Violenza: differenze tra le versioni

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La violenza deve essere predicata e preparata «se non vogliamo che l'attuale condizione di schiavitù larvata, in cui si trova la grande maggioranza dell'umanità, perduri e peggiori. Ma essa contiene in sé il pericolo di trasformare la rivoluzione in una mischia brutale senza luce d'ideale e senza possibilità di risultati benefici; e perciò bisogna insistere sugli scopi morali del movimento e sulla necessità, sul dovere di contenere la violenza nei limiti della stretta necessità. Noi non diciamo che la violenza è buona quando l'adoperiamo noi ed è cattiva quando l'adoperano gli altri contro di noi. Noi diciamo che la violenza è giustificabile, è buona, è morale, è doverosa, quando è adoperata per la difesa di se stesso e degli altri contro le pretese dei violenti; è cattiva, è immorale se serve a violare la libertà altrui». <ref>Malatesta, ''Morale e violenza'', in ''Umanità Nova'', Roma, 21 ottobre 1922</ref> «Noi consideriamo la violenza necessaria e doverosa per la difesa, ma solo per la difesa. Tutta la violenza necessaria per vincere, ma niente di più o di peggio». <ref>Malatesta, Morale e violenza</ref> Del tutto logicamente, arriva a concludere: «se per vincere si dovesse elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere». <ref>Malatesta, ''Il terrore rivoluzionario'', in ''Pensiero e Volontà'', Roma, 1 ottobre 1924 (sul problema della violenza nel pensiero di Malatesta cfr. Fabbri, ''L'uomo e il pensiero'', pp. 140-149 e Richards, ''L'importanza di Malatesta per gli anarchici di oggi'', in ''E. Malatesta, Vita e idee'', a cura di Vernon Richards, Pistoia, 1968, pp. 345-355)</ref>
La violenza deve essere predicata e preparata «se non vogliamo che l'attuale condizione di schiavitù larvata, in cui si trova la grande maggioranza dell'umanità, perduri e peggiori. Ma essa contiene in sé il pericolo di trasformare la rivoluzione in una mischia brutale senza luce d'ideale e senza possibilità di risultati benefici; e perciò bisogna insistere sugli scopi morali del movimento e sulla necessità, sul dovere di contenere la violenza nei limiti della stretta necessità. Noi non diciamo che la violenza è buona quando l'adoperiamo noi ed è cattiva quando l'adoperano gli altri contro di noi. Noi diciamo che la violenza è giustificabile, è buona, è morale, è doverosa, quando è adoperata per la difesa di se stesso e degli altri contro le pretese dei violenti; è cattiva, è immorale se serve a violare la libertà altrui». <ref>Malatesta, ''Morale e violenza'', in ''Umanità Nova'', Roma, 21 ottobre 1922</ref> «Noi consideriamo la violenza necessaria e doverosa per la difesa, ma solo per la difesa. Tutta la violenza necessaria per vincere, ma niente di più o di peggio». <ref>Malatesta, Morale e violenza</ref> Del tutto logicamente, arriva a concludere: «se per vincere si dovesse elevare la forca nelle piazze, io preferirei perdere». <ref>Malatesta, ''Il terrore rivoluzionario'', in ''Pensiero e Volontà'', Roma, 1 ottobre 1924 (sul problema della violenza nel pensiero di Malatesta cfr. Fabbri, ''L'uomo e il pensiero'', pp. 140-149 e Richards, ''L'importanza di Malatesta per gli anarchici di oggi'', in ''E. Malatesta, Vita e idee'', a cura di Vernon Richards, Pistoia, 1968, pp. 345-355)</ref>


