Utopia (concetto): differenze tra le versioni

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A differenza della prospettiva ideologica, l'utopia nel suo irriducibile moto di negazione non sottopone, a ben vedere, a critica la realtà esistente; si limita, per l'appunto, a negarla nella sua interezza, perorando la causa di una realtà totalmente altra e nuova rispetto all'esistente; un'utopia in cui l'ordine preconizzato regnerà nella sua assoluta perfezione. La struttura utopica preconizza lo speculare rovesciamento dell'esistente nell'auspicio che in tale radicale cambiamento il disordine si tramuti in ordine.  
A differenza della prospettiva ideologica, l'utopia nel suo irriducibile moto di negazione non sottopone, a ben vedere, a critica la realtà esistente; si limita, per l'appunto, a negarla nella sua interezza, perorando la causa di una realtà totalmente altra e nuova rispetto all'esistente; un'utopia in cui l'ordine preconizzato regnerà nella sua assoluta perfezione. La struttura utopica preconizza lo speculare rovesciamento dell'esistente nell'auspicio che in tale radicale cambiamento il disordine si tramuti in ordine.  


In questo quadro, l'utopica società anarchica appare l'auto-proclamato luogo del bene assoluto (ευ τοπος), che è tratteggiabile solo attraverso lo speculare rovesciamento di ogni male sociale esistente; ma, in quanto puro rovesciamento, è, nel contempo, anche un non luogo (ου τοπος), in quanto la sua realizzazione non solo presuppone bensì necessita l'assunzione (e l'avverarsi) dell'ipotesi indimostrabile per la quale l'essere umano liberato dal dominio sviluppa immediatamente intrinseche capacità autoregolamentative in assenza di ogni istituzione coercitiva. In tal modo, la struttura utopica si lega a quella ideologica, non potendo l'una sorreggersi in assenza dell'altra; infatti, al di fuori di questa ipotesi antropologica (ed in assenza della totale negazione dell'esistente) la società anarchica non potrebbe né precognizzarsi, né, tanto meno, realizzarsi e, quindi, sia pure in altre forme, si perpetuerebbe il dominio dell'uomo sull'uomo.
In questo quadro, l'utopica società anarchica appare l'auto-proclamato luogo del bene assoluto ('''ευ τοπος'''), che è tratteggiabile solo attraverso lo speculare rovesciamento di ogni male sociale esistente; ma, in quanto puro rovesciamento, è, nel contempo, anche un non luogo ('''ου τοπος'''), in quanto la sua realizzazione non solo presuppone bensì necessita l'assunzione (e l'avverarsi) dell'ipotesi indimostrabile per la quale l'essere umano liberato dal dominio sviluppa immediatamente intrinseche capacità autoregolamentative in assenza di ogni istituzione coercitiva. In tal modo, la struttura utopica si lega a quella ideologica, non potendo l'una sorreggersi in assenza dell'altra; infatti, al di fuori di questa ipotesi antropologica (ed in assenza della totale negazione dell'esistente) la società anarchica non potrebbe né precognizzarsi, né, tanto meno, realizzarsi e, quindi, sia pure in altre forme, si perpetuerebbe il dominio dell'uomo sull'uomo.


È stato sottolineato come «Malatesta sintetizza la forma mentis dell’argomentare utopico che, anteponendo sempre il dover essere all’essere, si sottrae al confronto immediato col presente, in quanto critica questo non in rapporto alle sue possibilità reali, ma rispetto ad un ipotetico futuro, cioè con il criterio di un stato di cose totalmente diverso. In altri termini, non privilegia la trasformazione delle possibilità insite nella realtà data, ma le virtualità di un modello teorico così come comanda il dover essere». <ref> Giampietro Berti, ''Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento'', Manduria-Bari-Roma, 1998, p. 437</ref> Pare invece che proprio [[Malatesta]] riesca a cogliere – sia pur parzialmente, ma su questo oltre – l'aporia di un pensare utopico sul quale poggiare la prassi sociale. Infatti, come sopra richiamato, pur animato da una forte tensione morale (il dover essere), egli rifugge dall'idea dello speculare rovesciamento dell’esistente, ma cerca invece di intervenire su questo ritenendo che sia assurdo ed impossibile abbandonare tutto ciò che ha caratterizzato la vita in una società sostanzialmente autoritaria per approdare mondi nella società anarchica. In questo senso, su una parte non irrilevante dell'essere va effettuato un intervento sì critico, ma non per questo distruttivo. Per certi versi, si possono, quindi, intravvedere fra le righe malatestiane intenti dialettici
È stato sottolineato come «Malatesta sintetizza la forma mentis dell’argomentare utopico che, anteponendo sempre il dover essere all’essere, si sottrae al confronto immediato col presente, in quanto critica questo non in rapporto alle sue possibilità reali, ma rispetto ad un ipotetico futuro, cioè con il criterio di un stato di cose totalmente diverso. In altri termini, non privilegia la trasformazione delle possibilità insite nella realtà data, ma le virtualità di un modello teorico così come comanda il dover essere». <ref> Giampietro Berti, ''Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento'', Manduria-Bari-Roma, 1998, p. 437</ref> Pare invece che proprio [[Malatesta]] riesca a cogliere – sia pur parzialmente, ma su questo oltre – l'aporia di un pensare utopico sul quale poggiare la prassi sociale. Infatti, come sopra richiamato, pur animato da una forte tensione morale (il dover essere), egli rifugge dall'idea dello speculare rovesciamento dell’esistente, ma cerca invece di intervenire su questo ritenendo che sia assurdo ed impossibile abbandonare tutto ciò che ha caratterizzato la vita in una società sostanzialmente autoritaria per approdare mondi nella società anarchica. In questo senso, su una parte non irrilevante dell'essere va effettuato un intervento sì critico, ma non per questo distruttivo. Per certi versi, si possono, quindi, intravvedere fra le righe malatestiane intenti dialettici
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