubblicato in Francia nel 1911. La versione tradotta in italiano è stata pubblicata nel 1973 dalle Edizioni La Fiaccola col titolo Sabotaggio.

Estratti

Alcuni brani estrapolati dal saggio di Pouget: [1]

«La parola “sabotaggio”, fino ad una quindicina d'anni fa, era solo un termine gergale, indicante non l'atto di costruire zoccoli [sabots], ma quello, immaginoso ed espressivo, di lavoro eseguito “a colpi di zoccolo”, “a zoccolate”. In seguito, si è trasformato in una formula di lotta sociale, e al Congresso Confederale di Tolosa, nel 1897, ha ricevuto il suo battesimo sindacale.

All'inizio, il nuovo arrivato non fu certo accolto negli ambienti operai con caloroso entusiasmo. Alcuni lo videro assai di cattivo occhio, rimproverandogli le sue origini plebee, anarchiche e anche la sua... immoralità. In ogni modo, malgrado questa diffidenza, che rasentava l'ostilità, il sabotaggio ha fatto strada. Ormai ha le simpatie operaie. E non è tutto. Ha conquistato il diritto di cittadinanza nel Larousse, e non v'è dubbio che anche l'Accademia – a meno che non venga sabotata essa stessa prima di giungere alla lettera S del suo dizionario – si deciderà a fare al vocabolo “sabotaggio” la più cerimoniosa riverenza e ad aprirgli le pagine della sua raccolta ufficiale. Tuttavia si avrebbe torto a credere che la classe operaia, al fine di praticare il sabotaggio, abbia atteso che questo tipo di lotta ricevesse la consacrazione dei Congressi Corporativi. Come tutte le forme di rivolta, il sabotaggio è vecchio quanto lo sfruttamento umano. Da quando un uomo ha avuto la criminale ingegnosità di trarre profitto dal lavoro di un suo simile, da quel giorno lo sfruttato ha cercato d'istinto di dare meno di quanto esigesse il suo padrone. (...) Nei fatti, all'origine di ogni atto di sabotaggio, non si riscontra come antecedente un atto di sfruttamento? Quest'ultimo, nelle condizioni particolari in cui si manifesta, non produce forse – e anche legittima – tutti i gesti di rivolta nessuno escluso?

Ciò ci riporta quindi alla nostra prima affermazione: il sabotaggio è vecchio quanto lo sfruttamento umano! (...) Ci resta da definire in quali forme bisogna praticare il sabotaggio. Tutti noi sappiamo che lo sfruttatore, per aumentare il nostro asservimento, sceglie abitualmente il momento in cui per noi è più difficile resistere ai suoi abusi nel corso dello sciopero parziale, solo metodo impiegato finora. Presi nell'ingranaggio, nell'impossibilità di mettersi in sciopero, i lavoratori son costretti a subire le nuove esigenze del capitalista. Col sabotaggio va tutto in ben altro modo: i lavoratori possono resistere; non sono più alla completa mercè del capitale; non sono più la carne tenera che il padrone lavora a suo piacimento: hanno un mezzo per affermare la proprio virilità e provare all'oppressore che sono uomini.

D'altronde, il sabotaggio non è così nuovo come sembra: i lavoratori lo hanno praticato individualmente da sempre, benché senza metodo. D'istinto, hanno sempre rallentato la produzione quando il padrone accresceva le sue esigenze; senza rendersene conto chiaramente, hanno applicato la formula: A CATTIVA PAGA, CATTIVO LAVORO.

E si può dire che in alcune industrie, in cui il lavoro a cottimo ha preso il posto di quello a giornata, una delle cause di questa sostituzione è stata il sabotaggio, che consisteva, in tali casi, nel fornire giornalmente la minore quantità possibile di lavoro. Se questa tattica, praticata saltuariamente, ha già dato dei risultati, non ne darà forse ben altri il giorno in cui diventasse una continua minaccia per i capitalisti? E non crediate, compagni, che rimpiazzando il lavoro alla giornata con il lavoro a cottimo, i padroni si siano messi al riparo dal sabotaggio: questa tattica non è limitata al lavoro alla giornata.

