Strage di Torino (18-20 dicembre 1922): differenze tra le versioni

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Come scriveva « [[L'Ordine Nuovo]] » del [[18 ottobre]], « Il difetto vitale, organico, incurabile del fascismo torinese è nella base della sua organizzazione: nei suoi componenti, accozzaglia eterogenea di studenti sfaccendati, di disoccupati piccolo-borghesi, di spostati dalla guerra, di gente che ha poco da perdere e si propone solo di realizzare fini immediatamente personali di egoismo e di vendetta. Tutta l'azione militare fin qui compiuta ufficialmente dal fascismo torinese – a parte le sfilate innocue – non si basa infatti sulla massa, ma su pochi uomini decisamente d'azione, parte volontari e parte avanzi da galera prezzolati. Tutta l'efficienza del fascismo torinese sta normalmente su queste ultime e poco numerose categorie di "veliti" disperati. Il resto è coreografia ».
Come scriveva « [[L'Ordine Nuovo]] » del [[18 ottobre]], « Il difetto vitale, organico, incurabile del fascismo torinese è nella base della sua organizzazione: nei suoi componenti, accozzaglia eterogenea di studenti sfaccendati, di disoccupati piccolo-borghesi, di spostati dalla guerra, di gente che ha poco da perdere e si propone solo di realizzare fini immediatamente personali di egoismo e di vendetta. Tutta l'azione militare fin qui compiuta ufficialmente dal fascismo torinese – a parte le sfilate innocue – non si basa infatti sulla massa, ma su pochi uomini decisamente d'azione, parte volontari e parte avanzi da galera prezzolati. Tutta l'efficienza del fascismo torinese sta normalmente su queste ultime e poco numerose categorie di "veliti" disperati. Il resto è coreografia ».


Vi era verità  in quest'analisi, ma anche sottovalutazione della possibilità  di crescita del movimento fascista, in sé minoritario ma portatore di quella politica reazionaria che liberali e gran parte dei popolari ritenevano necessaria per sconfiggere il socialcomunismo senza favorire una deriva totalitaria. Il [[15 ottobre]] il segretario torinese del Partito popolare, Attilio Piccioni, aveva preannunciato la tattica che quel Partito avrebbe effettivamente adottato qualche settimana dopo, entrando nel governo mussoliniano: « La sola via possibile è l'assorbimento del fascismo per parte dello Stato [...] è necessario che il fascismo rinunci pregiudizialmente alla sua azione illegale, armata, anticostituzionale. Se sarà  necessaria la collaborazione con il fascismo per assorbirlo, noi accetteremo anche questo sacrifizio »<ref>G. Carcano, cit., p. 22. Per altro, l'ala sinistra dei popolari, rappresentata da Guido Miglioli, era contraria a qualunque accordo con i fascisti.</ref>.
Vi era verità  in quest'analisi, ma anche sottovalutazione della possibilità  di crescita del movimento fascista, in sé minoritario ma portatore di quella politica reazionaria che liberali e gran parte dei popolari ritenevano necessaria per sconfiggere il socialcomunismo senza favorire una deriva totalitaria. Il [[15 ottobre]] il segretario torinese del Partito popolare, Attilio Piccioni, aveva preannunciato la tattica che quel Partito avrebbe effettivamente adottato qualche settimana dopo, entrando nel governo mussoliniano: « La sola via possibile è l'assorbimento del fascismo per parte dello Stato [...] è necessario che il fascismo rinunci pregiudizialmente alla sua azione illegale, armata, anticostituzionale. Se sarà  necessaria la collaborazione con il fascismo per assorbirlo, noi accetteremo anche questo sacrifizio » <ref>G. Carcano, cit., p. 22. Per altro, l'ala sinistra dei popolari, rappresentata da Guido Miglioli, era contraria a qualunque accordo con i fascisti.</ref>.


