Anarchismo e Politica: La revisione di Berneri (di Stefano d'Errico): differenze tra le versioni

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Ancora scorgiamo il Sisifo del socialismo autoritario ripercorrere pedissequamente le stesse strade, nonostante la storia dimostri senza appello come la dittatura di partito riproduca matematicamente la servitù economica e morale.  
Ancora scorgiamo il Sisifo del socialismo autoritario ripercorrere pedissequamente le stesse strade, nonostante la storia dimostri senza appello come la dittatura di partito riproduca matematicamente la servitù economica e morale.  
Di più, quella “sinistra” è giunta sino alla mutazione genetica: abbiamo visto i post-comunisti attraversare il guado dal bolscevismo al neo-darwinismo sociale in stile liberista. Nulla di strano: lo strumento-guida di questa transizione è la ragion di stato. Scrisse Berneri: “La formula leninista ‘i marxisti vogliono preparare il proletariato alla rivoluzione mettendo a profitto lo Stato moderno‘ è alla base del giacobinismo leninista come del parlamentarismo e del ministerialismo social-riformista”.
Di più, quella “sinistra” è giunta sino alla mutazione genetica: abbiamo visto i post-comunisti attraversare il guado dal bolscevismo al neo-darwinismo sociale in stile liberista. Nulla di strano: lo strumento-guida di questa transizione è la ragion di stato. Scrisse Berneri: “La formula leninista ‘i marxisti vogliono preparare il proletariato alla rivoluzione mettendo a profitto lo Stato moderno‘ è alla base del giacobinismo leninista come del parlamentarismo e del ministerialismo social-riformista”.
Ma non è tutto. Pur esistendo nel mondo una – più o meno consapevole –  “domanda” di anarchismo, a questa non corrisponde “offerta” adeguata. Quel che resta del movimento libertario non riesce da tempo ad esser presente a se stesso a causa della marginalizzazione indotta da un dottrinarismo ossificato. In poche parole, non si può combattere l'autonomia del politico con lo scetticismo elevato a sistema e con l'indifferentismo rispetto alla politica. In primis, occorre un programma, perché per vincere bisogna saper convincere. Inoltre, se la politica deve venire subordinata all'etica, è un richiamo etico pur quello relativo alla responsabilità che chi fa politica deve prendere immancabilmente su di sé. Una responsabilità rispetto alle conseguenze del suo agire sugli altri e sul mondo e non solo riguardo alla propria coscienza. Ergo, il parametro etico di riferimento dovrà veramente essere messo alla prova, riattualizzato, con una rielaborazione il più plurale possibile, oltre gli steccati ed ogni fondamentalismo. Se l'anarchismo è uno strumento di emancipazione, per dimostrare di essere valido non può arroccarsi nei suoi valori in una sorta di autocompiacimento nullista e narcisista. Tutt'altro: non solo deve dimostrare di aver ragione in modo concreto hic et nunc, ma essere anche capace di lavorare per creare le condizioni di una vittoria nello scontro sociale. Non bastano quindi la “buona volontà”, la determinazione del singolo o di piccoli gruppi più o meno “coordinati”. Nello specifico anarchico occorrerebbe un vero soggetto organizzativo di livello internazionale, con un forte senso d'appartenenza però aperto ed orizzontale: un sistema complesso votato a studio, discussione e sperimentazione pratica, che sviluppi relazioni con l'eterogeneo mondo dell'associazionismo e valorizzi le differenze, per creare una vera prospettiva generale. Sarebbe l'ora di una nuova, inclusiva, costituente libertaria.  
