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{{Biblioteca/Titolo 2|nome=<big><span style="color:#C11B17">''Sull'anarchia, oggi''</span></big><br>di Giorgio Agamben|autore=Giorgio Agamben|altro=da quodlibet.it}}
{{Biblioteca/Titolo 2|nome=[[Michel Onfray]]. Il post-anarchismo spiegato a mia nonna (di Marco Liberatore)|autore=Marco Liberatore|altro=da doppiozero.com}}
Se per chi intenda pensare la politica, di cui costituisce in qualche modo l'estremo fuoco o punto di fuga, l'[[anarchia]] non ha mai cessato di essere attuale, tale essa è oggi anche per l'ingiusta, feroce persecuzione cui è sottoposto un [[anarchico]] nelle carceri italiane. Parlare di [[anarchia]], come pure si è dovuto fare, sul piano del [[diritto]] implica, però, necessariamente un paradosso, perché è quanto meno contraddittorio chiedere che lo [[stato]] riconosca il diritto di negare lo [[stato]], così come, se si intende portare il diritto di resistenza fino alle sue conseguenze ultime, non si può ragionevolmente esigere che sia giuridicamente tutelata la possibilità della guerra civile. Per pensare l'[[anarchia]] oggi converrà pertanto porsi in tutt'altra prospettiva e interrogare piuttosto il modo in cui Engels la concepiva, quando rimproverava agli [[anarchici]] di voler sostituire l'amministrazione allo [[stato]]. In quest'accusa si nasconde infatti un problema politico decisivo, che né i [[marxisti]] né forse gli stessi [[anarchici]] hanno posto correttamente. Un problema tanto più urgente, in quanto stiamo oggi assistendo al tentativo di realizzare in qualche modo parodicamente quello che era per Engels lo scopo dichiarato dell'[[anarchia]] – e, cioè, non tanto la semplice sostituzione dell'amministrazione allo [[stato]], quanto piuttosto l'identificazione di [[stato]] e amministrazione in una sorta di Leviatano, che assume la maschera bonaria dell'amministratore. È quanto Sunstein e Vermeule teorizzano in un libro (''Law and Leviathan, Redeeming the Administrative State'') in cui la ''governance'', l'esercizio del governo, eccedendo e contaminando i poteri tradizionali (legislativo, esecutivo, giudiziario), esercita in nome dell'amministrazione e in modo discrezionale le funzioni e i poteri che ad essi spettavano. Che cos'è l'amministrazione? ''Minister'', da cui il termine deriva, è il servo o l'aiutante in opposizione al ''magister'', il padrone, il titolare del [[potere]]. Il vocabolo deriva dalla radice *''men'', che significa la diminuzione e la piccolezza. Il ''minister'' sta al ''magister'' come il ''minus'' sta al ''magis'', il meno al più, il piccolo al grande, ciò che diminuisce a ciò che aumenta. L'idea dell'''anarchia'' consisterebbe, almeno secondo Engels, nel tentativo di pensare un ''minister'' senza un ''magister'', un servitore senza un padrone. Tentativo certamente interessante, dal momento che può essere tatticamente vantaggioso giocare in questo modo il servo contro il padrone, il meno contro il più e pensare una [[società]] in cui tutti sono ministri e nessuno ''magister'' o capo. È quanto in un certo senso aveva fatto [[Hegel]], mostrando nella sua famigerata dialettica che il servo finisce in ultimo col dominare il padrone. È nondimeno innegabile che le due figure-chiave della politica occidentale restano in questo modo legate l'una all'altra in un'instancabile relazione, di cui è impossibile una volta per tutte venire a capo. Un'idea radicale di [[anarchia]] non può allora che sciogliersi dall'incessante dialettica del servo e dello schiavo, del ''minister'' e del ''magister'', per situarsi risolutamente nello scarto che li divide. Il ''tertium'' che appare in questo varco non sarà più né amministrazione né [[stato]], né ''minus'' ''magis'': sarà piuttosto fra di essi come un resto, che esprime la loro impossibilità di coincidere. L'[[anarchia]] è, cioè, innanzitutto, la sconfessione radicale non tanto dello [[stato]] né semplicemente dell'amministrazione, quanto piuttosto della pretesa del [[potere]] di far coincidere [[stato]] e amministrazione nel governo degli uomini. È contro questa pretesa che l'[[anarchico]] si batte, in nome in ultima analisi di quell'ingovernabile, che è il punto di fuga di ogni comunità fra gli uomini.
[[File:Michel Onfray - Theatre rond point - 2010-05-20.jpg|miniatura|250px|[[Michel Onfray]]]]
Che tempi sono questi? Sono i tempi delle proteste in Turchia, in Bulgaria e in Brasile, i tempi di [[Anonymous]], del [[movimento No Tav]] e dalle lotte in difesa dei beni comuni. Forse gli [[anarchici]] non sono più meno dell'uno per cento, come cantava [[Léo Ferré]], ma certamente coloro che si interrogano criticamente sui presupposti teorici e sui fondamenti delle pratiche anarchiche non sono molto numerosi. Stranamente, verrebbe da dire, perché questa modalità di mettersi in discussione fu inaugurata da un gigante dell'[[anarchismo]] classico, [[Errico Malatesta]] (e da [[Camillo Berneri]] subito dopo) che già nel [[1920]], sulle pagine di ''[[Umanità Nova]]'' scriveva «L'[[anarchia]] non si fa per forza: volerlo, sarebbe la più balorda delle contraddizioni». E un paio di anni dopo «L'[[anarchia]] è l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai, come non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte [...], l'[[anarchismo]] è metodo di vita e di lotta e deve essere, dagli [[anarchici]], praticato oggi e sempre, nei limiti delle possibilità variabili secondo i tempi e le circostanze». C'è da dire che si era già pronunciato nella stessa direzione [[Gustav Landauer]], di cui è nota l'affermazione «Lo [[Stato]] non è qualcosa che si possa distruggere con una [[rivoluzione]], ma è una condizione, un certo rapporto tra esseri umani, una modalità del comportamento umano: lo distruggiamo stabilendo nuove relazioni, comportandoci in modo diverso».
 
