Pubblico Dominio: differenze tra le versioni

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L'evoluzione del concetto si ebbe, in [[Europa]], a partire dalla fine del [[XVIII secolo]], quando sempre più Paesi iniziarono ad elaborare norme a tutela dei creatori delle opere d'arte e dell'ingegno; la questione del pubblico dominio è infatti di rilievo non solo in materia di [[proprietà letteraria]] e dunque di [[diritto d'autore]] propriamente detto, ma anche a proposito dei diritti sui disegni e sulle invenzioni (con lo sviluppo della normazione su [[marchio|marchi]] e [[brevetto|brevetti]]). Se prima di questa fase la locuzione "pubblico dominio" indicava primariamente ciò che oggi è più facilmente riconoscibile nella nozione di ''[[demanio]]'', cioè complesso dei beni e delle rendite di proprietà  o spettanti allo stato, con il progressivo articolarsi delle protezioni garantite dagli ordinamenti ad autori, inventori ed altri creatori di opere, all'originario significato della locuzione si affiancò perciò quello oggi prevalente.  
L'evoluzione del concetto si ebbe, in [[Europa]], a partire dalla fine del [[XVIII secolo]], quando sempre più Paesi iniziarono ad elaborare norme a tutela dei creatori delle opere d'arte e dell'ingegno; la questione del pubblico dominio è infatti di rilievo non solo in materia di [[proprietà letteraria]] e dunque di [[diritto d'autore]] propriamente detto, ma anche a proposito dei diritti sui disegni e sulle invenzioni (con lo sviluppo della normazione su [[marchio|marchi]] e [[brevetto|brevetti]]). Se prima di questa fase la locuzione "pubblico dominio" indicava primariamente ciò che oggi è più facilmente riconoscibile nella nozione di ''[[demanio]]'', cioè complesso dei beni e delle rendite di proprietà  o spettanti allo stato, con il progressivo articolarsi delle protezioni garantite dagli ordinamenti ad autori, inventori ed altri creatori di opere, all'originario significato della locuzione si affiancò perciò quello oggi prevalente.  


Alcuni dei passaggi di maggior rilievo in argomento si ebbero come accennato a partire dalla fine del [[Settecento]]; in quel tempo le normative in genere prevedevano tutela per gli autori solo per gli illeciti più gravi e palesi, come il [[plagio (diritto d'autore)|plagio]], e tutte le protezioni tenevano in buona considerazione, insieme a quelli degli autori, i diritti degli [[stampa]]tori, antesignani della moderna figura dell'[[editore]] <ref>La [[stampa a caratteri mobili]], l'[[invenzione (tecnologia)|invenzione]] che rese imperitura la memoria di [[Johann Gutenberg]] era del [[1456]]. </ref>. In [[Italia]], tuttavia, già  nel [[1536]] era stata scritta una delle opere giuridico-letterarie che maggiormente contribuirono in seguito allo sviluppo di norme di simile indirizzo<ref>Sul ruolo di questo saggio a tali effetti, diverse fonti; ad esempio Giuseppe Panattoni, Lorenzo Panattoni, ''Memoria sulla riproduzione dei Promessi sposi del c. Alessandro Manzoni fatta in Firenze nel 1845 dal sig. F. Le Monnier: Repliche giuridiche e Rettificazione alla difesa del Tipografo ricorrente avanti la C. di Cassazione della Toscana'', Tipografia Barbèra, Firenze, 1861</ref>, il saggio ''De rebus et dispositionibus dubiis''<ref>[[Alberto Bruno da Asti]], ''De rebus et dispositionibus dubiis'', Tipografia Francesco Baroni, 20 agosto 1536, Asti</ref> (''Delle cose e delle disposizioni dubbie'') di [[Alberto Bruno da Asti]]; questo giurista <ref>Alberto Bruno da Asti (nato in realtà  a [[Castellinaldo]] nel [[1477]]), signore di [[Ferrere]], fu discepolo di [[Jacopino di San Giorgio]] e nel [[1541]] divenne Avvocato Fiscale Generale di [[Ducato di Savoia|Savoia]], del cui Ducato fu anche senatore a [[Milano]]. Prolifico saggista in materia di [[diritto costituzionale]], si occupò anche di studi riguardanti la [[monetazione]] ed il [[signoraggio]]. Morì nel [[1551]].