Strage di Torino (18-20 dicembre 1922): differenze tra le versioni

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== La situazione politica: Torino e il fascismo nel 1922 ==
== La situazione politica: Torino e il fascismo nel 1922 ==


Dal [[31 ottobre]] [[1922]] [[Benito Mussolini|Mussolini]] era capo di un governo di coalizione che univa reazionari e conservatori: fascisti, popolari, liberali e i sedicenti radicali del Partito della Democrazia Sociale. Mussolini vi aveva assunto anche la carica di ministro degli Interni, mentre il fascista [[Aldo Oviglio]] deteneva il portafogli della Giustizia. Capo della Polizia era stato nominato l'[[11 novembre]] il fascista [[Emilio De Bono]] che, appena insediato, si era proposto di riformare l'organismo per renderlo sempre più funzionale agli interessi del nuovo Regime<ref>Alla fine di dicembre verrà  istituita la Milizia Nazionale e vennero soppresse le Guardie regie, un'iniziativa che provocò rivolte tra le guardie, soffocate dall'intervento dell'Esercito.</ref>. Naturalmente, oltre ad aver ottenuto il governo istituzionale del Paese, il fascismo intendeva mantenere il controllo del territorio attraverso le sue squadre, illegali ma sempre tollerate e persino favorite dalle forze dell’ordine della Polizia, dei Carabinieri e delle Guardie regie.  
Dal [[31 ottobre]] [[1922]] [[Benito Mussolini|Mussolini]] era capo di un governo di coalizione che univa reazionari e conservatori: fascisti, popolari, liberali e i sedicenti radicali del Partito della Democrazia Sociale. Mussolini vi aveva assunto anche la carica di ministro degli Interni, mentre il fascista [[Aldo Oviglio]] deteneva il portafogli della Giustizia. Capo della Polizia era stato nominato l'[[11 novembre]] il fascista [[Emilio De Bono]] che, appena insediato, si era proposto di riformare l'organismo per renderlo sempre più funzionale agli interessi del nuovo Regime<ref>Alla fine di dicembre verrà  istituita la Milizia Nazionale e vennero soppresse le Guardie regie, un'iniziativa che provocò rivolte tra le guardie, soffocate dall'intervento dell'Esercito.</ref>. Naturalmente, oltre ad aver ottenuto il governo istituzionale del Paese, il fascismo intendeva mantenere il controllo del territorio attraverso le sue squadre, illegali ma sempre tollerate e persino favorite dalle forze dell'ordine della Polizia, dei Carabinieri e delle Guardie regie.  


Prima ancora della cosiddetta [[Marcia su Roma]], il [[17 settembre]] era stata costituita a [[Torre Pellice]] la "Milizia fascista", embrione di quella "Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale" che, costituita dal governo Mussolini il [[14 gennaio]] [[1923]], sarà  un Corpo militare di Stato con funzioni di « ordine » pubblico. Il quotidiano di Mussolini « Il Popolo d’Italia » aveva comunicato il [[3 ottobre]] il ''Regolamento di disciplina'' di questa milizia, definita « volontaria o per mercede », che la rendeva un’organizzazione di tipo para-militare, divisa in "legioni". Capo degli Milizia era il quadrumviro [[Cesare Maria De Vecchi]], che aveva ai suoi diretti ordini il capitano Cesare Forni, capo delle legioni dell’Alta Italia; capi delle "coorti" torinesi erano il marchese Carlo Scarampi del Cairo, il capitano Cagli e i tenenti Cerutti e Piero Brandimarte, quest'ultimo destinato, unicamente grazie ai suoi meriti squadristici, a diventare niente di meno che generale.  
Prima ancora della cosiddetta [[Marcia su Roma]], il [[17 settembre]] era stata costituita a [[Torre Pellice]] la "Milizia fascista", embrione di quella "Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale" che, costituita dal governo Mussolini il [[14 gennaio]] [[1923]], sarà  un Corpo militare di Stato con funzioni di « ordine » pubblico. Il quotidiano di Mussolini « Il Popolo d'Italia » aveva comunicato il [[3 ottobre]] il ''Regolamento di disciplina'' di questa milizia, definita « volontaria o per mercede », che la rendeva un'organizzazione di tipo para-militare, divisa in "legioni". Capo degli Milizia era il quadrumviro [[Cesare Maria De Vecchi]], che aveva ai suoi diretti ordini il capitano Cesare Forni, capo delle legioni dell'Alta Italia; capi delle "coorti" torinesi erano il marchese Carlo Scarampi del Cairo, il capitano Cagli e i tenenti Cerutti e Piero Brandimarte, quest'ultimo destinato, unicamente grazie ai suoi meriti squadristici, a diventare niente di meno che generale.  