L'azione anarchica, quindi, deve contemplare la violenza come necessità di liberazione dalla violenza dei governi e dei padroni, non però per edificare l'anarchia. Per l'anarchismo essa è un mezzo che non va rifiutato "a priori" perché, se la non-violenza è un valore costitutivo dell'anarchia, questa, tuttavia, ha altri valori più grandi da anteporre, quali la libertà, l'uguaglianza e la stessa dignità dell'uomo. In questo senso «la violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia criminale [...] perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri». <ref>Malatesta, ''Anarchia e violenza''</ref> La necessità della violenza, pertanto, si giustifica come "extrema ratio", quasi come riluttante considerazione dell'impossibilità di fare altrimenti: «perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l'altro a lavorare per lui ed a servirlo, l'altro, se vuole conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati». <ref>Malatesta, ''Anarchia e violenza''</ref>
L'azione anarchica, quindi, deve contemplare la violenza come necessità di liberazione dalla violenza dei governi e dei padroni, non però per edificare l'anarchia. Per l'anarchismo essa è un mezzo che non va rifiutato "a priori" perché, se la non-violenza è un valore costitutivo dell'anarchia, questa, tuttavia, ha altri valori più grandi da anteporre, quali la [[libertà]], l'[[uguaglianza]] e la stessa dignità dell'uomo. In questo senso «la violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia criminale [...] perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri». <ref>Malatesta, ''Anarchia e violenza''</ref> La necessità della violenza, pertanto, si giustifica come "extrema ratio", quasi come riluttante considerazione dell'impossibilità di fare altrimenti: «perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l'altro a lavorare per lui ed a servirlo, l'altro, se vuole conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati». <ref>Malatesta, ''Anarchia e violenza''</ref>


Addirittura, la violenza diventa un imperativo morale, quando si è posti nella situazione di potere agire attivamente per impedire l'ulteriore propagarsi della sopraffazione: «il non resistere al male attivamente, cioè in tutti i modi possibili e adeguati, in teoria è assurdo, perché in contraddizione collo scopo di evitare e distruggere il male, ed in pratica è immorale perché rinnega la solidarietà umana ed il dovere che ne consegue di difendere i deboli e gli oppressi». <ref>Malatesta, ''Cristiano?'', in ''Pensiero e Volontà'', Roma, 16 aprile - 16 maggio 1925</ref> Malatesta, però, non riesce a definire ulteriormente il concetto di difesa e gli ambiti entro cui questa diventa legittima, se non nel senso di considerare come difesa ogni azione di liberazione dallo sfruttamento e dall'oppressione; concetto del tutto generico. Soprattutto non riesce a stabilire chi ha il diritto di esercitare la violenza. Infatti, rimanendo al suo criterio, questo diritto dovrebbe essere solo di coloro che subiscono lo sfruttamento e l'oppressione, vale a dire le masse popolari. Ma, più che le masse popolari, a rivendicare l'uso della violenza è in realtà chi parla ed agisce in loro nome, cioè i rivoluzionari di professione. [[Malatesta]] da un lato rivendica la legittimità della violenza da parte degli oppressi, dall'altro deve poi riconoscere che ad esercitarla veramente non è chi la subisce. Egli infatti non può sfuggire dalla realistica consapevolezza che la vera lotta è tra le minoranze agenti e coscienti.
Addirittura, la violenza diventa un imperativo morale, quando si è posti nella situazione di potere agire attivamente per impedire l'ulteriore propagarsi della sopraffazione: «il non resistere al male attivamente, cioè in tutti i modi possibili e adeguati, in teoria è assurdo, perché in contraddizione collo scopo di evitare e distruggere il male, ed in pratica è immorale perché rinnega la solidarietà umana ed il dovere che ne consegue di difendere i deboli e gli oppressi». <ref>Malatesta, ''Cristiano?'', in ''Pensiero e Volontà'', Roma, 16 aprile - 16 maggio 1925</ref> Malatesta, però, non riesce a definire ulteriormente il concetto di difesa e gli ambiti entro cui questa diventa legittima, se non nel senso di considerare come difesa ogni azione di liberazione dallo sfruttamento e dall'oppressione; concetto del tutto generico. Soprattutto non riesce a stabilire chi ha il diritto di esercitare la violenza. Infatti, rimanendo al suo criterio, questo diritto dovrebbe essere solo di coloro che subiscono lo sfruttamento e l'oppressione, vale a dire le masse popolari. Ma, più che le masse popolari, a rivendicare l'uso della violenza è in realtà chi parla ed agisce in loro nome, cioè i rivoluzionari di professione. [[Malatesta]] da un lato rivendica la legittimità della violenza da parte degli oppressi, dall'altro deve poi riconoscere che ad esercitarla veramente non è chi la subisce. Egli infatti non può sfuggire dalla realistica consapevolezza che la vera lotta è tra le minoranze agenti e coscienti.
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