</ref>, con riferimento alla allora già  "fiorente" attività  di ristampa non autorizzata di opere altrui, suggeriva che non fosse consentito ''lucrare con altrui danno''<ref>Taluni autori successivi, come [[Lodovico Bosellini]] (Lodovico Bosellini, ''Della proprietà letteraria e di uno scritto del signor Laboulaye intorno alla medesima'', in ''La Temi - Giornale di legislazione e di giurisprudenza'', Volume VI, Tipografia Barbèra, Firenze, 1857), hanno riferito questo richiamo al principio romanistico riassunto nel [[broccardo]] "''[[nemo locupletari debet cum aliena iactura]]''"</ref>, sottolineando il rischio che ''pel timore di abusi e ristampe <ref>Il termine "ristampa", sino all'Ottocento, è stato frequentemente utilizzato a sé, ma con sottinteso riferimento al significato di "ristampa non autorizzata o comunque abusiva".</ref>, gli Scrittori si svogliassero di pubblicare le opere loro'' ed invocando appositi provvedimenti da parte dell'imperatore o del papa affinché fosse garantita una giusta remunerazione per le fatiche dell'[[intelletto]] <ref>Fonte di diverso segno, ma coincidente con quella di Panattoni sul punto dell'influenza avuta da quest'opera, la lettura datane da Bosellini (op. cit.)</ref>.  
Alcuni dei passaggi di maggior rilievo in argomento si ebbero come accennato a partire dalla fine del [[Settecento]]; in quel tempo le normative in genere prevedevano tutela per gli autori solo per gli illeciti più gravi e palesi, come il [[plagio (diritto d'autore)|plagio]], e tutte le protezioni tenevano in buona considerazione, insieme a quelli degli autori, i diritti degli [[stampa]]tori, antesignani della moderna figura dell'[[editore]] <ref>La [[stampa a caratteri mobili]], l'[[invenzione (tecnologia)|invenzione]] che rese imperitura la memoria di [[Johann Gutenberg]] era del [[1456]]. </ref>. In [[Italia]], tuttavia, già  nel [[1536]] era stata scritta una delle opere giuridico-letterarie che maggiormente contribuirono in seguito allo sviluppo di norme di simile indirizzo <ref>Sul ruolo di questo saggio a tali effetti, diverse fonti; ad esempio Giuseppe Panattoni, Lorenzo Panattoni, ''Memoria sulla riproduzione dei Promessi sposi del c. Alessandro Manzoni fatta in Firenze nel 1845 dal sig. F. Le Monnier: Repliche giuridiche e Rettificazione alla difesa del Tipografo ricorrente avanti la C. di Cassazione della Toscana'', Tipografia Barbèra, Firenze, 1861</ref>, il saggio ''De rebus et dispositionibus dubiis''<ref>[[Alberto Bruno da Asti]], ''De rebus et dispositionibus dubiis'', Tipografia Francesco Baroni, 20 agosto 1536, Asti</ref> (''Delle cose e delle disposizioni dubbie'') di [[Alberto Bruno da Asti]]; questo giurista <ref>Alberto Bruno da Asti (nato in realtà  a [[Castellinaldo]] nel [[1477]]), signore di [[Ferrere]], fu discepolo di [[Jacopino di San Giorgio]] e nel [[1541]] divenne Avvocato Fiscale Generale di [[Ducato di Savoia|Savoia]], del cui Ducato fu anche senatore a [[Milano]]. Prolifico saggista in materia di [[diritto costituzionale]], si occupò anche di studi riguardanti la [[monetazione]] ed il [[signoraggio]]. Morì nel [[1551]].</ref>, con riferimento alla allora già  "fiorente" attività  di ristampa non autorizzata di opere altrui, suggeriva che non fosse consentito ''lucrare con altrui danno''<ref>Taluni autori successivi, come [[Lodovico Bosellini]] (Lodovico Bosellini, ''Della proprietà letteraria e di uno scritto del signor Laboulaye intorno alla medesima'', in ''La Temi - Giornale di legislazione e di giurisprudenza'', Volume VI, Tipografia Barbèra, Firenze, 1857), hanno riferito questo richiamo al principio romanistico riassunto nel [[broccardo]] "''[[nemo locupletari debet cum aliena iactura]]''"</ref>, sottolineando il rischio che ''pel timore di abusi e ristampe <ref>Il termine "ristampa", sino all'Ottocento, è stato frequentemente utilizzato a sé, ma con sottinteso riferimento al significato di "ristampa non autorizzata o comunque abusiva".</ref>, gli Scrittori si svogliassero di pubblicare le opere loro'' ed invocando appositi provvedimenti da parte dell'imperatore o del papa affinché fosse garantita una giusta remunerazione per le fatiche dell'[[intelletto]] <ref>Fonte di diverso segno, ma coincidente con quella di Panattoni sul punto dell'influenza avuta da quest'opera, la lettura datane da Bosellini (op. cit.)</ref>.  


