Anarchismo e Politica: La revisione di Berneri: differenze tra le versioni

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==L'Anarchismo e i “movimenti”==  
==L'Anarchismo e i “movimenti”==  
Berneri insegna ad accettare da subito (e veramente) la necessità di una sinistra (e di una società) aperta, come elemento non mediabile e non rinunciabile di arricchimento e revisione rispetto ad un passato (anche recentissimo) di macerie. Viceversa, le realtà “antagoniste” (costruite ancora “contro” più che “per”) non sanno fissare davvero per il futuro, programmaticamente, l'ineliminabilità del pluralismo e del pensiero divergente. Tale elemento, centrale per una vera rivoluzione, è affatto scontato. Porsi questo problema è difficile per quanti identificano nella rivoluzione solo il superamento dell'esistente e rimandano fideisticamente al “dopo” la discussione sui nuovi parametri della democrazia. Del resto, sbaglierebbe i suoi conti chi pensasse che è solo la radicalità degli slogan e dei comportamenti esteriori (nella quale sconfitti ed orfani cercano l'ultima spiaggia dell'identità) il veicolo della ripresa di protagonismo: all'alba del Terzo Millennio contano finalmente molto di più la genuina radicalità delle idee e del progetto. Soprattutto nei paesi del “primo mondo”, la politica dello scontro per lo scontro è una deviazione involutiva e del tutto simbolica dell'immaginario e della (molto più complessa) realtà del conflitto sociale.
Berneri insegna ad accettare da subito (e veramente) la necessità di una sinistra (e di una società) aperta, come elemento non mediabile e non rinunciabile di arricchimento e revisione rispetto ad un passato (anche recentissimo) di macerie. Viceversa, le realtà “antagoniste” (costruite ancora “contro” più che “per”) non sanno fissare davvero per il futuro, programmaticamente, l'ineliminabilità del pluralismo e del pensiero divergente. Tale elemento, centrale per una vera rivoluzione, è affatto scontato. Porsi questo problema è difficile per quanti identificano nella rivoluzione solo il superamento dell'esistente e rimandano fideisticamente al “dopo” la discussione sui nuovi parametri della democrazia. Del resto, sbaglierebbe i suoi conti chi pensasse che è solo la radicalità degli slogan e dei comportamenti esteriori (nella quale sconfitti ed orfani cercano l'ultima spiaggia dell'identità) il veicolo della ripresa di protagonismo: all'alba del Terzo Millennio contano finalmente molto di più la genuina radicalità delle idee e del progetto. Soprattutto nei paesi del “primo mondo”, la politica dello scontro per lo scontro è una deviazione involutiva e del tutto simbolica dell'immaginario e della (molto più complessa) realtà del conflitto sociale.
Essere rivoluzionari è elemento d'identità, ma soprattutto nella proposta. Per due motivi. In primis perché per affermare la necessità del cambiamento bisogna saper dimostrare di poter e saper ottenere dei risultati. Secondariamente perché c'è bisogno di un'inversione della prassi. L'antipolitica non è una novità: negare l'autonomia della politica lo è, ovvero dimostrare di saper davvero subordinare la politica all'etica. La qual cosa prevede anche delle capacità di studio ed osservazione che non stanno certo nella semplice negazione del ragionamento politico. Occorre la capacità di mettere in atto il gradualismo rivoluzionario, proporre sistemi di riorganizzazione ed aggregazione, di autogestione e prima liberazione (anche culturale), immediatamente praticabili dalla (e nella) società civile. L'anarchismo deve imparare ad “uscire dal guscio” per capire che l'egemonia delle idee non è egemonia politica nel senso negativo del termine – ovvero l'imposizione di eterodirezioni che sono solo una variabile del potere – ed occorre saperla praticare. Allo stesso modo, non è l'egemonia dei fatti da criticare, vanno bensì esclusi quegli atti che tendono solo a stabilire l'egemonia di un qualche gruppo dirigente in quanto tale (prassi leninista).  
Essere rivoluzionari è elemento d'identità, ma soprattutto nella proposta. Per due motivi. In primis perché per affermare la necessità del cambiamento bisogna saper dimostrare di poter e saper ottenere dei risultati. Secondariamente perché c'è bisogno di un'inversione della prassi. L'antipolitica non è una novità: negare l'autonomia della politica lo è, ovvero dimostrare di saper davvero subordinare la politica all'etica. La qual cosa prevede anche delle capacità di studio ed osservazione che non stanno certo nella semplice negazione del ragionamento politico. Occorre la capacità di mettere in atto il gradualismo rivoluzionario, proporre sistemi di riorganizzazione ed aggregazione, di autogestione e prima liberazione (anche culturale), immediatamente praticabili dalla (e nella) società civile. L'anarchismo deve imparare ad “uscire dal guscio” per capire che l'egemonia delle idee non è egemonia politica nel senso negativo del termine – ovvero l'imposizione di eterodirezioni che sono solo una variabile del potere – ed occorre saperla praticare. Allo stesso modo, non è l'egemonia dei fatti da criticare, vanno bensì esclusi quegli atti che tendono solo a stabilire l'egemonia di un qualche gruppo dirigente in quanto tale (prassi leninista).  
La radicalità non è dunque elemento meramente formale, bensì questione di sostanza e non può prescindere dalla volontà (chiaramente espressa e comprensibile) di farsi intendere e capire, nell'auspicato (e finalmente salutare) sacrificio dell'autocompiacimento (autoreferenziale ed elitario) del ghetto ideologico e/o impolitico. È il coraggio di proporre elementi nuovi e sperimentali, elementi non graditi dagli schemi di qualunque ortodossia. È necessario unire protesta e proposta, promuovere un agire condiviso e plurale, capace di conquistare spazi, dosare e calibrare l'azione perché sia condivisa e condivisibile: non per “adattamento”, ma per preparare elementi più forti e decisivi di cambiamento. La radicalità non è nella rottura estemporanea, nella marginalità, nell'autocompiacimento dell'appartenenza ad una specie “altra” serrata in un recinto, ma nella determinazione (e quindi nella preparazione) di un cambiamento qualitativamente alto (etico): radicale, appunto.  
La radicalità non è dunque elemento meramente formale, bensì questione di sostanza e non può prescindere dalla volontà (chiaramente espressa e comprensibile) di farsi intendere e capire, nell'auspicato (e finalmente salutare) sacrificio dell'autocompiacimento (autoreferenziale ed elitario) del ghetto ideologico e/o impolitico. È il coraggio di proporre elementi nuovi e sperimentali, elementi non graditi dagli schemi di qualunque ortodossia. È necessario unire protesta e proposta, promuovere un agire condiviso e plurale, capace di conquistare spazi, dosare e calibrare l'azione perché sia condivisa e condivisibile: non per “adattamento”, ma per preparare elementi più forti e decisivi di cambiamento. La radicalità non è nella rottura estemporanea, nella marginalità, nell'autocompiacimento dell'appartenenza ad una specie “altra” serrata in un recinto, ma nella determinazione (e quindi nella preparazione) di un cambiamento qualitativamente alto (etico): radicale, appunto.  
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