Il tenente Dante Mariotti ebbe la responsabilità  dei "veliti"<ref>Da ''velites'', gli antichi soldati romani armati alla leggera, incaricati di effettuare brevi e rapidi assalti contro il nemico.</ref>, squadre formate da poche persone che sparavano, bastonavano e sùbito fuggivano, mentre incarichi più strettamente politici erano chiamati a svolgere Annibale Monferrino, Luigi Voltolina, Mario Gioda, amico personale del duce, e Massimo Rocca, membro della Direzionale nazionale del [[Partito Nazionale Fascista|PNF]].
Il tenente Dante Mariotti ebbe la responsabilità  dei "veliti"<ref>Da ''velites'', gli antichi soldati romani armati alla leggera, incaricati di effettuare brevi e rapidi assalti contro il nemico.</ref>, squadre formate da poche persone che sparavano, bastonavano e sùbito fuggivano, mentre incarichi più strettamente politici erano chiamati a svolgere Annibale Monferrino, Luigi Voltolina, Mario Gioda, amico personale del duce, e Massimo Rocca, membro della Direzionale nazionale del [[Partito Nazionale Fascista|PNF]].
    
    
Il Piemonte, nel suo complesso, era stato sufficientemente « normalizzato » dalle aggressioni mirate alle sedi di partito, di sindacato, dei circoli e della stampa della sinistra, che raggiungevano spesso lo scopo di intimidire e disperdere militanti e simpatizzanti delle uniche forze realmente in grado di opporsi all’avanzata del fascismo, i quali finivano in buona parte per non partecipare più alla pubblica attività  politica, lasciando il campo libero ai fascisti e a coloro che nel fascismo avevano creduto di individuare la forza che avrebbe liberato l’Italia dal « pericolo rosso ». Era stato il caso di città  come Alessandria, Biella, Novara, ma non di Torino.  
Il Piemonte, nel suo complesso, era stato sufficientemente « normalizzato » dalle aggressioni mirate alle sedi di partito, di sindacato, dei circoli e della stampa della sinistra, che raggiungevano spesso lo scopo di intimidire e disperdere militanti e simpatizzanti delle uniche forze realmente in grado di opporsi all'avanzata del fascismo, i quali finivano in buona parte per non partecipare più alla pubblica attività  politica, lasciando il campo libero ai fascisti e a coloro che nel fascismo avevano creduto di individuare la forza che avrebbe liberato l'Italia dal « pericolo rosso ». Era stato il caso di città  come Alessandria, Biella, Novara, ma non di Torino.  


[[File:L'Ordine Nuovo 1920.jpg|thumb|right|270px|« L'Ordine Nuovo » fondato da Antonio Gramsci]]
[[File:L'Ordine Nuovo 1920.jpg|thumb|right|270px|« L'Ordine Nuovo » fondato da Antonio Gramsci]]
Come scriveva « [[L’Ordine Nuovo]] » del [[18 ottobre]], « Il difetto vitale, organico, incurabile del fascismo torinese è nella base della sua organizzazione: nei suoi componenti, accozzaglia eterogenea di studenti sfaccendati, di disoccupati piccolo-borghesi, di spostati dalla guerra, di gente che ha poco da perdere e si propone solo di realizzare fini immediatamente personali di egoismo e di vendetta. Tutta l’azione militare fin qui compiuta ufficialmente dal fascismo torinese – a parte le sfilate innocue – non si basa infatti sulla massa, ma su pochi uomini decisamente d’azione, parte volontari e parte avanzi da galera prezzolati. Tutta l’efficienza del fascismo torinese sta normalmente su queste ultime e poco numerose categorie di "veliti" disperati. Il resto è coreografia ».
Come scriveva « [[L'Ordine Nuovo]] » del [[18 ottobre]], « Il difetto vitale, organico, incurabile del fascismo torinese è nella base della sua organizzazione: nei suoi componenti, accozzaglia eterogenea di studenti sfaccendati, di disoccupati piccolo-borghesi, di spostati dalla guerra, di gente che ha poco da perdere e si propone solo di realizzare fini immediatamente personali di egoismo e di vendetta. Tutta l'azione militare fin qui compiuta ufficialmente dal fascismo torinese – a parte le sfilate innocue – non si basa infatti sulla massa, ma su pochi uomini decisamente d'azione, parte volontari e parte avanzi da galera prezzolati. Tutta l'efficienza del fascismo torinese sta normalmente su queste ultime e poco numerose categorie di "veliti" disperati. Il resto è coreografia ».