Ma non è tutto. Pur esistendo nel mondo una – più o meno consapevole –  “domanda” di anarchismo, a questa non corrisponde “offerta” adeguata. Quel che resta del movimento libertario non riesce da tempo ad esser presente a stesso a causa della marginalizzazione indotta da un dottrinarismo ossificato. In poche parole, non si può combattere l'autonomia del politico con lo scetticismo elevato a sistema e con l'indifferentismo rispetto alla politica. In primis, occorre un programma, perché per vincere bisogna saper convincere. Inoltre, se la politica deve venire subordinata all'etica, è un richiamo etico pur quello relativo alla responsabilità che chi fa politica deve prendere immancabilmente su di sé. Una responsabilità rispetto alle conseguenze del suo agire sugli altri e sul mondo e non solo riguardo alla propria coscienza. Ergo, il parametro etico di riferimento dovrà veramente essere messo alla prova, riattualizzato, con una rielaborazione il più plurale possibile, oltre gli steccati ed ogni fondamentalismo. Se l'anarchismo è uno strumento di emancipazione, per dimostrare di essere valido non può arroccarsi nei suoi valori in una sorta di autocompiacimento nullista e narcisista. Tutt'altro: non solo deve dimostrare di aver ragione in modo concreto hic et nunc, ma essere anche capace di lavorare per creare le condizioni di una vittoria nello scontro sociale. Non bastano quindi la “buona volontà”, la determinazione del singolo o di piccoli gruppi più o meno “coordinati”. Nello specifico anarchico occorrerebbe un vero soggetto organizzativo di livello internazionale, con un forte senso d'appartenenza però aperto ed orizzontale: un sistema complesso votato a studio, discussione e sperimentazione pratica, che sviluppi relazioni con l'eterogeneo mondo dell'associazionismo e valorizzi le differenze, per creare una vera prospettiva generale. Sarebbe l'ora di una nuova, inclusiva, costituente libertaria.  
Riassumendo: la politica è l'arte del possibile e se per i libertari il fine non giustifica i mezzi, essi hanno comunque il dovere di sapersi destreggiare in politica, cosa da non delegare a (presunti) “specialisti”. Ed è qui che interviene Berneri: “Essere col popolo è facile se si tratta di gridare: Viva! Abbasso! Avanti! Viva la rivoluzione! – o se si tratta semplicemente di battersi. Ma arriva il momento in cui tutti domandano: Cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per far da capi, ma perché la folla non se li crei”. Ecco perché il movimento d'emancipazione ha un grande bisogno della riflessione berneriana. Essa avversa quel comunismo da caserma trasformatosi poi in capitalismo di stato e quindi di nuovo in liberismo, ma non fa sconti a nessuno, neppure all'ortodossia anarcoide. Berneri rincorre, “stana” e svela le fobie di quel “ritualismo” che ha reso quasi impotente un movimento altrimenti portatore dei più adeguati “anticorpi” prodotti dall'umanità per contrastare il dominio in tutte le sue forme.
Riassumendo: la politica è l'arte del possibile e se per i libertari il fine non giustifica i mezzi, essi hanno comunque il dovere di sapersi destreggiare in politica, cosa da non delegare a (presunti) “specialisti”. Ed è qui che interviene Berneri: “Essere col popolo è facile se si tratta di gridare: Viva! Abbasso! Avanti! Viva la rivoluzione! – o se si tratta semplicemente di battersi. Ma arriva il momento in cui tutti domandano: Cosa facciamo? Bisogna avere una risposta. Non per far da capi, ma perché la folla non se li crei”. Ecco perché il movimento d'emancipazione ha un grande bisogno della riflessione berneriana. Essa avversa quel comunismo da caserma trasformatosi poi in capitalismo di stato e quindi di nuovo in liberismo, ma non fa sconti a nessuno, neppure all'ortodossia anarcoide. Berneri rincorre, “stana” e svela le fobie di quel “ritualismo” che ha reso quasi impotente un movimento altrimenti portatore dei più adeguati “anticorpi” prodotti dall'umanità per contrastare il dominio in tutte le sue forme.