Da parte loro, i socialisti non credevano alla possibilità  di successo dei fascisti, prevedendo proprio quel compromesso con Mussolini auspicato da liberali e popolari che, a loro dire, non avrebbe mutato il solito corso della politica conservatrice italiana, mentre i comunisti italiani, pur prevedendo la conquista del potere del fascismo, ostentavano indifferenza: nella relazione redatta a metà  ottobre per il IV Congresso dell'[[Internazionale comunista]], dichiararono che « il fascismo arriverà  al potere e apporterà  solo questo rinnovamento: che, mentre gli attuali governanti pseudo-liberali aiutano e appoggiano la reazione, il prossimo governo fascista eserciterà  esso stesso direttamente la reazione »<ref>In Paolo Spriano, ''Storia del Partito comunista italiano'', I, p. 230.</ref>. Di conseguenza, l'ordine dato ai militanti era di « non assumere alcuna iniziativa e di agire solo in casi di attacchi e provocazioni dirette contro il proletariato e i suoi istituti »<ref>Amadeo Bordiga, ''Il processo ai comunisti e gli altri'', in «Lo Stato Operaio», I, 11, 8 novembre 1923.</ref>.
Da parte loro, i socialisti non credevano alla possibilità  di successo dei fascisti, prevedendo proprio quel compromesso con Mussolini auspicato da liberali e popolari che, a loro dire, non avrebbe mutato il solito corso della politica conservatrice italiana, mentre i comunisti italiani, pur prevedendo la conquista del potere del fascismo, ostentavano indifferenza: nella relazione redatta a metà  ottobre per il IV Congresso dell'[[Internazionale comunista]], dichiararono che « il fascismo arriverà  al potere e apporterà  solo questo rinnovamento: che, mentre gli attuali governanti pseudo-liberali aiutano e appoggiano la reazione, il prossimo governo fascista eserciterà  esso stesso direttamente la reazione » <ref>In Paolo Spriano, ''Storia del Partito comunista italiano'', I, p. 230.</ref>. Di conseguenza, l'ordine dato ai militanti era di « non assumere alcuna iniziativa e di agire solo in casi di attacchi e provocazioni dirette contro il proletariato e i suoi istituti » <ref>Amadeo Bordiga, ''Il processo ai comunisti e gli altri'', in «Lo Stato Operaio», I, 11, 8 novembre 1923.</ref>.


Intanto, a Torino, da settembre vi era un nuovo prefetto, Carlo Olivieri, trasferito da Bari dove si era reso meritevole, agli occhi del fascismo, per aver consegnato la città  alle bande del ras pugliese Giuseppe Caradonna <ref>G. Carcano, cit., p. 12. Fu il padre di Giulio Caradonna, a lungo deputato del MSI.</ref>, impiegando l'esercito per chiudere la Camera del Lavoro. Appena arrivato a Torino, fece perquisire la sede de « L'Ordine Nuovo », guadagnandosi la lode della devecchiana « Gazzetta del Popolo » e la benevolenza, per bocca de « La Stampa », degli industriali che, scontenti della politica economica di Giolitti e poi di quella del Facta, da più di un anno finanziavano il Fascio torinese perché portasse la città  alla « normalizzazione ». Il [[10 novembre]] 1922, infatti, i primi atti del Consiglio dei ministri del nuovo governo fascista furono a favore dei grandi industriali: fu abolita la nominatività  dei titoli azionari, furono rivisti a loro favore i contratti per le forniture militari, fu ridotta l'imposta di successione e fu ritirato il progetto di riforma agraria già  presentato alla Camera dal precedente governo Facta.
Intanto, a Torino, da settembre vi era un nuovo prefetto, Carlo Olivieri, trasferito da Bari dove si era reso meritevole, agli occhi del fascismo, per aver consegnato la città  alle bande del ras pugliese Giuseppe Caradonna <ref>G. Carcano, cit., p. 12. Fu il padre di Giulio Caradonna, a lungo deputato del MSI.</ref>, impiegando l'esercito per chiudere la Camera del Lavoro. Appena arrivato a Torino, fece perquisire la sede de « L'Ordine Nuovo », guadagnandosi la lode della devecchiana « Gazzetta del Popolo » e la benevolenza, per bocca de « La Stampa », degli industriali che, scontenti della politica economica di Giolitti e poi di quella del Facta, da più di un anno finanziavano il Fascio torinese perché portasse la città  alla « normalizzazione ». Il [[10 novembre]] 1922, infatti, i primi atti del Consiglio dei ministri del nuovo governo fascista furono a favore dei grandi industriali: fu abolita la nominatività  dei titoli azionari, furono rivisti a loro favore i contratti per le forniture militari, fu ridotta l'imposta di successione e fu ritirato il progetto di riforma agraria già  presentato alla Camera dal precedente governo Facta.
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== L'agguato ==
== L'agguato ==