Vi era verità  in quest'analisi, ma anche sottovalutazione della possibilità  di crescita del movimento fascista, in sé minoritario ma portatore di quella politica reazionaria che liberali e gran parte dei popolari ritenevano necessaria per sconfiggere il socialcomunismo senza favorire una deriva totalitaria. Il [[15 ottobre]] il segretario torinese del Partito popolare, Attilio Piccioni, aveva preannunciato la tattica che quel Partito avrebbe effettivamente adottato qualche settimana dopo, entrando nel governo mussoliniano: « La sola via possibile è l'assorbimento del fascismo per parte dello Stato [...] è necessario che il fascismo rinunci pregiudizialmente alla sua azione illegale, armata, anticostituzionale. Se sarà  necessaria la collaborazione con il fascismo per assorbirlo, noi accetteremo anche questo sacrifizio »<ref>G. Carcano, cit., p. 22. Per altro, l'ala sinistra dei popolari, rappresentata da Guido Miglioli, era contraria a qualunque accordo con i fascisti.</ref>.
Vi era verità  in quest'analisi, ma anche sottovalutazione della possibilità  di crescita del movimento fascista, in sé minoritario ma portatore di quella politica reazionaria che liberali e gran parte dei popolari ritenevano necessaria per sconfiggere il socialcomunismo senza favorire una deriva totalitaria. Il [[15 ottobre]] il segretario torinese del Partito popolare, Attilio Piccioni, aveva preannunciato la tattica che quel Partito avrebbe effettivamente adottato qualche settimana dopo, entrando nel governo mussoliniano: « La sola via possibile è l'assorbimento del fascismo per parte dello Stato [...] è necessario che il fascismo rinunci pregiudizialmente alla sua azione illegale, armata, anticostituzionale. Se sarà  necessaria la collaborazione con il fascismo per assorbirlo, noi accetteremo anche questo sacrifizio »<ref>G. Carcano, cit., p. 22. Per altro, l'ala sinistra dei popolari, rappresentata da Guido Miglioli, era contraria a qualunque accordo con i fascisti.</ref>.
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Da parte loro, i socialisti non credevano alla possibilità  di successo dei fascisti, prevedendo proprio quel compromesso con Mussolini auspicato da liberali e popolari che, a loro dire, non avrebbe mutato il solito corso della politica conservatrice italiana, mentre i comunisti italiani, pur prevedendo la conquista del potere del fascismo, ostentavano indifferenza: nella relazione redatta a metà  ottobre per il IV Congresso dell'[[Internazionale comunista]], dichiararono che « il fascismo arriverà  al potere e apporterà  solo questo rinnovamento: che, mentre gli attuali governanti pseudo-liberali aiutano e appoggiano la reazione, il prossimo governo fascista eserciterà  esso stesso direttamente la reazione »<ref>In Paolo Spriano, ''Storia del Partito comunista italiano'', I, p. 230.</ref>. Di conseguenza, l'ordine dato ai militanti era di « non assumere alcuna iniziativa e di agire solo in casi di attacchi e provocazioni dirette contro il proletariato e i suoi istituti »<ref>Amadeo Bordiga, ''Il processo ai comunisti e gli altri'', in «Lo Stato Operaio», I, 11, 8 novembre 1923.</ref>.
Da parte loro, i socialisti non credevano alla possibilità  di successo dei fascisti, prevedendo proprio quel compromesso con Mussolini auspicato da liberali e popolari che, a loro dire, non avrebbe mutato il solito corso della politica conservatrice italiana, mentre i comunisti italiani, pur prevedendo la conquista del potere del fascismo, ostentavano indifferenza: nella relazione redatta a metà  ottobre per il IV Congresso dell'[[Internazionale comunista]], dichiararono che « il fascismo arriverà  al potere e apporterà  solo questo rinnovamento: che, mentre gli attuali governanti pseudo-liberali aiutano e appoggiano la reazione, il prossimo governo fascista eserciterà  esso stesso direttamente la reazione »<ref>In Paolo Spriano, ''Storia del Partito comunista italiano'', I, p. 230.</ref>. Di conseguenza, l'ordine dato ai militanti era di « non assumere alcuna iniziativa e di agire solo in casi di attacchi e provocazioni dirette contro il proletariato e i suoi istituti »<ref>Amadeo Bordiga, ''Il processo ai comunisti e gli altri'', in «Lo Stato Operaio», I, 11, 8 novembre 1923.</ref>.


Intanto, a Torino, da settembre vi era un nuovo prefetto, Carlo Olivieri, trasferito da Bari dove si era reso meritevole, agli occhi del fascismo, per aver consegnato la città  alle bande del ras pugliese Giuseppe Caradonna<ref>G. Carcano, cit., p. 12. Fu il padre di Giulio Caradonna, a lungo deputato del MSI.</ref>, impiegando l'esercito per chiudere la Camera del Lavoro. Appena arrivato a Torino, fece perquisire la sede de « L'Ordine Nuovo », guadagnandosi la lode della devecchiana « Gazzetta del Popolo » e la benevolenza, per bocca de « La Stampa », degli industriali che, scontenti della politica economica di Giolitti e poi di quella del Facta, da più di un anno finanziavano il Fascio torinese perché portasse la città  alla « normalizzazione ». Il [[10 novembre]] 1922, infatti, i primi atti del Consiglio dei ministri del nuovo governo fascista furono a favore dei grandi industriali: fu abolita la nominatività  dei titoli azionari, furono rivisti a loro favore i contratti per le forniture militari, fu ridotta l’imposta di successione e fu ritirato il progetto di riforma agraria già  presentato alla Camera dal precedente governo Facta.
Intanto, a Torino, da settembre vi era un nuovo prefetto, Carlo Olivieri, trasferito da Bari dove si era reso meritevole, agli occhi del fascismo, per aver consegnato la città  alle bande del ras pugliese Giuseppe Caradonna<ref>G. Carcano, cit., p. 12. Fu il padre di Giulio Caradonna, a lungo deputato del MSI.</ref>, impiegando l'esercito per chiudere la Camera del Lavoro. Appena arrivato a Torino, fece perquisire la sede de « L'Ordine Nuovo », guadagnandosi la lode della devecchiana « Gazzetta del Popolo » e la benevolenza, per bocca de « La Stampa », degli industriali che, scontenti della politica economica di Giolitti e poi di quella del Facta, da più di un anno finanziavano il Fascio torinese perché portasse la città  alla « normalizzazione ». Il [[10 novembre]] 1922, infatti, i primi atti del Consiglio dei ministri del nuovo governo fascista furono a favore dei grandi industriali: fu abolita la nominatività  dei titoli azionari, furono rivisti a loro favore i contratti per le forniture militari, fu ridotta l'imposta di successione e fu ritirato il progetto di riforma agraria già  presentato alla Camera dal precedente governo Facta.
   
