Utopia (concetto)

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Villaggio utopico detto «bolo», raccontato nel romanzo bolo'bolo di Hans Widmer.
Rappresentazione dell'isola di Utopia di Tommaso Moro.

Il termine utopia è entrato nell'uso comune grazie all'omonima opera di Tommaso Moro del 1516. Esso deriva dal greco οὐ ("non") e τόπος ("luogo") e significa "non-luogo". Nella parola, coniata da Tommaso Moro, è presente in origine un gioco di parole con l'omofono inglese eutopia, derivato dal greco εὖ ("buono" o "bene") e τόπος ("luogo"), che significa quindi "buon luogo". Questo, dovuto all'identica pronuncia, in inglese, di "utopia" e "eutopia", dà quindi origine ad un doppio significato:

  • utopia (nessun luogo),
  • eutopia (buon luogo).

L'utopia sarebbe dunque un luogo buono/bello ma parimenti inesistente, o per lo meno irraggiungibile.

L'utopia prima di Moro

Uno dei primi esempi di quelle teorie, che da Moro in poi si chiameranno utopie, è stata La repubblica di Platone. In quest'opera vengono delineati i tratti principali di una comunità ideale in cui regna la pace e la giustizia. Secondo molti studiosi "tracce" di utopia si possono riscontrare anche in alcune opere di Aristofane, Plutarco, Ovidio e Orazio.

L'utopia di Moro

In Utopia (Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia è il titolo completo), Tommaso Moro vagheggia l'abolizione della proprietà privata, la libertà di culto e una vita ideale per i cittadini, in cui essi hanno molto tempo da dedicare ai propri piaceri. Non è ben chiaro se Moro intenda l'utopia come «regno perfetto della felicità» o «luogo inesistente» oppure entrambi. Quel che è certo è che in Utopia, Stato «non soltanto ottimo, ma l'unico che possa a buon diritto attribuirsi il nome di repubblica» permane la presenza di schiavi («prigionieri di guerra» mossa da altri, «quelli la cui scelleraggine finisce in schiavitù», «quelli la cui colpa [...] commessa in città straniere destina all'estremo supplizio», quelli che «se ne vengono da loro a servire di propria iniziativa») e di leggi liberticide, come quella in base alla quale se un uomo o una donna, prima del matrimonio, «vengono convinti di segreta lussuria, sono gravemente puniti e si vieta loro il matrimonio per sempre, a meno che la grazia del principe non perdoni loro il fallo; ma il padre di famiglia e la madre, nella cui casa è stato commesso lo sconcio, sono esposti a gran disonore». E ancora: «Chi profana il matrimonio è colpito dalla più dura schiavitù [...] se l'uno o l'altro, che ha ricevuto il torto, persiste ad amare il proprio coniuge, pur così indegno, non gli vieta la legge di restar unito con lui, purché voglia seguirlo nella condanna all'ergastolo [...] a chi è recidivo per tale delitto è inflitta la morte». Per gli altri delitti: «Le mogli le puniscono i mariti, i figli, i padri, a meno che, nell'interesse della vita morale, debbano esser puniti dallo Stato. [...] se [i rei] si ribellano [al] trattamento o recalcitrano, allora alfine li scannano come bestie selvagge, cui non può frenare né carcere né catena». [1]

Il dopo Moro

Subito dopo Utopia di Tommaso Moro, viene pubblicato La Città del Sole (1602) di Tommaso Campanella, La Nuova Atlantide (1622) di Francesco Bacone, Novae Solymae libri sex (1648) di Samuel Gott e altri minori.

L'utopia sociale e politica

Nuvola apps xmag.png Per approfondire, vedi Socialismo utopistico.

Alcune opere successive a quella di Moro auspicavano una sorta di comunismo idealistico. Tra questi: Viaggio in Icaria (1840) di Étienne Cabet, La Razza Futura (1871) di Edward Bulwer-Lytton e Notizie da Nowhere (1890) di William Morris. Col passare del tempo la parola utopia assume il significato di "chimera", "impossibile", "irrealizzabile"ecc. Al contempo l'utopia diviene anche una critica della realtà, assumendo le caratteristiche di un'idea tesa al raggiungimento della felicità dei popoli. Questa idealizzazione ha portato allo sviluppo di una sorta di socialismo idealistico, che Marx definisce socialismo utopistico, considerato precursore del comunismo e dell'anarchismo, e di cui si possono ricordare le opere di Robert Owen, Saint-Simon, Fourier e altri minori.