[[Francesco Prato]] <ref>Esiste, nell'antifascismo italiano, un omonimo Francesco Prato (Mondovì, 4 maggio 1894 - Vicoforte di Mondovì, 29 aprile 1945), ucciso dai Tedeschi. Cfr. la biografia dell'[http://www.anpi.it/uomini/prato_francesco.htm ANPI]. Da notare che i due Prato sarebbero stati entrambi « Guardie rosse » e avrebbero svolto attività  di difesa della sede de « L'Ordine Nuovo »: non sembra impossibile che vi sia stata una confusione nella loro biografia di quegli anni.</ref> era nato nel [[1889]] a Valmacca, in provincia di Alessandria. Era venuto a Torino giovanissimo, abitava a pensione in corso Spezia, nel quartiere operaio di Barriera Nizza, e aveva trovato lavoro come bigliettaio dei tram. Socialista, nel [[1921]] aveva aderito al Partito comunista. Come scrisse due anni dopo un giornalista de « [[l'Unità]] » il Prato, « temperamento audace, battagliero, insofferente d'ogni sopruso e d'ogni prepotenza, incuteva timore agli stessi [[fascismo|fascisti]]. Ovunque si trattava di difendere dei compagni o delle istituzioni proletarie dalle violenze delle camicie nere, il Prato si trovava in prima linea ». Odiato dai [[fascismo|fascisti]], sapeva che la sua vita, nelle condizioni dell'Italia di allora, era legata a un filo: « e alla pelle Prato ci pensò. Non cessò mai la sua attività  politica ma, ad ogni buon conto, non uscì mai senza la rivoltella in tasca »<ref>Mario Segre, « l'Unità  », 5 agosto 1924.</ref>.  
[[Francesco Prato]] <ref>Esiste, nell'antifascismo italiano, un omonimo Francesco Prato (Mondovì, 4 maggio 1894 - Vicoforte di Mondovì, 29 aprile 1945), ucciso dai Tedeschi. Cfr. la biografia dell'[http://www.anpi.it/uomini/prato_francesco.htm ANPI]. Da notare che i due Prato sarebbero stati entrambi « Guardie rosse » e avrebbero svolto attività  di difesa della sede de « L'Ordine Nuovo »: non sembra impossibile che vi sia stata una confusione nella loro biografia di quegli anni.</ref> era nato nel [[1889]] a Valmacca, in provincia di Alessandria. Era venuto a Torino giovanissimo, abitava a pensione in corso Spezia, nel quartiere operaio di Barriera Nizza, e aveva trovato lavoro come bigliettaio dei tram. Socialista, nel [[1921]] aveva aderito al Partito comunista. Come scrisse due anni dopo un giornalista de « [[l'Unità]] » il Prato, « temperamento audace, battagliero, insofferente d'ogni sopruso e d'ogni prepotenza, incuteva timore agli stessi [[fascismo|fascisti]]. Ovunque si trattava di difendere dei compagni o delle istituzioni proletarie dalle violenze delle camicie nere, il Prato si trovava in prima linea ». Odiato dai [[fascismo|fascisti]], sapeva che la sua vita, nelle condizioni dell'Italia di allora, era legata a un filo: « e alla pelle Prato ci pensò. Non cessò mai la sua attività  politica ma, ad ogni buon conto, non uscì mai senza la rivoltella in tasca » <ref>Mario Segre, « l'Unità  », 5 agosto 1924.</ref>.  