   
Il [[28 ottobre]] squadre fasciste torinesi avevano disarmato impunemente una cinquantina di alpini davanti alla Caserma Rubatto, allontanandosi indisturbati con il bottino. Il giorno dopo fu devastata la sede de « L’Ordine Nuovo », in via Arcivescovado 3, sotto gli occhi compiaciuti del capo della squadra politica della Questura, il commissario Mariano Norcia, che pure era al comando di alcuni reparti del 91° Reggimento Fanteria, e del vice-questore Odilio Tabusso. Seguirono assalti e saccheggi dei negozi alimentari - i cosiddetti « distributori » gestiti dall’Alleanza Cooperativa Torinese, storica cooperativa della sinistra cittadina, diretta espressione dell'Associazione Generale Operaia - conclusi con l’incendio della Camera del Lavoro nella notte del [[2 novembre]]. Il [[29 novembre]] veniva ucciso il comunista Pietro Longo<ref>Padre di un attivo militante comunista, Giuseppe Longo, cugino del futuro segretario del PCI Luigi.</ref>: uno degli assassini, il fascista Maurizio Vinardi, due mesi prima aveva anche tentato di uccidere l’anarchico [[Giovanni Vaudano]] che, denunciato il fatto, mentre il suo aggressore era stato rilasciato, si era visto arrestare con l'imputazione di « canti sovversivi ».   
Il [[28 ottobre]] squadre fasciste torinesi avevano disarmato impunemente una cinquantina di alpini davanti alla Caserma Rubatto, allontanandosi indisturbati con il bottino. Il giorno dopo fu devastata la sede de « L'Ordine Nuovo », in via Arcivescovado 3, sotto gli occhi compiaciuti del capo della squadra politica della Questura, il commissario Mariano Norcia, che pure era al comando di alcuni reparti del 91° Reggimento Fanteria, e del vice-questore Odilio Tabusso. Seguirono assalti e saccheggi dei negozi alimentari - i cosiddetti « distributori » gestiti dall'Alleanza Cooperativa Torinese, storica cooperativa della sinistra cittadina, diretta espressione dell'Associazione Generale Operaia - conclusi con l'incendio della Camera del Lavoro nella notte del [[2 novembre]]. Il [[29 novembre]] veniva ucciso il comunista Pietro Longo<ref>Padre di un attivo militante comunista, Giuseppe Longo, cugino del futuro segretario del PCI Luigi.</ref>: uno degli assassini, il fascista Maurizio Vinardi, due mesi prima aveva anche tentato di uccidere l'anarchico [[Giovanni Vaudano]] che, denunciato il fatto, mentre il suo aggressore era stato rilasciato, si era visto arrestare con l'imputazione di « canti sovversivi ».   