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==La questione sindacale==
==La questione sindacale==
L'anarcosindacalismo deve avere una propria ben definita autonomia, anche dal movimento specifico. L'anarchismo ha contato di più ove ha assunto una fisionomia anarcosindacalista. L'anarcosindacalismo è una struttura organizzata, prima di tutto composta da lavoratori e ad essi rispondente, con i loro tempi e bisogni. Altrimenti si rischia di rimanere vittime degli stessi mali del movimento, che è il “partito” degli anarchici. Parallelamente, la realtà sindacale libertaria è più “politica” di un movimento che, in assenza di un proprio riferimento di massa, tende fatalmente ad estraniarsi dal mondo reale ed a divenire marginale e rivolto su se stesso. L'anarcosindacalismo, leale interprete dello spirito della Prima Internazionale, deve riportare il sindacato alle sue origini: una struttura indipendente da qualsiasi partito (anche dal movimento libertario in quanto tale), ma non estranea alla politica, dove l'agire politico è fissato nell'alterità della prassi democratica ed orizzontale. In sintesi, il tutto s'incardina nella capacità dei lavoratori in quanto tali, senza “mediazioni” e direttive provenienti da “élites” e guide esterne. Altrimenti non si sarebbe superato il limite naturale del sindacalismo burocratico e “dipendente”: quello della soggezione a forze politiche sedimentate in campo esterno. Il sindacato di partito viene costretto all'inazione e posto a guardia della pace sociale quando la sua forza parlamentare di riferimento ha conquistato il potere e “scatenato” nella “lotta” solo quando questa è all'opposizione. Di contro, la “esternità” delle leve della politica al mondo del lavoro, rappresenta, peraltro, una concezione inaccettabile in campo libertario: l'esistenza di un “limbo” separato ove si maturano le idee-guida, una sorta di piano astratto dove il mondo del lavoro non è vivo e pulsante, ma solo “rappresentato” sul palcoscenico del teatrino della politica (prevalentemente – ma non unicamente – parlamentare). Una deviazione tipica della Seconda Internazionale socialdemocratica e della Terza Internazionale bolscevica, che destina alla forza politica – partito, poi identificato con lo stato – il piano del progetto, lasciando al sindacato al massimo la mera “vertenza” e facendolo succube di strategie maturate esternamente ad esso, così espropriando il mondo del lavoro della propria titolarità politica soprattutto in termini progettuali.
L'anarcosindacalismo deve avere una propria ben definita autonomia, anche dal movimento specifico. L'anarchismo ha contato di più ove ha assunto una fisionomia anarcosindacalista. L'anarcosindacalismo è una struttura organizzata, prima di tutto composta da lavoratori e ad essi rispondente, con i loro tempi e bisogni. Altrimenti si rischia di rimanere vittime degli stessi mali del movimento, che è il “partito” degli anarchici. Parallelamente, la realtà sindacale libertaria è più “politica” di un movimento che, in assenza di un proprio riferimento di massa, tende fatalmente ad estraniarsi dal mondo reale ed a divenire marginale e rivolto su stesso. L'anarcosindacalismo, leale interprete dello spirito della Prima Internazionale, deve riportare il sindacato alle sue origini: una struttura indipendente da qualsiasi partito (anche dal movimento libertario in quanto tale), ma non estranea alla politica, dove l'agire politico è fissato nell'alterità della prassi democratica ed orizzontale. In sintesi, il tutto s'incardina nella capacità dei lavoratori in quanto tali, senza “mediazioni” e direttive provenienti da “élites” e guide esterne. Altrimenti non si sarebbe superato il limite naturale del sindacalismo burocratico e “dipendente”: quello della soggezione a forze politiche sedimentate in campo esterno. Il sindacato di partito viene costretto all'inazione e posto a guardia della pace sociale quando la sua forza parlamentare di riferimento ha conquistato il potere e “scatenato” nella “lotta” solo quando questa è all'opposizione. Di contro, la “esternità” delle leve della politica al mondo del lavoro, rappresenta, peraltro, una concezione inaccettabile in campo libertario: l'esistenza di un “limbo” separato ove si maturano le idee-guida, una sorta di piano astratto dove il mondo del lavoro non è vivo e pulsante, ma solo “rappresentato” sul palcoscenico del teatrino della politica (prevalentemente – ma non unicamente – parlamentare). Una deviazione tipica della Seconda Internazionale socialdemocratica e della Terza Internazionale bolscevica, che destina alla forza politica – partito, poi identificato con lo stato – il piano del progetto, lasciando al sindacato al massimo la mera “vertenza” e facendolo succube di strategie maturate esternamente ad esso, così espropriando il mondo del lavoro della propria titolarità politica soprattutto in termini progettuali.
Il primato dell'etica, diviene quindi preminenza della democrazia di base (prassi organizzativa).  
Il primato dell'etica, diviene quindi preminenza della democrazia di base (prassi organizzativa).  