La sera del [[17 dicembre]] [[1922]], una fredda e nebbiosa domenica, il Prato, mentre, concluso il suo turno di lavoro, stava andando a trovare la fidanzata, fu atteso per strada da tre fascisti che gli spararono colpendolo a una gamba. Si difese sparando a sua volta, ferendone mortalmente due, il ferroviere Giuseppe Dresda e lo studente Lucio Bazzani, mentre il terzo, l'artigiano Carlo Camerano, rimasto solo leggermente ferito, si dava alla fuga correndo ad avvisare dell'accaduto i suoi camerati. Prato trovò rifugio in casa di amici dove, tenuto sempre nascosto, qualche giorno dopo un medico dell'Alleanza Cooperativa l'operò estraendogli il proiettile e ingessandolo. La vita del Prato non valeva più niente in Italia e il Partito decise di farlo espatriare: il [[17 febbraio]] [[Paolo Robotti]] e le sorelle [[Rita Montagnana|Rita]] ed [[Elena Montagnana]] lo portarono in auto a [[Milano]] da dove altri compagni lo trasferirono in [[Svizzera]], a Zurigo, e di qui in [[Unione Sovietica]], dove passerà  il resto della vita.  Morirà  nel 1943 in un gulag staliniano.
La sera del [[17 dicembre]] [[1922]], una fredda e nebbiosa domenica, il Prato, mentre, concluso il suo turno di lavoro, stava andando a trovare la fidanzata, fu atteso per strada da tre fascisti che gli spararono colpendolo a una gamba. Si difese sparando a sua volta, ferendone mortalmente due, il ferroviere Giuseppe Dresda e lo studente Lucio Bazzani, mentre il terzo, l'artigiano Carlo Camerano, rimasto solo leggermente ferito, si dava alla fuga correndo ad avvisare dell'accaduto i suoi camerati. Prato trovò rifugio in casa di amici dove, tenuto sempre nascosto, qualche giorno dopo un medico dell'Alleanza Cooperativa l'operò estraendogli il proiettile e ingessandolo. La vita del Prato non valeva più niente in Italia e il Partito decise di farlo espatriare: il [[17 febbraio]] [[Paolo Robotti]] e le sorelle [[Rita Montagnana|Rita]] ed [[Elena Montagnana]] lo portarono in auto a [[Milano]] da dove altri compagni lo trasferirono in [[Svizzera]], a Zurigo, e di qui in [[Unione Sovietica]], dove passerà  il resto della vita.  Morirà  nel 1943 in un gulag staliniano.
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Giustamente, il Prato aveva previsto cosa sarebbe avvenuto al processo, che fu sbrigato in poche ore, il [[20 ottobre]] [[1924]]. Tutti i testimoni erano [[fascismo|fascisti]], la stessa lettera del Prato rappresentava una confessione e non importava ai giudici fascistizzati che egli fosse l'aggredito, come ricordò inutilmente Salvatore Paola, l'avvocato d'ufficio dell'imputato latitante, chiedendo l'assoluzione per legittima difesa. Secondo i giudici « il Prato premeditava di assalire i fascisti e di sparare contro di essi » e perciò lo condannarono all'ergastolo.  
Giustamente, il Prato aveva previsto cosa sarebbe avvenuto al processo, che fu sbrigato in poche ore, il [[20 ottobre]] [[1924]]. Tutti i testimoni erano [[fascismo|fascisti]], la stessa lettera del Prato rappresentava una confessione e non importava ai giudici fascistizzati che egli fosse l'aggredito, come ricordò inutilmente Salvatore Paola, l'avvocato d'ufficio dell'imputato latitante, chiedendo l'assoluzione per legittima difesa. Secondo i giudici « il Prato premeditava di assalire i fascisti e di sparare contro di essi » e perciò lo condannarono all'ergastolo.  


Il Regime farà  naturalmente dei due squadristi dei « martiri » e il [[28 settembre]] [[1934]] le due pallottole che li uccisero saranno richieste, in quanto « cimeli » da esporre in una mostra, dal IV Gruppo Rionale Fascista di Torino « Lucio Bazzani »<ref>Al Bazzani fu anche intitolata, fino alla Liberazione, la popolare via Saluzzo, nel quartiere torinese di San Salvario.</ref>. Il dottor Majola, Procuratore Generale del Re, accogliendo sollecitamente la richiesta il [[30 settembre]], sottolineava - associando, secondo l'abitudine del Ventennio, la retorica al ridicolo - come « i segni del martirio e della bieca, selvaggia aggressione debbano avere degna sede in una mostra che eternamente sia di esempio e di ricordo per le generazioni della nuova Italia »<ref>Per tutta questa vicenda, cfr. Giancarlo Carcano, ''Strage a Torino. Una storia italiana dal 1922 al 1971'', pp. 43-52.</ref>.
Il Regime farà  naturalmente dei due squadristi dei « martiri » e il [[28 settembre]] [[1934]] le due pallottole che li uccisero saranno richieste, in quanto « cimeli » da esporre in una mostra, dal IV Gruppo Rionale Fascista di Torino « Lucio Bazzani » <ref>Al Bazzani fu anche intitolata, fino alla Liberazione, la popolare via Saluzzo, nel quartiere torinese di San Salvario.</ref>. Il dottor Majola, Procuratore Generale del Re, accogliendo sollecitamente la richiesta il [[30 settembre]], sottolineava - associando, secondo l'abitudine del Ventennio, la retorica al ridicolo - come « i segni del martirio e della bieca, selvaggia aggressione debbano avere degna sede in una mostra che eternamente sia di esempio e di ricordo per le generazioni della nuova Italia » <ref>Per tutta questa vicenda, cfr. Giancarlo Carcano, ''Strage a Torino. Una storia italiana dal 1922 al 1971'', pp. 43-52.</ref>.