Intanto nella FIAT - come nelle altre fabbriche dopo la fine delle occupazioni - era avvenuta la « normalizzazione »: la fine delle grandi commesse di guerra aveva gettato sulla strada 1.300 operai e il rinnovamento tecnologico aveva aumentato la produttività  senza che a essa seguissero incrementi salariali. Rimaneva il problema delle commissioni operaie presenti nelle fabbriche e molto meno accomodanti dei sindacalisti riformisti, e sul tema Giovanni Agnelli si mostrava pubblicamente democratico: « I sindacati ci vogliono », concedeva in un'intervista, precisando subito « ma devono essere apolitici! ».  
Intanto nella FIAT - come nelle altre fabbriche dopo la fine delle occupazioni - era avvenuta la « normalizzazione »: la fine delle grandi commesse di guerra aveva gettato sulla strada 1.300 operai e il rinnovamento tecnologico aveva aumentato la produttività  senza che a essa seguissero incrementi salariali. Rimaneva il problema delle commissioni operaie presenti nelle fabbriche e molto meno accomodanti dei sindacalisti riformisti, e sul tema Giovanni Agnelli si mostrava pubblicamente democratico: « I sindacati ci vogliono », concedeva in un'intervista, precisando subito « ma devono essere apolitici! ».  
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[[Francesco Prato]]<ref>Esiste, nell'antifascismo italiano, un omonimo Francesco Prato (Mondovì, 4 maggio 1894 - Vicoforte di Mondovì, 29 aprile 1945), ucciso dai Tedeschi. Cfr. la biografia dell'[http://www.anpi.it/uomini/prato_francesco.htm ANPI]. Da notare che i due Prato sarebbero stati entrambi « Guardie rosse » e avrebbero svolto attività  di difesa della sede de « L'Ordine Nuovo »: non sembra impossibile che vi sia stata una confusione nella loro biografia di quegli anni.</ref> era nato nel [[1889]] a Valmacca, in provincia di Alessandria. Era venuto a Torino giovanissimo, abitava a pensione in corso Spezia, nel quartiere operaio di Barriera Nizza, e aveva trovato lavoro come bigliettaio dei tram. Socialista, nel [[1921]] aveva aderito al Partito comunista. Come scrisse due anni dopo un giornalista de « [[l'Unità ]] » il Prato, « temperamento audace, battagliero, insofferente d'ogni sopruso e d'ogni prepotenza, incuteva timore agli stessi [[fascismo|fascisti]]. Ovunque si trattava di difendere dei compagni o delle istituzioni proletarie dalle violenze delle camicie nere, il Prato si trovava in prima linea ». Odiato dai [[fascismo|fascisti]], sapeva che la sua vita, nelle condizioni dell'Italia di allora, era legata a un filo: « e alla pelle Prato ci pensò. Non cessò mai la sua attività  politica ma, ad ogni buon conto, non uscì mai senza la rivoltella in tasca »<ref>Mario Segre, « l'Unità  », 5 agosto 1924.</ref>.  
[[Francesco Prato]]<ref>Esiste, nell'antifascismo italiano, un omonimo Francesco Prato (Mondovì, 4 maggio 1894 - Vicoforte di Mondovì, 29 aprile 1945), ucciso dai Tedeschi. Cfr. la biografia dell'[http://www.anpi.it/uomini/prato_francesco.htm ANPI]. Da notare che i due Prato sarebbero stati entrambi « Guardie rosse » e avrebbero svolto attività  di difesa della sede de « L'Ordine Nuovo »: non sembra impossibile che vi sia stata una confusione nella loro biografia di quegli anni.</ref> era nato nel [[1889]] a Valmacca, in provincia di Alessandria. Era venuto a Torino giovanissimo, abitava a pensione in corso Spezia, nel quartiere operaio di Barriera Nizza, e aveva trovato lavoro come bigliettaio dei tram. Socialista, nel [[1921]] aveva aderito al Partito comunista. Come scrisse due anni dopo un giornalista de « [[l'Unità ]] » il Prato, « temperamento audace, battagliero, insofferente d'ogni sopruso e d'ogni prepotenza, incuteva timore agli stessi [[fascismo|fascisti]]. Ovunque si trattava di difendere dei compagni o delle istituzioni proletarie dalle violenze delle camicie nere, il Prato si trovava in prima linea ». Odiato dai [[fascismo|fascisti]], sapeva che la sua vita, nelle condizioni dell'Italia di allora, era legata a un filo: « e alla pelle Prato ci pensò. Non cessò mai la sua attività  politica ma, ad ogni buon conto, non uscì mai senza la rivoltella in tasca »<ref>Mario Segre, « l'Unità  », 5 agosto 1924.</ref>.  


La sera del [[17 dicembre]] [[1922]], una fredda e nebbiosa domenica, il Prato, mentre, concluso il suo turno di lavoro, stava andando a trovare la fidanzata, fu atteso per strada da tre fascisti che gli spararono colpendolo a una gamba. Si difese sparando a sua volta, ferendone mortalmente due, il ferroviere Giuseppe Dresda e lo studente Lucio Bazzani, mentre il terzo, l'artigiano Carlo Camerano, rimasto solo leggermente ferito, si dava alla fuga correndo ad avvisare dell'accaduto i suoi camerati. Prato trovò rifugio in casa di amici dove, tenuto sempre nascosto, qualche giorno dopo un medico dell’Alleanza Cooperativa l’operò estraendogli il proiettile e ingessandolo. La vita del Prato non valeva più niente in Italia e il Partito decise di farlo espatriare: il [[17 febbraio]] [[Paolo Robotti]] e le sorelle [[Rita Montagnana|Rita]] ed [[Elena Montagnana]] lo portarono in auto a [[Milano]] da dove altri compagni lo trasferirono in [[Svizzera]], a Zurigo, e di qui in [[Unione Sovietica]], dove passerà  il resto della vita.  Morirà  nel 1943 in un gulag staliniano.
La sera del [[17 dicembre]] [[1922]], una fredda e nebbiosa domenica, il Prato, mentre, concluso il suo turno di lavoro, stava andando a trovare la fidanzata, fu atteso per strada da tre fascisti che gli spararono colpendolo a una gamba. Si difese sparando a sua volta, ferendone mortalmente due, il ferroviere Giuseppe Dresda e lo studente Lucio Bazzani, mentre il terzo, l'artigiano Carlo Camerano, rimasto solo leggermente ferito, si dava alla fuga correndo ad avvisare dell'accaduto i suoi camerati. Prato trovò rifugio in casa di amici dove, tenuto sempre nascosto, qualche giorno dopo un medico dell'Alleanza Cooperativa l'operò estraendogli il proiettile e ingessandolo. La vita del Prato non valeva più niente in Italia e il Partito decise di farlo espatriare: il [[17 febbraio]] [[Paolo Robotti]] e le sorelle [[Rita Montagnana|Rita]] ed [[Elena Montagnana]] lo portarono in auto a [[Milano]] da dove altri compagni lo trasferirono in [[Svizzera]], a Zurigo, e di qui in [[Unione Sovietica]], dove passerà  il resto della vita.  Morirà  nel 1943 in un gulag staliniano.


