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Versione delle 10:20, 30 lug 2022


Franz Kafka

Davanti alla legge (Vor dem Gesetz) è una storia contenuta nel romanzo Il Processo (Der Prozess): vi si racconta di un uomo che attende per tutta la vita davanti alla porta aperta della Legge, il cui ingresso gli è vietato dal guardiano con le parole «non ora», che lasciano intravedere un consenso futuro. Quando l'uomo giunge alal fine della sua resistenza e della sua vita, il guardiano gli rivela che quella porta era aperta solo per lui, e la richiude. Secondo alcuni interpreti, l'uomo si è fatto intimidire: non è la forza che gli impedisce di entrare, ma la paura, la mancanza di fiducia in se stesso, la falsa obbedienza all'autorità, la sottomissione passiva. «È perduto perché non osa mettere la propria legge personale al di sopra dei tabù collettivi, la cui tirannia è rappresentata dal guardiano». [1] La ragione profonda per la quale l'uomo non varca la barriera verso la Legge e verso la vita è la paura, l'esitazione, la mancanza di ardimento. Il timore di colui che implora il diritto di entrare è ciò che dà al guardiano la forza di sbarragli la strada. [2] La naturale conseguenza di questa sottomissione passiva è la schiavitù volontaria [3], motore della gerarchia, tema che Kafka aveva certamente trovato nell'opera di uno scrittore che adorava: Fëdor Dostoevskij. [4]


Murray Bookchin

Fabbrica, scuola di potere è un articolo di Murray Bookchin in cui viene criticata l'istituzione soclastica. L'articolo è stato tratto da Interrogations, n. 17/18, 1979.

«La fabbrica è una scuola gerarchica, di obbedienza e di comando, non è rivoluzionaria e liberatoria. Riproduce in ogni momento, in ogni ora, il servilismo del proletariato, e non il suo slancio rivoluzionario di portata storica. Non impedisce certo che venga ridotto ad oggetto, ma anzi attenta alla sua individualità, alla sua capacità di trascendere i bisogni. Di conseguenza, visto che l'autodeterminazione, l'iniziativa autonoma e l'individualità sono l'essenza stessa della "dimensione della libertà", esse devono essere negate alla "base materiale" della società, per trovare presumibilmente un'affermazione solo nelle sue "sovrastrutture" - almeno fino a quando la fabbrica e le tecniche della produzione capitalista saranno concepite esclusivamente dal punto di vista tecnico, come elementi connaturali alla produzione. Dobbiamo presumere, poi, che questo regno disumanizzante dei bisogni - vagliato da un'"autorità imperiosa" - possa in qualche modo elevare e accrescere la coscienza di classe del lavoratore disumanizzato, trasformandola in una coscienza sociale universale; e che questo operaio, spogliato e privato di ogni individualità da una vita di quotidiano lavoro, possa in qualche modo recuperare l'impegno e la competenza sociali necessari ad un processo rivoluzionario su vasta scala e alla costruzione di una società veramente libera, fondata sull'autodeterminazione nel senso più vero del termine. Infine, dobbiamo pensare che questa società libera possa eliminare la gerarchia da una parte, mentre la conserva "imperiosa" da un'altra. Portato alla sua logica estrema, il paradosso assume proporzioni assurde. La gerarchia, come una tuta da lavoro, diventa un indumento di cui ci si veste nel "regno della libertà" per tornare ad indossarlo nel "regno dei bisogni". Come un'altalena, la libertà oscilla nel punto in cui poniamo il fulcro sociale, magari al centro della tavola, in una determinata "fase" della storia, o più spostata verso l'una o l'altra estremità in un'altra "fase", ma sempre in modo che la misura sia sempre rapportabile alla "giornata lavorativa".

Questo fatale paradosso è comune al comunismo non meno che al sindacalismo. Ciò che redime quest'ultimo è l'implicita consapevolezza - assai esplicita, invece, nelle opere di Charles Fourier - della necessità di privare la tecnologia del suo carattere gerarchico e grigio, monotono, per poter creare una società libera. Nelle dottrine sindacaliste, tuttavia, questa consapevolezza è spesso distorta dall'accettazione della fabbrica come infrastruttura della nuova società all'interno della vecchia, come paradigma dell'organizzazione della classe operaia e come scuola per l'umanizzazione del proletariato e per la sua mobilitazione come forza sociale rivoluzionaria». [...]


Stig Dagerman

«Non tutti i detrattori dell'anarchismo hanno la stessa idea del pericolo ideologico che esso rappresenta e questa idea varia in funzione del loro grado di armamento e delle possibilità legali che hanno di farne uso. Mentre in Spagna, tra il 1936 e il 1939, l'anarchico era considerato così pericoloso per la società che conveniva sparargli addosso dai due lati (in effetti, non era esposto solo di fronte ai fucili tedeschi e italiani ma anche, alle spalle, alle pallottole degli «alleati» comunisti), l'anarchico svedese è considerato in certi ambienti radicali, ed in particolare marxisti, un romantico impenitente, una specie di idealista della politica con complessi liberali profondamente radicati. In modo più o meno cosciente, si chiudono gli occhi sul fatto, pertanto capitale, che l'ideologia anarchica, accoppiata a una teoria economica (il sindacalismo) è sfociata in Catalogna durante la guerra civile, in un sistema di produzione perfettamente funzionante, basato sull'eguaglianza economica e non sul livellamento mentale, sulla cooperazione pratica senza violenza ideologica e sulla coordinazione razionale senza eliminazione della libertà individuale: concetti contraddittori che sfortunatamente sembrano essere sempre più diffusi sotto forma di sintesi» (da Io e l'anarchismo, 1946).

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Note

  1. Marthe Robert, Seul comme Franz Kafka, Calmann Lévy, Parigi, 1979, p. 162.
  2. Dagli Aforismi di Zürau: «Le gioie di questa vita non sono le sue, ma la nostra paura di ascendere a una vita superiore; i tormenti di questa vita non sono i suoi, ma il tormento che ci procuriamo noi stessi per via di quella paura».
  3. Dagli Aforismi di Zürau: «Una volta accolto in noi, il male non chiede più che gli si creda».
  4. Da Il sogno di un uomo ridicolo: «Comparve la schiavitù, comparve perfino la schiavitù volontaria: i deboli si assoggettavano volentieri ai più forti, a patto solo che questi li proteggessero e li aiutassero a schiacciare quelli che erano ancor più deboli di loro».