Violenza: differenze tra le versioni

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L'azione anarchica, quindi, deve contemplare la violenza come necessità di liberazione dalla violenza dei governi e dei padroni, non però per edificare l'anarchia. Per l'anarchismo essa è un mezzo che non va rifiutato "a priori" perché, se la non-violenza è un valore costitutivo dell'anarchia, questa, tuttavia, ha altri valori più grandi da anteporre, quali la [[libertà]], l'[[uguaglianza]] e la stessa dignità dell'uomo. In questo senso «la violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia criminale [...] perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri». <ref>Malatesta, ''Anarchia e violenza''</ref> La necessità della violenza, pertanto, si giustifica come "extrema ratio", quasi come riluttante considerazione dell'impossibilità di fare altrimenti: «perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l'altro a lavorare per lui ed a servirlo, l'altro, se vuole conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati». <ref>Malatesta, ''Anarchia e violenza''</ref>
L'azione anarchica, quindi, deve contemplare la violenza come necessità di liberazione dalla violenza dei governi e dei padroni, non però per edificare l'anarchia. Per l'anarchismo essa è un mezzo che non va rifiutato "a priori" perché, se la non-violenza è un valore costitutivo dell'anarchia, questa, tuttavia, ha altri valori più grandi da anteporre, quali la [[libertà]], l'[[uguaglianza]] e la stessa dignità dell'uomo. In questo senso «la violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia criminale [...] perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri». <ref>Malatesta, ''Anarchia e violenza''</ref> La necessità della violenza, pertanto, si giustifica come "extrema ratio", quasi come riluttante considerazione dell'impossibilità di fare altrimenti: «perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l'altro a lavorare per lui ed a servirlo, l'altro, se vuole conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati». <ref>Malatesta, ''Anarchia e violenza''</ref>


Addirittura, la violenza diventa un imperativo morale, quando si è posti nella situazione di potere agire attivamente per impedire l'ulteriore propagarsi della sopraffazione: «il non resistere al male attivamente, cioè in tutti i modi possibili e adeguati, in teoria è assurdo, perché in contraddizione collo scopo di evitare e distruggere il male, ed in pratica è immorale perché rinnega la solidarietà umana ed il dovere che ne consegue di difendere i deboli e gli oppressi». <ref>Malatesta, ''Cristiano?'', in ''Pensiero e Volontà'', Roma, 16 aprile - 16 maggio 1925</ref> Malatesta, però, non riesce a definire ulteriormente il concetto di difesa e gli ambiti entro cui questa diventa legittima, se non nel senso di considerare come difesa ogni azione di liberazione dallo sfruttamento e dall'oppressione; concetto del tutto generico. Soprattutto non riesce a stabilire chi ha il diritto di esercitare la violenza. Infatti, rimanendo al suo criterio, questo diritto dovrebbe essere solo di coloro che subiscono lo sfruttamento e l'oppressione, vale a dire le masse popolari. Ma, più che le masse popolari, a rivendicare l'uso della violenza è in realtà chi parla ed agisce in loro nome, cioè i rivoluzionari di professione. [[Malatesta]] da un lato rivendica la legittimità della violenza da parte degli oppressi, dall'altro deve poi riconoscere che ad esercitarla veramente non è chi la subisce. Egli infatti non può sfuggire dalla realistica consapevolezza che la vera lotta è tra le minoranze agenti e coscienti.
Addirittura, la violenza diventa un imperativo morale, quando si è posti nella situazione di potere agire attivamente per impedire l'ulteriore propagarsi della sopraffazione: «il non resistere al male attivamente, cioè in tutti i modi possibili e adeguati, in teoria è assurdo, perché in contraddizione collo scopo di evitare e distruggere il male, ed in pratica è immorale perché rinnega la solidarietà umana ed il dovere che ne consegue di difendere i deboli e gli oppressi». <ref>Malatesta, ''Cristiano?'', in ''Pensiero e Volontà'', Roma, 16 aprile - 16 maggio 1925</ref> [[Malatesta]], però, non riesce a definire ulteriormente il concetto di difesa e gli ambiti entro cui questa diventa legittima, se non nel senso di considerare come difesa ogni azione di liberazione dallo sfruttamento e dall'oppressione; concetto del tutto generico. Soprattutto non riesce a stabilire chi ha il diritto di esercitare la violenza. Infatti, rimanendo al suo criterio, questo diritto dovrebbe essere solo di coloro che subiscono lo sfruttamento e l'oppressione, vale a dire le masse popolari. Ma, più che le masse popolari, a rivendicare l'uso della violenza è in realtà chi parla ed agisce in loro nome, cioè i rivoluzionari di professione. [[Malatesta]] da un lato rivendica la legittimità della violenza da parte degli oppressi, dall'altro deve poi riconoscere che ad esercitarla veramente non è chi la subisce. Egli infatti non può sfuggire dalla realistica consapevolezza che la vera lotta è tra le minoranze agenti e coscienti.


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