Per tutto il '900 il pensiero [[anarchico]] non ha mai smesso l'abitudine di ripensarsi criticamente, soprattutto a opera di intellettuali e militanti come [[Paul Goodman]] - «Una società [[libertà|libera]] non può essere l'imposizione di un “ordine nuovo” al posto di quello vecchio: è l'ampliamento degli ambiti di azione autonoma fino a che questi occupino gran parte della vita sociale» - oppure attraverso le parole di [[Colin Ward]] «Come si reagirebbe alla scoperta chela società in cui si vorrebbe realmente vivere c'è già... se non si tiene conto, ovviamente, di qualche piccolo guaio come sfruttamento, guerra, dittatura e gente che muore di fame? [...] Una [[società]] [[anarchica]], una società che si organizza senza autorità, esiste da sempre, come un seme sotto la neve, sepolta sotto il peso dello [[Stato]] e della burocrazia, del [[capitalismo]] e dei suoi sprechi, del privilegio e delle sue ingiustizie». Nelle loro pagine troviamo un'idea di [[anarchia]] che sembra allontanarsi da quella dei classici [[Bakunin]], [[Kropotkin]] e [[Proudhon]]. La capacità di riflessione e di autocritica espressa in tempi non sospetti testimonia una grande vitalità e sembra anticipare molte delle questioni sollevate più di recente.
 
'''''Il post-anarchismo spiegato a mia nonna''''' di [[Michel Onfray]] si inserisce, quindi, in un ampio dibattito che si può riassumere in una domanda: le idee e i concetti della post-modernità possono essere impiegati per riattivare e riattualizzare il pensiero [[anarchico]]? Posta in questi termini la questione però non è molto chiara. Quale pensiero [[anarchico]]? E perché avrebbe bisogno di una “cura rinvigorente”?
 
La risposta va cercata negli anni a cavallo tra gli '80 e i '90, in quel periodo [[Hakim Bey]] pubblica una serie di scritti nei quali muove una critica al [[movimento anarchico]], ossia di essere fuori dalla storia, incapace di interpretare la realtà e di comunicare in maniera comprensibile un programma di emancipazione che possa essere fatto proprio dagli emarginati della società contemporanea. Come [[Hakim Bey|Bey]] risolverà la cosa è noto, inventandosi le [[TAZ]] (le zone temporaneamente autonome che hanno ispirato raver e resistenti post-autonomia, con le loro esistenze interstiziali nelle pieghe della [[società]] del controllo e i loro divenire minoritari in chiave anti-egemonica). Più o meno negli stessi anni, un professore di filosofia della Carolina del Sud, [[Todd May]], pubblica un libro destinato ad attirare l'attenzione di moltissimi [[anarchici]] ''The Political Philosophy of Poststructuralist Anarchism'', nel quale rilegge i principi della dottrina politica [[anarchica]] confrontandoli con i risultati delle analisi post-strutturaliste, in particolare con quelle di [[Foucault]] e di [[Gilles Deleuze|Deleuze]]-[[Félix Guattari|Guattari]]. L'esito di quella lettura parallela produrrà la ridefinizione di tutta una serie di valori e categorie, ereditati dalla matrice illuministica e ottocentesca, quali essenzialismo, etica, identità, natura umana, [[potere]], [[rivoluzione]], soggettività. Successivamente un altro professore, [[Saul Newman]] tornerà sulla medesima questione, ossia la necessità (ma anche l'opportunità) per il pensiero [[anarchico]] di liberarsi dalle ingenuità filosofiche moderne per fare proprio il lascito [[nietzscheano]] reinterpretato dai post-strutturalisti francesi. Di qui in poi sarà tutto un susseguirsi di analisi e contro-analisi interne al [[movimento anarchico]], tra accademici e non, che preferisco sorvolare, richiamando solo gli autori di alcuni dei contributi più interessanti, come [[Salvo Vaccaro]], [[Richard Day]], [[Vivien Garcia]] e [[Tomás Ibañez]].
 