Ideologia e utopia

Il concetto di utopia viene ripreso nel XX secolo da Karl Mannheim, teorico della «sociologia della conoscenza», nel suo saggio Ideologia e utopia pubblicato inizialmente nel 1929 e diffusosi nei decenni successivi. Qui l'utopia viene vista quasi come motore dell'ideologia, come una verità prematura. Una visione è utopica quando è in contraddizione con il presente. Ma solitamente la definizione di cosa sia oggi utopico viene data da chi oggi è al potere.

Utopia ed utopismo

La proposta romanzata di una società radicalmente diversa da quella esistente (utopia) può essere concettualmente distinta dall'azione organizzativa per la realizzazione di un diverso ordine sociale (utopismo). Mentre l'utopia non ha mai suscitato aspre opposizioni (nemmeno da parte del potere costituito), l'utopismo ha sollecitato, soprattutto dopo la rivoluzione francese e ancor più dopo quella russa, una reazione diffusa. Nei secoli XIX e XX, parallelamente al discorso utopico, si snoda senza soluzione di continuità un'opposizione critica che coinvolge pensatori di ogni tendenza: conservatori che temono venga turbato l'ordine esistente, moderati illuminati consapevoli dell'esistenza di forze innovative inarrestabili seppure pericolose, progressisti e rivoluzionari gelosi del loro progetto di mutamento e avversari accaniti di quelli altrui.

L'utopismo di Pierre Joseph Proudhon

Pierre-Joseph Proudhon

Colui che la storia ci ha consegnato come il più importante utopista anarchico è Pierre Joseph Proudhon, il quale, tuttavia, ci appare per molti versi meno utopista di chi lo utopista lo definiva (a cominciare da Marx):

«Guai, dice Proudhon, se arrivassimo a un tipo di società dove non ci fossero più contraddizioni, non ci fossero più conflitti, in cui tutti gli esseri fossero soddisfatti: verrebbe a mancare l'attenzione verso soluzioni migliori, l'attenzione verso il perfezionamento continuo della società. Proudhon, quindi, è senz'altro un critico del perfettismo, un critico del messianismo rivoluzionario, vale a dire dell'idea che qui ed ora, sulla terra, sia possibile trovare una organizzazione sociale tale per cui tutte le imperfezioni della condizione umana e tutte le imperfezioni della vita in comune siano, quasi magicamente, eliminate. Da questo punto di vista, Proudhon è senz'altro assai poco utopista. È molto più utopista Marx, proprio perché la meta finale di Proudhon e il modello di società che aveva in mente, tutto sommato, era un modello abbastanza realistico, che si basava su due idee fondamentali: 1) il mutualismo e l'autogestione 2) l'idea del federalismo» (Luciano Pellicani).

L'«Umanisfera» di Joseph Déjacque

Nuvola apps xmag.png Per approfondire, vedi Umanisfera.
Joseph Déjacque

Per Joseph Déjacque l'utopia è «un sogno non realizzato, ma non irrealizzabile». Grazie al progresso scientifico è possibile superare l'attuale civiltà, figlia della barbarie, esaurita da secoli di corruzioni, ed immaginare in un mondo futuro, che Déjacque colloca nel 2858 (dunque dieci secoli dopo la stesura del libro), la realizzazione dell'«Utopia anarchica».