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==Natura e funzione dello stato: il marxismo come ideologia dell'intellighènzia tecno-burocratica==
==Natura e funzione dello stato: il marxismo come ideologia dell'intellighènzia tecno-burocratica==
La questione dello stato resta centrale. Elementi ormai acclarati, come il fatto che fu lo stato a dare origine alle classi (e non viceversa, come pretendeva Marx), non sono ancora per nulla patrimonio della sinistra. Il sociologo Luciano Gallino accredita oggi le tesi di Gumplowicz (1905), Oppenheimer (1928), Darlington (1969), secondo le quali le classi sociali hanno origine alla “conquista violenta di un paese da parte di un popolo straniero, o alla costituzione forzata di un'organizzazione statale. (...) In molti paesi all'origine della divisione in classi sociali v'è un'espansione di tipo coloniale, da parte non soltanto della razza bianca ma anche dei cinesi, degli indiani, dei malesi, degli arabi e di varie stirpi africane, a spese di locali popoli primitivi”. Berneri, confortato dalla posizione anarchica, era della stessa idea: “Gli anarchici si differenziano dai marxisti nel considerare lo Stato non come un organo interclassista bensì come un organo di classe. Secondo Marx-Engels, lo Stato sarebbe sorto quando già si erano formate le classi. Questa concezione, che costituisce un ritorno alla filosofia del diritto naturale di Hobbes, è respinta dagli anarchici, che considerano il potere politico come il generatore principale delle classi, e da questa concezione storica inducono che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non dell'estinzione del capitalismo”. Il lodigiano segnalava – citandolo – che persino secondo il [[socialista]] Labriola, lo studio scientifico della genesi del capitalismo: “conferisce un carattere di realismo veramente insospettato alle tesi anarchistiche sull'abolizione dello Stato. Sembra infatti assai più probabile l'estinzione del capitalismo per effetto dell'estinzione dello Stato, che non l'estinzione dello Stato per effetto dell'estinzione del capitalismo”.  
La questione dello stato resta centrale. Elementi ormai acclarati, come il fatto che fu lo stato a dare origine alle classi (e non viceversa, come pretendeva Marx), non sono ancora per nulla patrimonio della sinistra. Il sociologo Luciano Gallino accredita oggi le tesi di Gumplowicz (1905), Oppenheimer (1928), Darlington (1969), secondo le quali le classi sociali hanno origine alla “conquista violenta di un paese da parte di un popolo straniero, o alla costituzione forzata di un'organizzazione statale. (...) In molti paesi all'origine della divisione in classi sociali v'è un'espansione di tipo coloniale, da parte non soltanto della razza bianca ma anche dei cinesi, degli indiani, dei malesi, degli arabi e di varie stirpi africane, a spese di locali popoli primitivi”. Berneri, confortato dalla posizione anarchica, era della stessa idea: “Gli anarchici si differenziano dai marxisti nel considerare lo Stato non come un organo interclassista bensì come un organo di classe. Secondo Marx-Engels, lo Stato sarebbe sorto quando già si erano formate le classi. Questa concezione, che costituisce un ritorno alla filosofia del diritto naturale di Hobbes, è respinta dagli anarchici, che considerano il potere politico come il generatore principale delle classi, e da questa concezione storica inducono che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non dell'estinzione del capitalismo”. Il lodigiano segnalava – citandolo – che persino secondo il [[socialista]] Labriola, lo studio scientifico della genesi del capitalismo: “conferisce un carattere di realismo veramente insospettato alle tesi anarchistiche sull'abolizione dello Stato. Sembra infatti assai più probabile l'estinzione del capitalismo per effetto dell'estinzione dello Stato, che non l'estinzione dello Stato per effetto dell'estinzione del capitalismo”.  
Berneri non contesta tanto l'analisi economica di Marx, quanto quella politica, denunciandone l'astrattezza idealistica che fa da brodo di coltura per la creazione di nuove forme di dominio, perché lo stato, come già affermava Bakunin, è un apparato che non può smentire se stesso. La vera “utopia” negativa sta quindi nella convinzione che la statualità possa essere utilizzata per poi praticamente “estinguersi motu proprio” ed il vero “revisionismo” (presente in nuce nel marxismo) sta nell'affermare tale possibilità. La sinistra tardo-comunista guarda invece ancora attonita il capitalismo di stato cinese e – dopo analoga fine per tutto il restante socialismo “surreale” – non sa far altro che balbettare giaculatorie sul presunto “tradimento” degli ideali di Mao (quindi non muove una paglia per il Tibet ed il Darfur: eppure già la crisi del sistema sovietico avrebbe dovuto insegnare che lo statalismo è parente strettissimo dell'imperialismo e dell'etnocentrismo).  