Si cominciava ad investigare sì sulla natura di quel ricettacolo in cui tutto il prodotto intellettuale non protetto sarebbe andato a defluire, anche se ancora non organicamente col nome di ''pubblico dominio''. Ma della nascente idea di ''proprietà letteraria'' non si parlava ancora in termini giuridici di proprietà  ([[Dominium ex iure Quiritium|quiritaria]] o [[in bonis habere|bonitaria]] che fosse), o almeno non in termini di generale condivisione, anzi molte furono<ref>Sebbene principalmente nei secoli successivi.</ref> le confutazioni alla pretesa di una simile identificabilità  dei diritti spettanti all'autore (che come ricordato dal Bruno stesso<ref>Alberto Bruno, op.cit.</ref> avevano precedenti in diritto romano solo nel caso del "premio" ricevuto da [[Appio Claudio Cieco|Appio]] per la pubblicazione delle sue opere). Proprio poiché il pubblico dominio era il luogo che accoglieva quanto non assorbito dai diritti di sfruttamento esclusivo dell'opera garantiti agli autori, le ipotesi di inquadramento di questi diritti alla stregua di forme di proprietà  condizionava, come del resto ancora oggi, le riflessioni sulla natura giuridica del pubblico dominio. Mentre la dottrina elaborava, in Inghilterra nel [[1557]] si accordava alla ''[[Stationers' Company]]''<ref>{{en 2}} [[:en:Worshipful Company of Stationers and Newspaper Makers|Worshipful Company of Stationers and Newspaper Makers]]</ref> un vero e proprio [[monopolio]] su tutte le opere, i cui diritti di pubblicazione potevano essere scambiati solo fra i soci della Compagnia; questa era congegnata in modo da assicurare l'esclusione degli autori dal novero dei soci, con la conseguenza che l'auto-pubblicazione risultava di fatto impossibile <ref>[[John Feather]], ''The Book Trade in Politics: The Making of the Copyright Act of 1710'', Publishing History, 1980</ref>. La compagnia aveva un potere di normazione settoriale e la sua norma forse più nota è quella dalla quale deriva lo stesso termine ''[[copyright]]'': una volta che uno dei soci avesse dichiarato presso la Compagnia di avere acquisito i diritti su un testo (detto in quel contesto ''copy''), gli altri soci si sarebbero astenuti dal pubblicarlo lasciando al titolare l'esclusivo "diritto di copia" (''copyright''); a tal fine la Compagnia aveva organizzato un registro, lo ''"entry book of copies"'' (o ''Stationers' Company Register'') che faceva fede fra gli editori inglesi. La privativa fu limitata nel [[1695]], fu poi lo ''[[Statute of Anne]]''<ref>''Copyright Act 1709 8 Anne c.19 - "An Act for the Encouragement of Learning, by vesting the Copies of Printed Books in the Authors or purchasers of such Copies, during the Times therein mentioned''</ref> a modificare la situazione nel [[1709]].