Ecco una descrizione della società utopica:

«Presso i figli di questo nuovo mondo, non vi è né divinità né papato, né regalità, né dei, re o preti. Non volendo essere schiavi, non vogliono padroni. Essando libero, hanno solo il culto della Libertà, così la praticano sin dall'infanzia e la professano in tutti i momenti, e fino agli ultimi istanti della vita. La loro comunione anarchica non ha bisogno di bibbie o di codici; ciascuno di essi porta in sé la sua legge e il suo profeta, il suo cuore e la sua intelligenza. Non fanno ad altri quello che non vorrebbero altri facessero a loro, e fanno agli altri ciò che vorrebbero altri facessero loro. Volendo il bene per sé, fanno il bene degli altri. Non volendo che si attenti alla loro libera volontà, non attentano alla libera volontà degli altri. Amando, amati, vogliono crescere nell'amore e moltiplicarsi attraverso l'amore. Uomini, restituiscono, centuplicato, all'Umanità ciò che, bambini, sono ad essa costati in cure; e al loro vicino, le simpatie che gli sono dovute: sguardo per sguardo, sorriso per sorriso, bacio per bacio e, al bisogno, morso per morso. Sanno che hanno una madre comune, l'Umanità, che sono tutti fratelli, e che la fraternità li obbliga. Hanno coscienza che l'armonia non può esistere se non con il concorso delle volontà individuali, che la legge naturale delle attrazioni è la legge degli infinitamente piccoli come degli infinitamente grandi, che nulla di ciò che è sociale può muoversi se non dalla società, che essa è il pensiero universale, l'unità delle unità, la sfera delle sfere, immanente e permanente nell'eterno movimento; e dicono: al di fuori dell'anarchia non vi è salvezza! E aggiungono: la felicità è del nostro mondo. E sono tutti felici, e tutti incontrano sul loro cammino le soddisfazioni che cercano. Bussano, e tutte le prote si aprono; la simpatia, l'amore, il piacere e le gioie rispondono ai battiti del loro vuore, alle pulsazioni del cervello, ai colpi di martello delle braccia; e, in piedi sulle soglie, salutano il fratello, l'amante, il lavoratore; e la Scienza, come un'umile schiava, li guida innanzi, nel vestibolo dell'Ignoto. [...] In questa società anarchica, la famiglia legale e la proprietà legale sono istituzioni morte, geografie di cui si è perso il senso: una e indivisibile è la famiglia, una e indivisibile è la proprietà. In questa comunione fraterna, libero è il lavoro e libero è l'amore. Tutto ciò che è opera del braccio e dell'intelligenza, tutto ciò che è ogetto di produzione e di consumo, capitale comune, proprietà collettiva, appartiene a tutti e a ciascuno. Tutto ciò che è opera del cuore, tutto ciò che è essenza intima, sensazione e sentimento individuali, capitale particolare, proprietà corporale, tutto ciò che è uomo, infine, nella sua accezione propria, qualunque sia la sua età o il suo sesso, si appartiene».

bolo'bolo

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bolo'bolo è un romanzo dello svizzero Hans Widmer, conosciuto come «p.m.»

bolo'bolo è il titolo del romanzo dello scrittore svizzero Hans Widmer, conosciuto con lo pseudonimo di «p.m.» ed appartenente al collettivo "Midnight Notes", pubblicato nel 1983 per l'editore Paranoia City Verlag di Zurigo e diventato poi un romanzo anarchico "classico" tradotto in numerosissime lingue, tra cui l'italiano.

bolo'bolo racconta di un'utopia, ma non è utopico, anzi. Propone una accattivante alternativa al capitalismo e ad una vita dominata dall'economia, presentando una serie di esperienze, di progetti di sovversione e soprattutto di costruzione, di nuovi percorsi, non attuabili con la politica e che non si basano su una teoria particolare, ma che si possono sviluppare solo con la contemporanea paralisi ed eliminazione del controllo della macchina-lavoro planetaria, la rappresentazione del dominio della merce e del lavoro. Il titolo si riferisce al bolo che è una comunità autonoma corrispondente alla unità antropologica di una tribù (300-500 individui), che è immaginata come l'unità sociale di base di una società ecologicamente sostenibile. Un massimo di cinquecento persone è un numero interessante, che si replica nella cultura umana come uno sciame di api in un alveare, è la dimensione di un villaggio, di una tribù, di una scuola ed è abbastanza piccolo da permettere a tutti di avere familiarità l'uno con l'altro. Il libro descrive un piano dettagliato per la trasformazione del mondo così come lo conosciamo, attraverso la riconfigurazione dell'organizzazione sociale in micro-unità che costituiscono la base materiale per la sopravvivenza degli individui associati e che sono caratterizzate ognuna da una propria peculiare cultura. Il nucleo di un bolo è la sua cultura interna, ed ogni bolo ne può avere una propria senza restrizioni, autoritarie o libertarie, formali o creative.