Alle origini della sparatoria vi era un particolare odio tra il Prato e il Camerano, che non si sa se fosse causato anche da motivi extra-politici. In luglio Prato spedì dalla [[Russia]] una lettera al Camerano, il quale aveva testimoniato alla polizia che era stato Prato a sparare a tradimento prima al Dresda e poi a lui e al Bazzani. Nella lettera era scritto che il Camerano « era la causa di tutto. Io non mi trovo pentito affatto di ciò che feci, capo primo, perché eravate dei fascisti, e secondariamente son stato aggredito a mano armata. Se tu non farai la dichiarazione giusta di quella notte come ci incontrammo, la pagherai. Ricordati bene che eravate in tre, mi avete affrontato con le rivoltelle alla gola e mi avete sparato, e io mi son difeso. A me non importa nulla di prendermi l’ergastolo, ma voglio che la popolazione sappia come venne lo scontro, che possa calcolare ove era di più la delinquenza ».  
Alle origini della sparatoria vi era un particolare odio tra il Prato e il Camerano, che non si sa se fosse causato anche da motivi extra-politici. In luglio Prato spedì dalla [[Russia]] una lettera al Camerano, il quale aveva testimoniato alla polizia che era stato Prato a sparare a tradimento prima al Dresda e poi a lui e al Bazzani. Nella lettera era scritto che il Camerano « era la causa di tutto. Io non mi trovo pentito affatto di ciò che feci, capo primo, perché eravate dei fascisti, e secondariamente son stato aggredito a mano armata. Se tu non farai la dichiarazione giusta di quella notte come ci incontrammo, la pagherai. Ricordati bene che eravate in tre, mi avete affrontato con le rivoltelle alla gola e mi avete sparato, e io mi son difeso. A me non importa nulla di prendermi l'ergastolo, ma voglio che la popolazione sappia come venne lo scontro, che possa calcolare ove era di più la delinquenza ».  
   
   
Giustamente, il Prato aveva previsto cosa sarebbe avvenuto al processo, che fu sbrigato in poche ore, il [[20 ottobre]] [[1924]]. Tutti i testimoni erano [[fascismo|fascisti]], la stessa lettera del Prato rappresentava una confessione e non importava ai giudici fascistizzati che egli fosse l’aggredito, come ricordò inutilmente Salvatore Paola, l’avvocato d’ufficio dell’imputato latitante, chiedendo l’assoluzione per legittima difesa. Secondo i giudici « il Prato premeditava di assalire i fascisti e di sparare contro di essi » e perciò lo condannarono all’ergastolo.  
Giustamente, il Prato aveva previsto cosa sarebbe avvenuto al processo, che fu sbrigato in poche ore, il [[20 ottobre]] [[1924]]. Tutti i testimoni erano [[fascismo|fascisti]], la stessa lettera del Prato rappresentava una confessione e non importava ai giudici fascistizzati che egli fosse l'aggredito, come ricordò inutilmente Salvatore Paola, l'avvocato d'ufficio dell'imputato latitante, chiedendo l'assoluzione per legittima difesa. Secondo i giudici « il Prato premeditava di assalire i fascisti e di sparare contro di essi » e perciò lo condannarono all'ergastolo.  


Il Regime farà  naturalmente dei due squadristi dei « martiri » e il [[28 settembre]] [[1934]] le due pallottole che li uccisero saranno richieste, in quanto « cimeli » da esporre in una mostra, dal IV Gruppo Rionale Fascista di Torino « Lucio Bazzani »<ref>Al Bazzani fu anche intitolata, fino alla Liberazione, la popolare via Saluzzo, nel quartiere torinese di San Salvario.</ref>. Il dottor Majola, Procuratore Generale del Re, accogliendo sollecitamente la richiesta il [[30 settembre]], sottolineava - associando, secondo l'abitudine del Ventennio, la retorica al ridicolo - come « i segni del martirio e della bieca, selvaggia aggressione debbano avere degna sede in una mostra che eternamente sia di esempio e di ricordo per le generazioni della nuova Italia »<ref>Per tutta questa vicenda, cfr. Giancarlo Carcano, ''Strage a Torino. Una storia italiana dal 1922 al 1971'', pp. 43-52.</ref>.
Il Regime farà  naturalmente dei due squadristi dei « martiri » e il [[28 settembre]] [[1934]] le due pallottole che li uccisero saranno richieste, in quanto « cimeli » da esporre in una mostra, dal IV Gruppo Rionale Fascista di Torino « Lucio Bazzani »<ref>Al Bazzani fu anche intitolata, fino alla Liberazione, la popolare via Saluzzo, nel quartiere torinese di San Salvario.</ref>. Il dottor Majola, Procuratore Generale del Re, accogliendo sollecitamente la richiesta il [[30 settembre]], sottolineava - associando, secondo l'abitudine del Ventennio, la retorica al ridicolo - come « i segni del martirio e della bieca, selvaggia aggressione debbano avere degna sede in una mostra che eternamente sia di esempio e di ricordo per le generazioni della nuova Italia »<ref>Per tutta questa vicenda, cfr. Giancarlo Carcano, ''Strage a Torino. Una storia italiana dal 1922 al 1971'', pp. 43-52.</ref>.
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La macchina ripartì in direzione di Nichelino e si fermò in aperta campagna, non lontano dalla linea ferroviaria. A cento metri di distanza, sui pali dell'alta tensione stavano lavorando alcuni operai delle Ferrovie, che poterono così osservare tutta la scena. Tra di loro era il diciottenne comunista [[Gustavo Comollo]]:<ref>Detto Pietro: su di lui cfr. la [http://www.anpi.it/uomini/comollo_gustavo.htm nota biografica dell'ANPI].</ref> « I fascisti erano tre o quattro. Scesero spingendo avanti uno, lo fecero andare per un sentiero e lui camminò tranquillo senza voltarsi [...] gli spararono tre o quattro colpi nella schiena [...] lui cadde giù. Ricordo che cadde lentamente. In fretta quelli salirono sull'auto e sparirono a gran velocità  [...] Dopo un poco ci siamo avvicinati. Alcuni amici dissero che c'era Mariotti su quella macchina [...] forse c'era anche il traditore Porro [...] poi è venuta della gente e anche i carabinieri [...] Berruti restò un bel po' steso per terra ».<ref>In G. Carcano, cit., pp. 59-60.</ref>
La macchina ripartì in direzione di Nichelino e si fermò in aperta campagna, non lontano dalla linea ferroviaria. A cento metri di distanza, sui pali dell'alta tensione stavano lavorando alcuni operai delle Ferrovie, che poterono così osservare tutta la scena. Tra di loro era il diciottenne comunista [[Gustavo Comollo]]:<ref>Detto Pietro: su di lui cfr. la [http://www.anpi.it/uomini/comollo_gustavo.htm nota biografica dell'ANPI].</ref> « I fascisti erano tre o quattro. Scesero spingendo avanti uno, lo fecero andare per un sentiero e lui camminò tranquillo senza voltarsi [...] gli spararono tre o quattro colpi nella schiena [...] lui cadde giù. Ricordo che cadde lentamente. In fretta quelli salirono sull'auto e sparirono a gran velocità  [...] Dopo un poco ci siamo avvicinati. Alcuni amici dissero che c'era Mariotti su quella macchina [...] forse c'era anche il traditore Porro [...] poi è venuta della gente e anche i carabinieri [...] Berruti restò un bel po' steso per terra ».<ref>In G. Carcano, cit., pp. 59-60.</ref>