Si cominciava ad investigare sì sulla natura di quel ricettacolo in cui tutto il prodotto intellettuale non protetto sarebbe andato a defluire, anche se ancora non organicamente col nome di ''pubblico dominio''. Ma della nascente idea di ''proprietà letteraria'' non si parlava ancora in termini giuridici di proprietà  ([[Dominium ex iure Quiritium|quiritaria]] o [[in bonis habere|bonitaria]] che fosse), o almeno non in termini di generale condivisione, anzi molte furono <ref>Sebbene principalmente nei secoli successivi.</ref> le confutazioni alla pretesa di una simile identificabilità  dei diritti spettanti all'autore (che come ricordato dal Bruno stesso <ref>Alberto Bruno, op.cit.</ref> avevano precedenti in diritto romano solo nel caso del "premio" ricevuto da [[Appio Claudio Cieco|Appio]] per la pubblicazione delle sue opere). Proprio poiché il pubblico dominio era il luogo che accoglieva quanto non assorbito dai diritti di sfruttamento esclusivo dell'opera garantiti agli autori, le ipotesi di inquadramento di questi diritti alla stregua di forme di proprietà  condizionava, come del resto ancora oggi, le riflessioni sulla natura giuridica del pubblico dominio. Mentre la dottrina elaborava, in Inghilterra nel [[1557]] si accordava alla ''[[Stationers' Company]]''<ref>{{en 2}} [[:en:Worshipful Company of Stationers and Newspaper Makers|Worshipful Company of Stationers and Newspaper Makers]]</ref> un vero e proprio [[monopolio]] su tutte le opere, i cui diritti di pubblicazione potevano essere scambiati solo fra i soci della Compagnia; questa era congegnata in modo da assicurare l'esclusione degli autori dal novero dei soci, con la conseguenza che l'auto-pubblicazione risultava di fatto impossibile <ref>[[John Feather]], ''The Book Trade in Politics: The Making of the Copyright Act of 1710'', Publishing History, 1980</ref>. La compagnia aveva un potere di normazione settoriale e la sua norma forse più nota è quella dalla quale deriva lo stesso termine ''[[copyright]]'': una volta che uno dei soci avesse dichiarato presso la Compagnia di avere acquisito i diritti su un testo (detto in quel contesto ''copy''), gli altri soci si sarebbero astenuti dal pubblicarlo lasciando al titolare l'esclusivo "diritto di copia" (''copyright''); a tal fine la Compagnia aveva organizzato un registro, lo ''"entry book of copies"'' (o ''Stationers' Company Register'') che faceva fede fra gli editori inglesi. La privativa fu limitata nel [[1695]], fu poi lo ''[[Statute of Anne]]''<ref>''Copyright Act 1709 8 Anne c.19 - "An Act for the Encouragement of Learning, by vesting the Copies of Printed Books in the Authors or purchasers of such Copies, during the Times therein mentioned''</ref> a modificare la situazione nel [[1709]].