L'anarchia non è un'utopia [2]

« Le utopie autoritarie del XIX secolo, sono principalmente responsabili dell'atteggiamento antiutopistico prevalente tra gli intellettuali di oggi. Ma le utopie non hanno sempre descritto società irreggimentate, stati centralizzati e nazioni di robot. Tahiti di Diderot o Notizie di Morris ci hanno presentato utopie in cui gli uomini erano liberi da costrizione sia fisica che morale, in cui essi lavoravano non per necessità o per un senso di dovere ma perché trovavano il lavoro un'attività piacevole, in cui l'amore non conosceva leggi ed in cui ogni uomo era un artista. Le utopie sono state spesso progetti di società che funzionavano meccanicamente, strutture morte da economisti, politicanti e moralisti; ma esse sono anche stati i sogni viventi di poeti. »

~ Maria Luisa Berneri, Viaggio attraverso Utopia

L'utopia è «un ordine nuovo che si contrappone al presente disordine, come alternativa globale. Quanto più si accentua la valenza operativa dell'utopia, tanto più precisa si delinea la sua pretesa di costituire un'alternativa globale del presente, immediatamente identificato col negativo, con ciò che deve essere totalmente rifiutato e soppresso». [3] Una prospettiva utopica non accetta pertanto alcun accomodamento parziale, non mira a riformare la realtà in quanto non accetta compromessi con l'esistente, il suo compito è quello di rivoluzionarlo; la prospettiva utopica non si pone il problema del miglioramento dell'esistente, esige il bene assoluto. In questo senso, «l'utopista rifiuta la possibilità di una riforma, perché non riconosce alternative parziali». [4] A differenza della prospettiva ideologica, l'utopia nel suo irriducibile moto di negazione non sottopone, a ben vedere, a critica la realtà esistente; si limita, per l'appunto, a negarla nella sua interezza, perorando la causa di una realtà totalmente altra e nuova rispetto all'esistente; un'utopia in cui l'ordine preconizzato regnerà nella sua assoluta perfezione. La struttura utopica preconizza lo speculare rovesciamento dell'esistente nell'auspicio che in tale radicale cambiamento il disordine si tramuti in ordine.

Se fosse privo di una riflessione intorno ad una intelaiatura giuridica non autoritaria (ma così non è: vedi diritto), l'anarchismo si potrebbe strutturare soltanto come una sorta di ideologia dagli esiti utopistici, che presupporrebbe ed attenderebbe, quale protagonista delle proprie vicende, un uomo nuovo sorto dalle ceneri della società oppressiva, che veleggia verso lidi contrassegnati, una volta approdato nel "paese della cuccagna" [5], dalla assoluta libertà e dalla altrettanta assoluta uguaglianza.

Tale rappresentazione in chiave miracolistica dell'anarchismo [6] va pertanto, per un verso, demistificata, per altro, nettamente rigettata, al fine non soltanto di favorire l'emergere di una immagine dell'anarchismo depurata da tali fantasie, ma anche, e soprattutto, di riconoscere nell'anarchismo un genuino (in quanto dialettico) approccio critico alla realtà sociale.

È stato sottolineato che lo stesso «Malatesta sintetizza la forma mentis dell'argomentare utopico che, anteponendo sempre il dover essere all'essere, si sottrae al confronto immediato col presente, in quanto critica questo non in rapporto alle sue possibilità reali, ma rispetto ad un ipotetico futuro, cioè con il criterio di un stato di cose totalmente diverso. In altri termini, non privilegia la trasformazione delle possibilità insite nella realtà data, ma le virtualità di un modello teorico così come comanda il dover essere». [7] Pare, invece, che proprio Malatesta riesca a cogliere – sia pur parzialmente – l'aporia di un pensare utopico sul quale poggiare la prassi sociale. Infatti, pur animato da una forte tensione morale (il dover essere), egli rifugge dall'idea dello speculare rovesciamento dell'esistente, ma cerca invece di intervenire su questo ritenendo che sia assurdo ed impossibile abbandonare tutto ciò che ha caratterizzato la vita in una società sostanzialmente autoritaria per approdare a "mondi" nella società anarchica. In questo senso, su una parte non irrilevante dell'essere va effettuato un intervento sì critico, ma non per questo distruttivo. [8] Per certi versi, si possono, quindi, intravedere fra le righe malatestiane intenti dialettici rispetto all'esistente e non, cosa in vero rigettata dal nostro, una (vana) speranza di automatico accomodamento delle cose quotidiane nella società liberata.