Berneri non contesta tanto l'analisi economica di Marx, quanto quella politica, denunciandone l'astrattezza idealistica che fa da brodo di coltura per la creazione di nuove forme di dominio, perché lo stato, come già affermava Bakunin, è un apparato che non può smentire stesso. La vera “utopia” negativa sta quindi nella convinzione che la statualità possa essere utilizzata per poi praticamente “estinguersi motu proprio” ed il vero “revisionismo” (presente in nuce nel marxismo) sta nell'affermare tale possibilità. La sinistra tardo-comunista guarda invece ancora attonita il capitalismo di stato cinese e – dopo analoga fine per tutto il restante socialismo “surreale” – non sa far altro che balbettare giaculatorie sul presunto “tradimento” degli ideali di Mao (quindi non muove una paglia per il Tibet ed il Darfur: eppure già la crisi del sistema sovietico avrebbe dovuto insegnare che lo statalismo è parente strettissimo dell'imperialismo e dell'etnocentrismo).  
Berneri anticipa la denuncia di un vero e proprio collettivismo burocratico, sul tipo di quello analizzato a cominciare dal 1937 da Bruno Rizzi, quando le dinamiche del sistema bolscevico erano già ben evidenti. L'ancora ignoto Rizzi – transfugo della IV Internazionale in polemica diretta con Trotskij che non gli perdonava la definizione di capitalismo di stato per il regime sovietico – è l'unico in campo marxista ad aver identificato la vera natura dell'URSS. Si parla di quella tecnoburocrazia poi chiaramente identificata in campo anarchico con lo studio degli anni '70 sui nuovi padroni (intellighènzia dell'apparato statale e di partito ed aristocrazia operaia).  
Berneri anticipa la denuncia di un vero e proprio collettivismo burocratico, sul tipo di quello analizzato a cominciare dal 1937 da Bruno Rizzi, quando le dinamiche del sistema bolscevico erano già ben evidenti. L'ancora ignoto Rizzi – transfugo della IV Internazionale in polemica diretta con Trotskij che non gli perdonava la definizione di capitalismo di stato per il regime sovietico – è l'unico in campo marxista ad aver identificato la vera natura dell'URSS. Si parla di quella tecnoburocrazia poi chiaramente identificata in campo anarchico con lo studio degli anni '70 sui nuovi padroni (intellighènzia dell'apparato statale e di partito ed aristocrazia operaia).  
Nessuna scuola che si richiami al marxismo – neanche quelle più critiche verso il “socialismo reale” – ha mai riconosciuto l'esistenza del capitalismo di stato: una bestemmia per i seguaci dell'autore de Il capitale. Ma questa chiusura ideologica impedisce, ad esempio, di capire le dinamiche delle grandi privatizzazioni. Ad Ovest, la guerra fredda aveva favorito il welfare e riforme di struttura che hanno consentito lo sviluppo del potere dei boiardi di stato, ceto moltiplicato peraltro dallo statalismo fascista e delle socialdemocrazie. Caduto il muro e scongiurato il "pericolo comunista", la marcia è stata invertita facendo rotta sul liberismo totale e la cosa pubblica è diventata business, con un occhio di riguardo per i burocrati che la gestivano. Esattamente come ad Est, ove le strutture economiche e di servizio di quelli che furono "stati socialisti" sono oggi proprietà dei “camaleonti” che già le dirigevano e le sfruttavano "in nome e per conto di tutti".
Nessuna scuola che si richiami al marxismo – neanche quelle più critiche verso il “socialismo reale” – ha mai riconosciuto l'esistenza del capitalismo di stato: una bestemmia per i seguaci dell'autore de Il capitale. Ma questa chiusura ideologica impedisce, ad esempio, di capire le dinamiche delle grandi privatizzazioni. Ad Ovest, la guerra fredda aveva favorito il welfare e riforme di struttura che hanno consentito lo sviluppo del potere dei boiardi di stato, ceto moltiplicato peraltro dallo statalismo fascista e delle socialdemocrazie. Caduto il muro e scongiurato il "pericolo comunista", la marcia è stata invertita facendo rotta sul liberismo totale e la cosa pubblica è diventata business, con un occhio di riguardo per i burocrati che la gestivano. Esattamente come ad Est, ove le strutture economiche e di servizio di quelli che furono "stati socialisti" sono oggi proprietà dei “camaleonti” che già le dirigevano e le sfruttavano "in nome e per conto di tutti".