Nel Vecchio Continente una parte rilevante dei plagi e delle ristampe abusive si manifestavano nell'illecita riproduzione di opere di autori principalmente di altri stati <ref>Numerose ad esempio le polemiche fra gli stati italiani e la [[Francia]] culminate e riassunte (quasi sempre polemicamente) nella corposa saggistica originata dal cennato caso [[Alessandro Manzoni|Manzoni]]-[[Felice Le Monnier|Le Monnier]].</ref> (non che mancasse peraltro l'uso di fare "vittime" fra i connazionali), con all'apice di questa criticità  il clamoroso caso delle accuse rivolte a [[Leibniz]] di aver plagiato il lavoro di [[Isaac Newton|Newton]] sull'[[analisi infinitesimale]], un caso che con i séguiti polemici che ebbe divenne un vero e proprio [[incidente diplomatico]] e fu causa di una grave frattura fra gli ambienti scientifici inglesi e continentali. Nelle more dell'attesa di decisive definizioni dottrinali circa la proprietà letteraria, da un lato i governi fecero intanto ricorso ad una discreta [[trattato internazionale|trattatistica]] internazionale, a complemento di interventi legislativi interni, per tutelare ciascuno i propri autori; dall'altro lato, autori illustri anche di scienze non direttamente giuridiche si dedicarono al tema apportandovi contributi in genere volti al riconoscimento di prerogative autorali. [[Immanuel Kant|Kant]], ad esempio, ne ''L'illegittimità  della ristampa dei libri''<ref>Immanuel Kant, ''L'illegittimità  della ristampa dei libri (Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks)'', [[1795]]</ref>, del [[1795]] con [[sillogismo]] riaffermava la separazione fra la proprietà  della singola copia di un'opera ed il diritto di effettuarne riproduzioni <ref>Il sillogismo usato, in estrema sintesi, esprimeva che essere proprietari di una ''cosa'' (ad esempio un libro) comprendeva sì il diritto di proprietà  sulla cosa, ma non poteva comprendere diritti personali su terzi. Lo stampatore, per conto suo, aveva invece il certo diritto, diritto personale positivo, di essere l'editore dello scritto contenuto nel libro. Il diritto di riproduzione non poteva perciò - secondo appunto Kant - appartenere ad entrambi, era accertato che fosse dello stampatore e non poteva dunque essere contemporaneamente anche del proprietario della copia, anche perché essendo un diritto ''personale'', non poteva avere scaturigine dalla concreta proprietà  di una cosa materiale.</ref>.
Nel Vecchio Continente una parte rilevante dei plagi e delle ristampe abusive si manifestavano nell'illecita riproduzione di opere di autori principalmente di altri stati <ref>Numerose ad esempio le polemiche fra gli stati italiani e la [[Francia]] culminate e riassunte (quasi sempre polemicamente) nella corposa saggistica originata dal cennato caso [[Alessandro Manzoni|Manzoni]]-[[Felice Le Monnier|Le Monnier]].</ref> (non che mancasse peraltro l'uso di fare "vittime" fra i connazionali), con all'apice di questa criticità  il clamoroso caso delle accuse rivolte a [[Leibniz]] di aver plagiato il lavoro di [[Isaac Newton|Newton]] sull'[[analisi infinitesimale]], un caso che con i séguiti polemici che ebbe divenne un vero e proprio [[incidente diplomatico]] e fu causa di una grave frattura fra gli ambienti scientifici inglesi e continentali. Nelle more dell'attesa di decisive definizioni dottrinali circa la proprietà letteraria, da un lato i governi fecero intanto ricorso ad una discreta [[trattato internazionale|trattatistica]] internazionale, a complemento di interventi legislativi interni, per tutelare ciascuno i propri autori; dall'altro lato, autori illustri anche di scienze non direttamente giuridiche si dedicarono al tema apportandovi contributi in genere volti al riconoscimento di prerogative autorali. [[Immanuel Kant|Kant]], ad esempio, ne ''L'illegittimità  della ristampa dei libri''<ref>Immanuel Kant, ''L'illegittimità  della ristampa dei libri (Von der Unrechtmäßigkeit des Büchernachdrucks)'', [[1795]]</ref>, del [[1795]] con [[sillogismo]] riaffermava la separazione fra la proprietà  della singola copia di un'opera ed il diritto di effettuarne riproduzioni <ref>Il sillogismo usato, in estrema sintesi, esprimeva che essere proprietari di una ''cosa'' (ad esempio un libro) comprendeva sì il diritto di proprietà  sulla cosa, ma non poteva comprendere diritti personali su terzi. Lo stampatore, per conto suo, aveva invece il certo diritto, diritto personale positivo, di essere l'editore dello scritto contenuto nel libro. Il diritto di riproduzione non poteva perciò - secondo appunto Kant - appartenere ad entrambi, era accertato che fosse dello stampatore e non poteva dunque essere contemporaneamente anche del proprietario della copia, anche perché essendo un diritto ''personale'', non poteva avere scaturigine dalla concreta proprietà  di una cosa materiale.</ref>.
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