Pertanto, nonostante il pensiero comune, l'anarchia non è un'utopia (nell'accezione di progetto irrealizzabile). Per gran parte della sua storia l'umanità è vissuta senza alcuna archia (“potere”, “dominio”), poi, anche in epoche successive, vi sono state numerose esperienze anarchiche (vedi, per esempio, Ucraina libertaria e Rivoluzione spagnola); infine, l'anarchico può vivere immediatamente, seppur con i limiti e le contraddizioni che naturalmente si ingenerano in un sistema capitalistico, il suo essere anarchico.

Citazioni

  • «Un uomo senza sogni, senza utopie, senza ideali sarebbe un cinghiale laureato in matematica pura» (Fabrizio De André).
  • «L'utopia sta all'orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l'orizzonte si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? A questo: serve a camminare» (Eduardo Galeano).

Note

  1. Da Utopia, capitolo Sugli schiavi
  2. Fonte principale: Errico Malatesta. Note per un diritto anarchico, di Marco Cossutta, Collana in/Tigor, Edizioni Università di Trieste, 2015
  3. Francesco Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, Milano, 1983, p. 111
  4. Francesco Gentile, Intelligenza politica e ragion di stato, Milano, 1983, p. 112
  5. «Se nasce l'anarchia / un bel pranzo s'ha da fa' / tutto vitello e manzo / se duvimo da magna'»: canto anarchico dei Castelli romani, così riportato in L. Settimelli – L. Falavolti, Canti anarchici, p. 83
  6. In questo quadro, l'utopica società anarchica appare l'auto-proclamato luogo del bene assoluto (ευ τοπος), che è tratteggiabile solo attraverso lo speculare rovesciamento di ogni male sociale esistente; ma, in quanto puro rovesciamento, è, nel contempo, anche un non luogo (ου τοπος), in quanto la sua realizzazione non solo presuppone bensì necessita l'assunzione (e l'avverarsi) dell'ipotesi indimostrabile per la quale l'essere umano liberato dal dominio sviluppa immediatamente intrinseche capacità autoregolamentative in assenza di ogni istituzione coercitiva. In tal modo, la struttura utopica si lega a quella ideologica, non potendo l'una sorreggersi in assenza dell'altra; infatti, al di fuori di questa ipotesi antropologica (ed in assenza della totale negazione dell'esistente) la società anarchica non potrebbe né precognizzarsi, né, tanto meno, realizzarsi e, quindi, sia pure in altre forme, si perpetuerebbe il dominio dell'uomo sull'uomo.
  7. Giampietro Berti, Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria-Bari-Roma, 1998, p. 437
  8. Malatesta, il 1° giugno 1926, sulle pagine di Pensiero e Volontà, rileva: «appare l'idea, purtroppo assai sparsa in mezzo ai nostri compagni, che compito degli anarchici sia semplicemente quello di demolire, lasciando ai posteri l'opera di ricostruzione. Ed è idea nefasta. La vita sociale, come la vita individuale, non ammette interruzioni». Sulla stessa rivista, il 16 giugno dello stesso anno, dichiara: «distruggiamo i monopoli, d'accordo, ma i monopoli, quando non sieno quelli dei bottoncini da camicia o del rossetto per le labbra di certe signorine, i grossi monopoli (acqua, elettricità, carbone, trasporti di terra e di mare ecc.) rispondono sempre ad un servizio pubblico necessario; e non si distruggono quei monopoli, o se ne produce il sollecito ritorno, se nell'atto stesso che si mandan via i monopolisti non si continua il servizio e, possibilmente, in modo migliore di quello che avveniva sotto di loro».

Voci correlate

Collegamenti esterni

Viaggio attraverso Utopia, di Maria Luisa Berneri