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Ed ecco di nuovo la critica del “semplicismo” di Kropotkin, inaccettabile per Berneri e da lui chiamato ancora in causa a proposito di un'ennesima, malintesa “santificazione” dell'azione popolare: “Il «Mir» con i suoi anacronismi, il Comune medioevale autoritario nella sua intima struttura, l'anarchismo comunalista delle masse popolari della Rivoluzione francese, gli apparivano, giustamente, forze innovatrici libertarie, moderne, in funzione storica di anti-Stato. Ma quando si trasportò sul terreno politico e guardò all'avvenire, Kropotkin sublimò le masse. Crollato lo stato, ci vuole una potenza ricostruttrice che ne riprenda e ne perfezioni le funzioni vitali, pubbliche. Kropotkin (la) sostituì (con): l'iniziativa popolare. Questo genio collettivo, questa volontà proteiforme ed armonica insieme, non ha soste e ricorsi. È satura di anarchismo. Gli anarchici posson confondersi in essa, che non fa che moltiplicare i loro sforzi, non fa che attuare le loro idee. Tutt'al più non c'è che da levare in alto una bandiera, da additare qualche ostacolo o lanciare una idea. Tutt'al più non c'è che da respingere il tentativo dei giacobini di pilotare l'azione popolare" (...).  
Ed ecco di nuovo la critica del “semplicismo” di Kropotkin, inaccettabile per Berneri e da lui chiamato ancora in causa a proposito di un'ennesima, malintesa “santificazione” dell'azione popolare: “Il «Mir» con i suoi anacronismi, il Comune medioevale autoritario nella sua intima struttura, l'anarchismo comunalista delle masse popolari della Rivoluzione francese, gli apparivano, giustamente, forze innovatrici libertarie, moderne, in funzione storica di anti-Stato. Ma quando si trasportò sul terreno politico e guardò all'avvenire, Kropotkin sublimò le masse. Crollato lo stato, ci vuole una potenza ricostruttrice che ne riprenda e ne perfezioni le funzioni vitali, pubbliche. Kropotkin (la) sostituì (con): l'iniziativa popolare. Questo genio collettivo, questa volontà proteiforme ed armonica insieme, non ha soste e ricorsi. È satura di anarchismo. Gli anarchici posson confondersi in essa, che non fa che moltiplicare i loro sforzi, non fa che attuare le loro idee. Tutt'al più non c'è che da levare in alto una bandiera, da additare qualche ostacolo o lanciare una idea. Tutt'al più non c'è che da respingere il tentativo dei giacobini di pilotare l'azione popolare" (...).  
Berneri vuole un progetto chiaro, capace di indicare concretamente la strada dell'organizzazione sociale dopo la rivoluzione, mentre i piattaformisti continuano ad affidarsi al cosiddetto “spirito costruttivo delle masse”. Queste sono paradossali analogie con l'impostazione kropotkiniana. Ma, meglio ancora sarebbe il dire che si tratta di indubbie influenze consigliariste (marxiste nella forma e populiste nella sostanza):  “Kropotkin, storiografo ed etnologo, vide, in potenza, l'anarchismo integrale nell'anarchismo relativo delle masse in rivolta o nelle masse viventi fuori dell'orbita statale. Con ingenuo ottimismo proiettò il secondo nella rivoluzione sociale avvenire, e credette che tutto dovesse svolgersi non per una serie di esperienze, più o meno fortunate, ma per un «fiat»" (...).   
Berneri vuole un progetto chiaro, capace di indicare concretamente la strada dell'organizzazione sociale dopo la rivoluzione, mentre i piattaformisti continuano ad affidarsi al cosiddetto “spirito costruttivo delle masse”. Queste sono paradossali analogie con l'impostazione kropotkiniana. Ma, meglio ancora sarebbe il dire che si tratta di indubbie influenze consigliariste (marxiste nella forma e populiste nella sostanza):  “Kropotkin, storiografo ed etnologo, vide, in potenza, l'anarchismo integrale nell'anarchismo relativo delle masse in rivolta o nelle masse viventi fuori dell'orbita statale. Con ingenuo ottimismo proiettò il secondo nella rivoluzione sociale avvenire, e credette che tutto dovesse svolgersi non per una serie di esperienze, più o meno fortunate, ma per un «fiat»" (...).   