Dante Mariotti era il comandante della squadra « Enrico Toti »,<ref>Notizie sulla composizione delle squadre fasciste sono contenute in Dante Maria Tuninetti, ''Squadrismo, squadristi, piemontesi'', Roma, Pinciana 1942.</ref> mentre « il traditore » era Luigi Porro, figlio di Carlo, uno degli inetti generali dello Stato Maggiore rimossi dopo il disastro di Caporetto. Nel 1921 quel giovane studente d’ingegneria si era iscritto al Partito comunista, ma l’anno dopo era tornato nel più congegnale ambiente della canaglia fascista. Secondo tutte le testimonianze, anche di parte fascista, in quei giorni il Porro indicò i comunisti da colpire.<ref>Lo squadrista e poi repubblichino F. G., importante esponente del fascismo piemontese che non volle che fosse pubblicato il suo nome in un’intervista concessa nel 1972, dichiarò che in quei giorni il Porro, appartenente alla squadra « Enrico Toti » indicò delle persone, ma  « non ammazzò nessuno ». Va tenuto conto che quando l'intervista fu rilasciata l’ingegner Luigi Porro, dirigente d’azienda, era ancora vivo. Cfr. G. Carcano, cit., p. 112.</ref> Secondo [[Teresa Noce]],<ref>Al tempo, giovane operaia comunista che poi sposò Luigi Longo e divenne una dirigente di primo piano del PCI.</ref> il Porro comandò un gruppo di fascisti che era alla ricerca di [[Luigi Longo]], suo compagno di corso all’Università , entrando nel negozio della famiglia Longo, nella centrale via Po, per assassinarlo, ma Longo si trovava allora a Mosca.<ref>G. Carcano, cit., p. 115.</ref>
Dante Mariotti era il comandante della squadra « Enrico Toti »,<ref>Notizie sulla composizione delle squadre fasciste sono contenute in Dante Maria Tuninetti, ''Squadrismo, squadristi, piemontesi'', Roma, Pinciana 1942.</ref> mentre « il traditore » era Luigi Porro, figlio di Carlo, uno degli inetti generali dello Stato Maggiore rimossi dopo il disastro di Caporetto. Nel 1921 quel giovane studente d'ingegneria si era iscritto al Partito comunista, ma l'anno dopo era tornato nel più congegnale ambiente della canaglia fascista. Secondo tutte le testimonianze, anche di parte fascista, in quei giorni il Porro indicò i comunisti da colpire.<ref>Lo squadrista e poi repubblichino F. G., importante esponente del fascismo piemontese che non volle che fosse pubblicato il suo nome in un'intervista concessa nel 1972, dichiarò che in quei giorni il Porro, appartenente alla squadra « Enrico Toti » indicò delle persone, ma  « non ammazzò nessuno ». Va tenuto conto che quando l'intervista fu rilasciata l'ingegner Luigi Porro, dirigente d'azienda, era ancora vivo. Cfr. G. Carcano, cit., p. 112.</ref> Secondo [[Teresa Noce]],<ref>Al tempo, giovane operaia comunista che poi sposò Luigi Longo e divenne una dirigente di primo piano del PCI.</ref> il Porro comandò un gruppo di fascisti che era alla ricerca di [[Luigi Longo]], suo compagno di corso all'Università , entrando nel negozio della famiglia Longo, nella centrale via Po, per assassinarlo, ma Longo si trovava allora a Mosca.<ref>G. Carcano, cit., p. 115.</ref>