== La strage: il 18 dicembre ==
== La strage: il 18 dicembre ==
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Quella sera la legione fascista di Torino con il "console" Piero Brandimarte in testa, aveva festeggiato al Teatro Alfieri la costituzione della nuova squadra « Francesco Baracca », comandata dall'attore Carlo Tamberlani: madrina della cerimonia l'attrice Alda Borelli, sorella della più nota Lyda; erano presenti anche squadre fasciste provenienti da Parma <ref>La cerimonia è descritta nella « Gazzetta del Popolo » del 18 dicembre 1922.</ref>. Dopo i discorsi di rito, gli squadristi, in numero di due o tremila, attraversarono cantando la città  fino alla sede del Fascio, sul Lungo Po di corso Cairoli.
Quella sera la legione fascista di Torino con il "console" Piero Brandimarte in testa, aveva festeggiato al Teatro Alfieri la costituzione della nuova squadra « Francesco Baracca », comandata dall'attore Carlo Tamberlani: madrina della cerimonia l'attrice Alda Borelli, sorella della più nota Lyda; erano presenti anche squadre fasciste provenienti da Parma <ref>La cerimonia è descritta nella « Gazzetta del Popolo » del 18 dicembre 1922.</ref>. Dopo i discorsi di rito, gli squadristi, in numero di due o tremila, attraversarono cantando la città  fino alla sede del Fascio, sul Lungo Po di corso Cairoli.


La mattina dopo, 18 dicembre, si potevano vedere nelle strade del centro « gruppi di camicie nere provenienti da altre città: essi erano armati di pistola, di manganello e avevano a tracolla una coperta arrotolata [...] altri gruppi di fascisti forestieri appollaiati persino sui predellini e parafanghi di alcune automobili saettanti, brandivano pugnali, pistole, e gridavano per terrorizzare i passanti. Ci parve di capire la vera ragione dell'affluenza a Torino di squadristi da altre località  [...] i caporioni fascisti, per giustificare il massacro che si apprestavano a scatenare contro gli antifascisti torinesi, prendevano a pretesto la batosta che il nostro compagno Prato aveva inferto ai loro sgherri »<ref>Umberto Massola, in « L'Antifascista », dicembre 1962.</ref>.
La mattina dopo, 18 dicembre, si potevano vedere nelle strade del centro « gruppi di camicie nere provenienti da altre città: essi erano armati di pistola, di manganello e avevano a tracolla una coperta arrotolata [...] altri gruppi di fascisti forestieri appollaiati persino sui predellini e parafanghi di alcune automobili saettanti, brandivano pugnali, pistole, e gridavano per terrorizzare i passanti. Ci parve di capire la vera ragione dell'affluenza a Torino di squadristi da altre località  [...] i caporioni fascisti, per giustificare il massacro che si apprestavano a scatenare contro gli antifascisti torinesi, prendevano a pretesto la batosta che il nostro compagno Prato aveva inferto ai loro sgherri » <ref>Umberto Massola, in « L'Antifascista », dicembre 1962.</ref>.


Quella stessa mattina Mussolini parlava al Grand Hôtel di Roma ai fascisti venuti ad ascoltarlo da Siena: « Gridatelo. Lo Stato fascista è deciso a difendersi a tutti i costi coll'energia più fredda e inesorabile. Sono il depositario della volontà  della migliore gioventù italiana. Ho doveri terribili da compiere e li compirò ». Dalle 11, come scriveva nel suo diario, il vice-questore Tabusso era a colloquio in Prefettura con il vice-prefetto, con il segretario del Fascio piemontese Marchisio e con due comandanti di squadre.  
Quella stessa mattina Mussolini parlava al Grand Hôtel di Roma ai fascisti venuti ad ascoltarlo da Siena: « Gridatelo. Lo Stato fascista è deciso a difendersi a tutti i costi coll'energia più fredda e inesorabile. Sono il depositario della volontà  della migliore gioventù italiana. Ho doveri terribili da compiere e li compirò ». Dalle 11, come scriveva nel suo diario, il vice-questore Tabusso era a colloquio in Prefettura con il vice-prefetto, con il segretario del Fascio piemontese Marchisio e con due comandanti di squadre.  
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Nella tarda mattinata di quel giorno era già  stato bastonato da una [[fascismo|squadra fascista]] penetrata nella Camera del Lavoro: se l'era cavata, ma quell'esperienza aveva naturalmente lasciato nella sua mente un segno profondo e probabilmente condizionò fatalmente il suo comportamento nelle ore successive. Non poteva starsene in casa: il giorno dopo sarebbe dovuto partire per Milano, ma aveva con sé 19.000 lire - una bella somma - i contributi operai che bisognava depositare agli uffici della Cassa disoccupazione. Così fece nel pomeriggio e poi, sempre in bicicletta, vagò chissà  dove per quelle strade diventate pericolosissime per lui e per la gente conosciuta come lui.  
Nella tarda mattinata di quel giorno era già  stato bastonato da una [[fascismo|squadra fascista]] penetrata nella Camera del Lavoro: se l'era cavata, ma quell'esperienza aveva naturalmente lasciato nella sua mente un segno profondo e probabilmente condizionò fatalmente il suo comportamento nelle ore successive. Non poteva starsene in casa: il giorno dopo sarebbe dovuto partire per Milano, ma aveva con sé 19.000 lire - una bella somma - i contributi operai che bisognava depositare agli uffici della Cassa disoccupazione. Così fece nel pomeriggio e poi, sempre in bicicletta, vagò chissà  dove per quelle strade diventate pericolosissime per lui e per la gente conosciuta come lui.  