In ultima analisi, la necessità di un'organizzazione strutturata viene vista da Berneri come ineludibile, ma a patto che sia utile all'elaborazione di un progetto serio, non l'ennesimo appiattimento strategico di natura ideologica, che non è capace di differenziare la tattica relativamente alle esigenze. Il lodigiano vuole di più di un organismo strutturato, vuole che la capacità di intervenire in modo sincronico derivi da elaborazioni ed acquisizioni convinte, non da un semplice ed inutile conformismo di partito fine a se stesso. Per questo, nel piattaformismo, critica la "tattica unica": "(...) Bisogna uscire dal romanticismo. Vedere le masse in modo, direi, prospettico. Non c'è il popolo, omogeneo, ma folle varie, categorie. Non c'è la volontà rivoluzionaria delle masse, ma momenti rivoluzionari, nei quali le masse sono enormi leve. (...) «Tattica unica» vuol dire tattica uniforme e continua. Alla «tattica unica» la «Piattaforma» è portata dalla semplificazione del problema dell'azione anarchica in seno alla rivoluzione. Se vogliamo arrivare ad una revisione potenziatrice della nostra non piccola forza rivoluzionaria, bisogna che sbarazziamo il terreno dagli apriorismi ideologici e dal comodo rimandare al domani l'impostazione dei problemi tattici e ricostruttivi. Dico ricostruttivi perché è nelle tendenze conservatrici delle masse il pericolo maggiore dell'arresto e delle deviazioni della rivoluzione" (...).
In ultima analisi, la necessità di un'organizzazione strutturata viene vista da Berneri come ineludibile, ma a patto che sia utile all'elaborazione di un progetto serio, non l'ennesimo appiattimento strategico di natura ideologica, che non è capace di differenziare la tattica relativamente alle esigenze. Il lodigiano vuole di più di un organismo strutturato, vuole che la capacità di intervenire in modo sincronico derivi da elaborazioni ed acquisizioni convinte, non da un semplice ed inutile conformismo di partito fine a stesso. Per questo, nel piattaformismo, critica la "tattica unica": "(...) Bisogna uscire dal romanticismo. Vedere le masse in modo, direi, prospettico. Non c'è il popolo, omogeneo, ma folle varie, categorie. Non c'è la volontà rivoluzionaria delle masse, ma momenti rivoluzionari, nei quali le masse sono enormi leve. (...) «Tattica unica» vuol dire tattica uniforme e continua. Alla «tattica unica» la «Piattaforma» è portata dalla semplificazione del problema dell'azione anarchica in seno alla rivoluzione. Se vogliamo arrivare ad una revisione potenziatrice della nostra non piccola forza rivoluzionaria, bisogna che sbarazziamo il terreno dagli apriorismi ideologici e dal comodo rimandare al domani l'impostazione dei problemi tattici e ricostruttivi. Dico ricostruttivi perché è nelle tendenze conservatrici delle masse il pericolo maggiore dell'arresto e delle deviazioni della rivoluzione" (...).
Se vi fossero ancor dubbi, va detto che è semmai proprio rispetto al profilo organizzativo che Berneri non usa mai mezzi termini. Contrariato dal timore reverenziale di tanti anarchici, avversi per partito preso alla strutturazione del movimento, la ritiene, al contrario, del tutto necessaria.
Se vi fossero ancor dubbi, va detto che è semmai proprio rispetto al profilo organizzativo che Berneri non usa mai mezzi termini. Contrariato dal timore reverenziale di tanti anarchici, avversi per partito preso alla strutturazione del movimento, la ritiene, al contrario, del tutto necessaria.