Il vice-prefetto Palumbo provvide a comunicare al ministro dell'Interno, che era poi Mussolini, la nota sull'accaduto, si direbbe con qualche brivido di compiacimento e molte inesattezze: « Il Berruti pericoloso anarchico schedato ch'ebbe già  a soggiornare in Svizzera ed in Inghilterra, e qui conviveva con altra nota sovversiva ».
Il vice-prefetto Palumbo provvide a comunicare al ministro dell'Interno, che era poi Mussolini, la nota sull'accaduto, si direbbe con qualche brivido di compiacimento e molte inesattezze: « Il Berruti pericoloso anarchico schedato ch'ebbe già  a soggiornare in Svizzera ed in Inghilterra, e qui conviveva con altra nota sovversiva ».
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Forse Ferrero andò effettivamente alla stazione: di qui, dalla piazza che ora nel nome ricorda quel giorno, dovette prendere via Cernaia: all'incrocio con corso Siccardi doveva scegliere. A sinistra, con un lungo percorso, si sarebbe indirizzato verso casa; prendendo a destra, si andava invece alla Camera del Lavoro, e anche quella era un po' casa sua: Ferrero svoltò a destra.  
Forse Ferrero andò effettivamente alla stazione: di qui, dalla piazza che ora nel nome ricorda quel giorno, dovette prendere via Cernaia: all'incrocio con corso Siccardi doveva scegliere. A sinistra, con un lungo percorso, si sarebbe indirizzato verso casa; prendendo a destra, si andava invece alla Camera del Lavoro, e anche quella era un po' casa sua: Ferrero svoltò a destra.  


La Camera del Lavoro era piena di [[fascismo|fascisti]], l'avevano « conquistata » e ora la tenevano come un trofeo di vittoria. Dall'altra parte del corso, Ferrero si fermò a guardare la scena e ad ascoltare i canti e le urla: era quasi notte, forse pensava che in quel buio nebbioso non sarebbe stato notato. L'imprudenza gli fu fatale: quell’ombra ferma laggiù fu vista e, si sa, la canaglia s'inquieta sempre quando si crede osservata anche solo da un’ombra.  
La Camera del Lavoro era piena di [[fascismo|fascisti]], l'avevano « conquistata » e ora la tenevano come un trofeo di vittoria. Dall'altra parte del corso, Ferrero si fermò a guardare la scena e ad ascoltare i canti e le urla: era quasi notte, forse pensava che in quel buio nebbioso non sarebbe stato notato. L'imprudenza gli fu fatale: quell'ombra ferma laggiù fu vista e, si sa, la canaglia s'inquieta sempre quando si crede osservata anche solo da un'ombra.  


Una decina di loro uscì correndo verso di lui, che non si mosse nemmeno. Quando gli furono vicini, lo riconobbero, lo riempirono di bastonate, di calci, di pugni, lo trascinarono dentro, lo gettarono in una stanza che avevano trasformato in prigione. Non era ancora morto, ma non si alzerà  più. Verso mezzanotte lo tirarono di nuovo sulla strada e, sempre tra calci e bastonate, gli legarono una caviglia a un camion che partì e lo trascinò per 200 metri fino al monumento a Vittorio Emanuele: c’è da augurarsi che fosse già  morto, perché qui gli cavarono gli occhi e gli strapparono i testicoli<ref>Secondo la deposizione del deputato socialista Filippo Amedeo all'inchiesta Giunta-Gasti, gennaio 1923, in G. Carcano, cit., p. 85.</ref>.
Una decina di loro uscì correndo verso di lui, che non si mosse nemmeno. Quando gli furono vicini, lo riconobbero, lo riempirono di bastonate, di calci, di pugni, lo trascinarono dentro, lo gettarono in una stanza che avevano trasformato in prigione. Non era ancora morto, ma non si alzerà  più. Verso mezzanotte lo tirarono di nuovo sulla strada e, sempre tra calci e bastonate, gli legarono una caviglia a un camion che partì e lo trascinò per 200 metri fino al monumento a Vittorio Emanuele: c'è da augurarsi che fosse già  morto, perché qui gli cavarono gli occhi e gli strapparono i testicoli<ref>Secondo la deposizione del deputato socialista Filippo Amedeo all'inchiesta Giunta-Gasti, gennaio 1923, in G. Carcano, cit., p. 85.</ref>.


Nella stessa testimonianza, tra gli squadristi che si accanirono sul corpo di Ferrero, veniva indicato Carlo Natoli come il più accanito. Questo Natoli, già  presente nella squadra che uccise Andrea Chiomo, era mutilato di guerra: privo di una gamba, infierì sul cadavere di Ferrero zampettando sulle sue stampelle. Un'immagine tragica e grottesca insieme, che da sola rende l'immagine del fascismo.  
Nella stessa testimonianza, tra gli squadristi che si accanirono sul corpo di Ferrero, veniva indicato Carlo Natoli come il più accanito. Questo Natoli, già  presente nella squadra che uccise Andrea Chiomo, era mutilato di guerra: privo di una gamba, infierì sul cadavere di Ferrero zampettando sulle sue stampelle. Un'immagine tragica e grottesca insieme, che da sola rende l'immagine del fascismo.  
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