Verso le 10 di sera venne incrociato in corso Valdocco da due conoscenti, i [[comunismo|comunisti]] Andrea Viglongo e Mario Montagnana, redattori de « L'Ordine Nuovo », che stavano andando a dormire in casa di Viglongo, lì vicino, in via Cernaia: Montagnana abitava lontano, era pericoloso avventurarsi per strada e aveva accettato l'invito dell'amico. Ferrero « ci sembrò molto preoccupato - dirà  poi Viglongo - l'impressione fu che andasse in giro a caso, senza una meta. Parlammo dei fatti del giorno, gli dicemmo di non stare per strada, perché correva pericolo. Sorrise senza dire nulla. Ci disse solo che il giorno dopo sarebbe andato a Milano, faceva un'ultima puntata a Porta Susa per guardare gli orari del treno e sarebbe rincasato. Lo vedemmo allontanarsi e sparire »<ref>Andrea Viglongo, intervista del 23 ottobre 1971, in G. Carcano, cit., pp. 82-83. </ref>.
Verso le 10 di sera venne incrociato in corso Valdocco da due conoscenti, i [[comunismo|comunisti]] Andrea Viglongo e Mario Montagnana, redattori de « L'Ordine Nuovo », che stavano andando a dormire in casa di Viglongo, lì vicino, in via Cernaia: Montagnana abitava lontano, era pericoloso avventurarsi per strada e aveva accettato l'invito dell'amico. Ferrero « ci sembrò molto preoccupato - dirà  poi Viglongo - l'impressione fu che andasse in giro a caso, senza una meta. Parlammo dei fatti del giorno, gli dicemmo di non stare per strada, perché correva pericolo. Sorrise senza dire nulla. Ci disse solo che il giorno dopo sarebbe andato a Milano, faceva un'ultima puntata a Porta Susa per guardare gli orari del treno e sarebbe rincasato. Lo vedemmo allontanarsi e sparire » <ref>Andrea Viglongo, intervista del 23 ottobre 1971, in G. Carcano, cit., pp. 82-83. </ref>.


Forse Ferrero andò effettivamente alla stazione: di qui, dalla piazza che ora nel nome ricorda quel giorno, dovette prendere via Cernaia: all'incrocio con corso Siccardi doveva scegliere. A sinistra, con un lungo percorso, si sarebbe indirizzato verso casa; prendendo a destra, si andava invece alla Camera del Lavoro, e anche quella era un po' casa sua: Ferrero svoltò a destra.  
Forse Ferrero andò effettivamente alla stazione: di qui, dalla piazza che ora nel nome ricorda quel giorno, dovette prendere via Cernaia: all'incrocio con corso Siccardi doveva scegliere. A sinistra, con un lungo percorso, si sarebbe indirizzato verso casa; prendendo a destra, si andava invece alla Camera del Lavoro, e anche quella era un po' casa sua: Ferrero svoltò a destra.  
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Abbandonato il cadavere - che verrà  notato da un passante e trasportato alla camera mortuaria dell'ospedale San Giovanni - i fascisti tornarono alla Camera del Lavoro e, alle 2 di notte, diedero fuoco all'edificio, impedendo ai vigili del fuoco d'intervenire finché non fu interamente distrutto.
Abbandonato il cadavere - che verrà  notato da un passante e trasportato alla camera mortuaria dell'ospedale San Giovanni - i fascisti tornarono alla Camera del Lavoro e, alle 2 di notte, diedero fuoco all'edificio, impedendo ai vigili del fuoco d'intervenire finché non fu interamente distrutto.