'''[https://www.doppiozero.com/materiali/contemporanea/post-anarchismo Vai all'articolo]'''
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Versione attuale delle 19:11, 19 giu 2024

Sull'anarchia, oggi
di Giorgio Agamben

Se per chi intenda pensare la politica, di cui costituisce in qualche modo l'estremo fuoco o punto di fuga, l'anarchia non ha mai cessato di essere attuale, tale essa è oggi anche per l'ingiusta, feroce persecuzione cui è sottoposto un anarchico nelle carceri italiane. Parlare di anarchia, come pure si è dovuto fare, sul piano del diritto implica, però, necessariamente un paradosso, perché è quanto meno contraddittorio chiedere che lo stato riconosca il diritto di negare lo stato, così come, se si intende portare il diritto di resistenza fino alle sue conseguenze ultime, non si può ragionevolmente esigere che sia giuridicamente tutelata la possibilità della guerra civile. Per pensare l'anarchia oggi converrà pertanto porsi in tutt'altra prospettiva e interrogare piuttosto il modo in cui Engels la concepiva, quando rimproverava agli anarchici di voler sostituire l'amministrazione allo stato. In quest'accusa si nasconde infatti un problema politico decisivo, che né i marxisti né forse gli stessi anarchici hanno posto correttamente. Un problema tanto più urgente, in quanto stiamo oggi assistendo al tentativo di realizzare in qualche modo parodicamente quello che era per Engels lo scopo dichiarato dell'anarchia – e, cioè, non tanto la semplice sostituzione dell'amministrazione allo stato, quanto piuttosto l'identificazione di stato e amministrazione in una sorta di Leviatano, che assume la maschera bonaria dell'amministratore. È quanto Sunstein e Vermeule teorizzano in un libro (Law and Leviathan, Redeeming the Administrative State) in cui la governance, l'esercizio del governo, eccedendo e contaminando i poteri tradizionali (legislativo, esecutivo, giudiziario), esercita in nome dell'amministrazione e in modo discrezionale le funzioni e i poteri che ad essi spettavano. Che cos'è l'amministrazione? Minister, da cui il termine deriva, è il servo o l'aiutante in opposizione al magister, il padrone, il titolare del potere. Il vocabolo deriva dalla radice *men, che significa la diminuzione e la piccolezza. Il minister sta al magister come il minus sta al magis, il meno al più, il piccolo al grande, ciò che diminuisce a ciò che aumenta. L'idea dell'anarchia consisterebbe, almeno secondo Engels, nel tentativo di pensare un minister senza un magister, un servitore senza un padrone. Tentativo certamente interessante, dal momento che può essere tatticamente vantaggioso giocare in questo modo il servo contro il padrone, il meno contro il più e pensare una società in cui tutti sono ministri e nessuno magister o capo. È quanto in un certo senso aveva fatto Hegel, mostrando nella sua famigerata dialettica che il servo finisce in ultimo col dominare il padrone. È nondimeno innegabile che le due figure-chiave della politica occidentale restano in questo modo legate l'una all'altra in un'instancabile relazione, di cui è impossibile una volta per tutte venire a capo. Un'idea radicale di anarchia non può allora che sciogliersi dall'incessante dialettica del servo e dello schiavo, del minister e del magister, per situarsi risolutamente nello scarto che li divide. Il tertium che appare in questo varco non sarà più né amministrazione né stato, né minusmagis: sarà piuttosto fra di essi come un resto, che esprime la loro impossibilità di coincidere. L'anarchia è, cioè, innanzitutto, la sconfessione radicale non tanto dello stato né semplicemente dell'amministrazione, quanto piuttosto della pretesa del potere di far coincidere stato e amministrazione nel governo degli uomini. È contro questa pretesa che l'anarchico si batte, in nome in ultima analisi di quell'ingovernabile, che è il punto di fuga di ogni comunità fra gli uomini.