Il sabotaggio può e deve essere praticato nel lavoro a cottimo. Ma qui la linea di condotta cambia: ridurre la produzione significherebbe per l'operaio ridurre il proprio salario; bisogna dunque che egli applichi il sabotaggio alla qualità anziché alla quantità. Ed allora, non solo il lavoratore non darà all'acquirente della sua forza lavoro più del suo salario, ma lo colpirà inoltre nella sua clientela, la quale gli permette indefinitamente il rinnovamento del capitale, fondamento dello sfruttamento della classe operaia. Con questo metodo, lo sfruttatore si troverà costretto a capitolare, accogliendo le rivendicazioni avanzate, nonché ad affidare i mezzi di produzione in mano ai soli produttori.

In genere si presentano due casi: il caso in cui il lavoro a cottimo si svolge a domicilio, con i mezzi di produzione appartenenti all'operaio, e l'altro in cui il lavoro è centralizzato nell'officina di proprietà del padrone. In questo secondo caso, al sabotaggio della merce, s'aggiunge il sabotaggio dei mezzi di produzione. E a tal proposito, ci basta rammentare la paura prodotta nell'ambiente borghese, tre anni or sono, quando si seppe che i lavoratori delle ferrovie potevano, con due soldi di una certa sostanza, mettere una locomotiva nell'impossibilità di funzionare. Questa paura, per noi, è un'avvisaglia di ciò che potrebbero i lavoratori coscienti e organizzati. Con il boicottaggio, ed il suo inseparabile complemento, il sabotaggio, abbiamo un'efficace arma di resistenza, che ci permetterà di tener testa allo sfruttamento di cui siamo vittime, in attesa del giorno in cui i lavoratori saranno abbastanza potenti per emanciparsi completamente.

Bisogna che i capitalisti ne siano a conoscenza: il lavoratore non rispetterà la macchina se non il giorno in cui essa sarà diventata per lui un'amica che allevia il lavoro, anziché essere, come oggi, la nemica, la ladra di pane, l'assassina di lavoratori. (...) Non appena dipendenti e datori di lavoro entrano in contatto sul terreno economico, si rivela quest'irriducibile antagonismo che li scaglia ai due poli opposti e che, di conseguenza, rende sempre instabili ed effimeri i loro accordi. Tra gli uni e gli altri, in effetti, non può mai concludersi un contratto nel senso preciso ed equo del termine. Un contratto implica l'eguaglianza dei contraenti, la loro piena libertà d'azione e, in più, deve presentare per tutti i suoi firmatari un interesse reale e personale, nel presente come pure per l'avvenire. Ora, quando un operaio offre le sue braccia ad un padrone, i due “contraenti” sono lungi dall'essere su un piano di parità. L'operaio assillato dall'urgenza di assicurarsi un domani – anche quando non attanagliato dalla fame –, non ha la serena libertà d'azione di cui gode il suo datore di lavoro. Inoltre, il beneficio che ricava dall'affittare il suo lavoro appare momentaneo, perché, pur traendone per la sua vita un beneficio immediato, non è raro che il rischio al quale è costretto dal bisogno metta poi in pericolo la sua salute e il suo avvenire.

Dunque, tra padroni e operai non si possono avere impegni che meritino il nome di contratto. Ciò che si è convenuto designare col nome di contratto di lavoro non ha i caratteri specifici e bilaterali del contratto; si tratta, in senso stretto, di un contratto unilaterale, favorevole solo ad uno dei contraenti – un patto leonino. Ne deriva quindi che, sul mercato del lavoro, si hanno soltanto dei faccia a faccia tra belligeranti in conflitto permanente; di conseguenza, tutte le relazioni, tutti gli accordi, tra gli uni e gli altri, possono solo essere precari, in quanto viziati alla base, fondati come sono sulla maggiore o minore forza e resistenza degli antagonisti. Ecco perché, tra padroni ed operai, non si conclude mai – e mai può concludersi – un'intesa durevole, un contratto nel vero senso della parola; tra loro, ci possono solo essere degli armistizî, i quali, sospendendo per un certo tempo le ostilità, concedono una tregua momentanea al bollettino di guerra. (...)»

Note

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