Un mese dopo, all'inchiesta Gasti-Giunta, il vice-questore Tabusso presentò una relazione nella quale, tra l'altro, citò un secondo telegramma trasmesso da Cesare Maria De Vecchi il 19 dicembre nel quale il gerarca « dava la sua completa adesione all'opera delle squadre d'azione, incoraggiandole ». Il Tabusso aggiungeva che pochi giorni dopo la strage, in un teatro torinese, il De Vecchi « alla presenza di migliaia di persone, si assumeva tutte le responsabilità  morali e politiche di quanto successo »<ref>In G. Carcano, cit., pp. 91-92.</ref>.  
Un mese dopo, all'inchiesta Gasti-Giunta, il vice-questore Tabusso presentò una relazione nella quale, tra l'altro, citò un secondo telegramma trasmesso da Cesare Maria De Vecchi il 19 dicembre nel quale il gerarca « dava la sua completa adesione all'opera delle squadre d'azione, incoraggiandole ». Il Tabusso aggiungeva che pochi giorni dopo la strage, in un teatro torinese, il De Vecchi « alla presenza di migliaia di persone, si assumeva tutte le responsabilità  morali e politiche di quanto successo » <ref>In G. Carcano, cit., pp. 91-92.</ref>.  


Il discorso era stato tenuto il [[31 dicembre]], dopo la rivolta delle Guardie regie del [[28 dicembre]], che protestavano contro il decreto di scioglimento del loro corpo. In esso De Vecchi aveva denunciato un connubio tra guardie regie e « sovversivi », connubio che in realtà  esisteva solo nella sua fantasia. Colpisce, nel discorso di De Vecchi, la presenza dello stesso frasario utilizzato due anni dopo anche da Mussolini, ad ammissione e giustificazione dell'omicidio di [[Giacomo Matteotti]].
Il discorso era stato tenuto il [[31 dicembre]], dopo la rivolta delle Guardie regie del [[28 dicembre]], che protestavano contro il decreto di scioglimento del loro corpo. In esso De Vecchi aveva denunciato un connubio tra guardie regie e « sovversivi », connubio che in realtà  esisteva solo nella sua fantasia. Colpisce, nel discorso di De Vecchi, la presenza dello stesso frasario utilizzato due anni dopo anche da Mussolini, ad ammissione e giustificazione dell'omicidio di [[Giacomo Matteotti]].
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In tanta presunta tranquillità, il quotidiano torinese « La Gazzetta del Popolo » poteva così dedicarsi a esprimere il cordoglio per i due squadristi uccisi dal Prato, e il cronista poteva dar fondo alla sua modesta capacità  lirica: « Nella camera ardente della sede del Fascio riposano Dresda e Bazzani. Nella vasta sala, dove penetra per le grandi vetrate tutta la malinconia della triste giornata senza sole, si alzano i drappi neri listati d'oro, infiniti fiori, tra i quali si agitano e si animano le fiamme dei ceri. I due morti hanno raccolto un imponente tributo di compianto e di pietà  da un ininterrotto pellegrinaggio di visitatori ».
In tanta presunta tranquillità, il quotidiano torinese « La Gazzetta del Popolo » poteva così dedicarsi a esprimere il cordoglio per i due squadristi uccisi dal Prato, e il cronista poteva dar fondo alla sua modesta capacità  lirica: « Nella camera ardente della sede del Fascio riposano Dresda e Bazzani. Nella vasta sala, dove penetra per le grandi vetrate tutta la malinconia della triste giornata senza sole, si alzano i drappi neri listati d'oro, infiniti fiori, tra i quali si agitano e si animano le fiamme dei ceri. I due morti hanno raccolto un imponente tributo di compianto e di pietà  da un ininterrotto pellegrinaggio di visitatori ».


