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| | {{Biblioteca/Titolo 2|nome=<big><span style="color:#C11B17">[[Carmelo Bene]]</span></big>|autore=Carmelo Bene|altro=}} |
| {{Biblioteca/Titolo 2|nome=''Fabbrica, scuola di potere''||autore=Murray Bookchin|altro=}} | | [[File:CB pinocchio.jpg|thumb|230px|right|[[Carmelo Bene]] in ''Pinocchio''. |
| [[Image:Bookchin.jpg|right|thumb|[[Murray Bookchin]]]] | | <br><br>– Ma io non voglio fare né arti né mestieri...<br> |
| '''''Fabbrica, scuola di potere''''' è un articolo di [[Murray Bookchin]] in cui viene criticata l'[[scuola|istituzione soclastica]]. L'articolo è stato tratto da ''Interrogations'', n. 17/18, 1979. | | – Perché?<br> |
| | – Perché a lavorare mi par fatica.<br> |
| | – Ragazzo mio quelli che dicono così finiscono quasi sempre o in carcere o all'ospedale. L'uomo, per tua regola, nasca ricco o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall'ozio! L'ozio è una bruttissima malattia e bisogna guarirla subito, fin da ragazzi: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più.]] |
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| «La fabbrica è una [[scuola]] [[gerarchica]], di obbedienza e di comando, non è [[rivoluzionaria]] e liberatoria. Riproduce in ogni momento, in ogni ora, il servilismo del proletariato, e non il suo slancio [[rivoluzionario]] di portata storica. Non impedisce certo che venga ridotto ad oggetto, ma anzi attenta alla sua individualità, alla sua capacità di trascendere i bisogni. Di conseguenza, visto che l'autodeterminazione, l'iniziativa autonoma e l'individualità sono l'essenza stessa della "dimensione della libertà", esse devono essere negate alla "base materiale" della [[società]], per trovare presumibilmente un'affermazione solo nelle sue "sovrastrutture" - almeno fino a quando la fabbrica e le tecniche della produzione [[capitalista]] saranno concepite esclusivamente dal punto di vista tecnico, come elementi connaturali alla produzione.
| | Il [[movimento anarchico]] si è sovente battuto per migliorare le condizioni dei lavoratori ed ha assunto una posizione che è stata definita "nella storia, ma contro la storia". Per Carmelo Bene, invece, la [[libertà]] non è occupazione sul lavoro, bensì affrancamento dal lavoro (già nel [[1953]] [[Guy Debord]] aveva tracciato su un muro della Rue de Seine lo slogan "Ne travaillez jamais"). Al tempo stesso la visione [[anarchica]] [[beniana]] non si pone nella storia, ma al di fuori di essa. Seguono un paio di esempi significativi. |
| Dobbiamo presumere, poi, che questo regno disumanizzante dei bisogni - vagliato da un'"autorità imperiosa" - possa in qualche modo elevare e accrescere la coscienza di classe del lavoratore disumanizzato, trasformandola in una coscienza sociale universale; e che questo operaio, spogliato e privato di ogni individualità da una vita di quotidiano lavoro, possa in qualche modo recuperare l'impegno e la competenza sociali necessari ad un processo [[rivoluzionario]] su vasta scala e alla costruzione di una [[società]] veramente libera, fondata sull'autodeterminazione nel senso più vero del termine. Infine, dobbiamo pensare che questa [[società]] libera possa eliminare la [[gerarchia]] da una parte, mentre la conserva "imperiosa" da un'altra. Portato alla sua logica estrema, il paradosso assume proporzioni assurde. La [[gerarchia]], come una tuta da lavoro, diventa un indumento di cui ci si veste nel "regno della [[libertà]]" per tornare ad indossarlo nel "regno dei bisogni". Come un'altalena, la [[libertà]] oscilla nel punto in cui poniamo il fulcro sociale, magari al centro della tavola, in una determinata "fase" della storia, o più spostata verso l'una o l'altra estremità in un'altra "fase", ma sempre in modo che la misura sia sempre rapportabile alla "giornata lavorativa".
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| Questo fatale paradosso è comune al [[comunismo]] non meno che al [[sindacalismo]]. Ciò che redime quest'ultimo è l'implicita consapevolezza - assai esplicita, invece, nelle opere di [[Charles Fourier]] - della necessità di privare la tecnologia del suo carattere [[gerarchico]] e grigio, monotono, per poter creare una [[società]] libera. Nelle dottrine [[sindacaliste]], tuttavia, questa consapevolezza è spesso distorta dall'accettazione della fabbrica come infrastruttura della nuova società all'interno della vecchia, come paradigma dell'organizzazione della classe operaia e come scuola per l'umanizzazione del proletariato e per la sua mobilitazione come forza sociale rivoluzionaria». [...]
| | :«In quanto [[anarchico]], io rimango fuori dalla tradizione, meglio ancora: fuori dalla storia. Io contesto la storia, la rifiuto. Anzi, ho una profonda nostalgia per la storia che non è stata fatta. Per esempio, se Marco Antonio avesse vinto la battaglia di Azio, nessuno può mettere in dubbio che la storia avrebbe avuto un corso diverso. Ebbene io sono per i corsi che non ci sono stati e per la gente che ha sempre perduto, per quella fetta di umanità che ha sempre subito la storia, senza mai farla» (''Carmelo Bene arriva e dice che non recita!'', ''Corriere della Sera'', [[20 marzo]] [[1974]]). |
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| | :«Al governo c'è una fondamentale mancanza di ingredienti erotici, ci sono delle perversioni senza portafoglio; senza sforzo mi sono sforzato sempre di rappresentare queste cose in un contesto [[anarchico]] squisitamente politico e quando l'operaio vede lo spettacolo deve dire: mi stanno defraudando di una mia carica vitale. Si potrebbe dire: forse domani se saremo [[liberi]] potremo occuparci di noi. Questo è pericoloso! Sputa sulla famiglia, sputa sulla [[patria]], su Dio, sulla madre, sui soldi, sull'anima, sulla [[religione]], su me stesso; i cosiddetti [[anarchici]] sapevano che migliorare il lavoro significava niente, una truffa - qualunque ideologia è una truffa come qualunque prospettiva di lavoro, se poi il lavoro lo vediamo anche in prospettiva... » (''Se il teatro è erotismo non si può dire che Bene'', Anna Maria Papi, ''Il Nuovo'', [[6 luglio]] [[1975]]). |
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