Non era ancora finita. Nella prima mattinata i fascisti fecero irruzione a « L'Ordine Nuovo »: sequestrati i tre redattori Montagnana, Viglongo e Pastore, più altri tre collaboratori, li portarono alla Casa del Fascio dove erano Brandimarte, Carlo Scarampi e « il traditore » Porro. Qui, legati e bastonati, furono interrogati per sapere dove si trovasse Gramsci. Poi, una breve passeggiata fino al corso Massimo d'Azeglio: fatti allineare sul marciapiede, gli squadristi si apprestarono a fucilarli, ma «arrivò uno con un ordine e, di mala voglia, ci dissero di andarcene - "Per questa volta" »<ref>A. Viglongo, in G. Carcano, cit., p. 91.</ref>.
Non era ancora finita. Nella prima mattinata i fascisti fecero irruzione a « L'Ordine Nuovo »: sequestrati i tre redattori Montagnana, Viglongo e Pastore, più altri tre collaboratori, li portarono alla Casa del Fascio dove erano Brandimarte, Carlo Scarampi e « il traditore » Porro. Qui, legati e bastonati, furono interrogati per sapere dove si trovasse Gramsci. Poi, una breve passeggiata fino al corso Massimo d'Azeglio: fatti allineare sul marciapiede, gli squadristi si apprestarono a fucilarli, ma «arrivò uno con un ordine e, di mala voglia, ci dissero di andarcene - "Per questa volta" » <ref>A. Viglongo, in G. Carcano, cit., p. 91.</ref>.


=== Angelo Quintagliè ===
=== Angelo Quintagliè ===
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Dunque, secondo Brandimarte, 24 erano state le persone da uccidere, ma ne furono uccise 22 perché due erano « scampati alla fucilazione ». All'insistenza del giornalista, che gli faceva notare come questura e prefettura avessero comunicato un numero inferiore di vittime, Brandimarte ribadiva con ferma arroganza: « Cosa vuole che sappiano in questura e prefettura? Io sarò ben in grado di saperlo più di loro [...] gli altri cadaveri saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si troveranno nelle fosse, nei burroni o nelle macchie delle colline circostanti ». In effetti, riportava il quotidiano, la maggior parte delle vittime era stata portata in riva al Po o nella collina che sovrasta la città  per essere giudicata da una « corte marziale » di squadristi e poi « giustiziata » da un « plotone di esecuzione ».  
Dunque, secondo Brandimarte, 24 erano state le persone da uccidere, ma ne furono uccise 22 perché due erano « scampati alla fucilazione ». All'insistenza del giornalista, che gli faceva notare come questura e prefettura avessero comunicato un numero inferiore di vittime, Brandimarte ribadiva con ferma arroganza: « Cosa vuole che sappiano in questura e prefettura? Io sarò ben in grado di saperlo più di loro [...] gli altri cadaveri saranno restituiti dal Po, seppure li restituirà, oppure si troveranno nelle fosse, nei burroni o nelle macchie delle colline circostanti ». In effetti, riportava il quotidiano, la maggior parte delle vittime era stata portata in riva al Po o nella collina che sovrasta la città  per essere giudicata da una « corte marziale » di squadristi e poi « giustiziata » da un « plotone di esecuzione ».  


Brandimarte confermava, infine, che il capo « del fascismo torinese è l'on. De Vecchi. Egli ci ha telegrafato, come è noto, per condividere in pieno la responsabilità  della nostra azione »<ref>G. Carcano, cit., pp. 98-99.</ref>.
Brandimarte confermava, infine, che il capo « del fascismo torinese è l'on. De Vecchi. Egli ci ha telegrafato, come è noto, per condividere in pieno la responsabilità  della nostra azione » <ref>G. Carcano, cit., pp. 98-99.</ref>.


Dunque, Brandimarte e De Vecchi sono sicuramente i responsabili dell'eccidio. Nessuno ha mai indicato come superiore mandante il nome di Mussolini. Si sa che egli telefonò al prefetto di Torino, un giorno immediatamente successivo alla strage: « Come capo del fascismo mi dolgo che non ne abbiano ammazzati di più; come capo del governo debbo ordinare che vengano rilasciati i comunisti arrestati ». <ref>« Il Risorgimento », 1 maggio 1925.</ref>
Dunque, Brandimarte e De Vecchi sono sicuramente i responsabili dell'eccidio. Nessuno ha mai indicato come superiore mandante il nome di Mussolini. Si sa che egli telefonò al prefetto di Torino, un giorno immediatamente successivo alla strage: « Come capo del fascismo mi dolgo che non ne abbiano ammazzati di più; come capo del governo debbo ordinare che vengano rilasciati i comunisti arrestati ». <ref>« Il Risorgimento », 1 maggio 1925.</ref>
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