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==Il revisionismo marxista==
==Il revisionismo marxista==
Berneri sviluppa un'altra delle vecchie questioni indicate da Bakunin. Puntando tutto sull'economico e considerando la cultura come “sovrastrutturale”, il potere sarà ancora una volta nelle mani di epigoni borghesi, naturali detentori degli arnesi del sapere atti a gestire la cosa pubblica, o dell'aristocrazia operaia, patrimonio quindi di un nuovo ceto tecnoburocratico giunto a dominare grazie all'infingimento della dittatura “proletaria”. In sostanza, non basta abolire la proprietà privata, se si crea una nuova struttura di dominio (connaturata allo stato), perché, tramite il monopolio del sapere, rimarrà il monopolio della conduzione del bene pubblico, amministrato da pochi sebbene nel nome di tutti. Evidentemente, il monopolio, anche economico, nelle mani dello stato, e la dittatura del partito unico rendono impossibile lo sviluppo della società in senso autogestionario: “Egualmente formalista è l'affermazione della necessità di un massimo concentramento del potere economico e politico dello Stato, come se il massimo concentramento avesse di per se stesso potere regolatore, virtù d'innovazione positiva, e non fosse, invece, il massimo accentramento statale passibile di dare una progressione geometrica agli errori dei governanti” (...).
Berneri sviluppa un'altra delle vecchie questioni indicate da Bakunin. Puntando tutto sull'economico e considerando la cultura come “sovrastrutturale”, il potere sarà ancora una volta nelle mani di epigoni borghesi, naturali detentori degli arnesi del sapere atti a gestire la cosa pubblica, o dell'aristocrazia operaia, patrimonio quindi di un nuovo ceto tecnoburocratico giunto a dominare grazie all'infingimento della dittatura “proletaria”. In sostanza, non basta abolire la proprietà privata, se si crea una nuova struttura di dominio (connaturata allo stato), perché, tramite il monopolio del sapere, rimarrà il monopolio della conduzione del bene pubblico, amministrato da pochi sebbene nel nome di tutti. Evidentemente, il monopolio, anche economico, nelle mani dello stato, e la dittatura del partito unico rendono impossibile lo sviluppo della società in senso autogestionario: “Egualmente formalista è l'affermazione della necessità di un massimo concentramento del potere economico e politico dello Stato, come se il massimo concentramento avesse di per stesso potere regolatore, virtù d'innovazione positiva, e non fosse, invece, il massimo accentramento statale passibile di dare una progressione geometrica agli errori dei governanti” (...).
Per Berneri, che lo stato sia la causa scatenante delle classi: “appare evidente dagli studi degli stessi marxisti quando siano degli studi seri, come quello di Paul Louis su Le travail dans le monde romain (Parigi 1912). Da questo libro risulta chiaramente che il ceto capitalista romano si è formato come parassita dello Stato. Dai generali predoni ai governatori, dagli agenti delle imposte alle famiglie degli argentari, dagli impiegati della dogana ai fornitori dell'esercito, la borghesia romana si crea mediante la guerra, l'intervenzionismo statale nell'economia, il fiscalismo statale, ecc., ben più che altrimenti. E se esaminiamo l'interdipendenza tra lo Stato e il capitalismo, vediamo che il secondo ha largamente profittato del primo per interessi statali e non nettamente capitalistici. Tanto è vero questo, che lo sviluppo dello Stato precede lo sviluppo del capitalismo. L'Impero Romano era già un organismo vastissimo e complesso quando il capitalismo romano era ancora alla gestione familiare. Paul Louis, non esita a proclamare: ‘Il capitalismo antico è nato dalla guerra‘. I primi capitalisti furono, infatti, i generali ed i pubblicani. Tutta la storia della formazione delle fortune è storia nella quale è presente lo Stato. È da questa convinzione che lo Stato è stato ed è il padre del capitalismo e non soltanto il suo alleato naturale che noi deriviamo la convinzione che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non della disparizione delle classi e della non-rinascita di esse (...).
Per Berneri, che lo stato sia la causa scatenante delle classi: “appare evidente dagli studi degli stessi marxisti quando siano degli studi seri, come quello di Paul Louis su Le travail dans le monde romain (Parigi 1912). Da questo libro risulta chiaramente che il ceto capitalista romano si è formato come parassita dello Stato. Dai generali predoni ai governatori, dagli agenti delle imposte alle famiglie degli argentari, dagli impiegati della dogana ai fornitori dell'esercito, la borghesia romana si crea mediante la guerra, l'intervenzionismo statale nell'economia, il fiscalismo statale, ecc., ben più che altrimenti. E se esaminiamo l'interdipendenza tra lo Stato e il capitalismo, vediamo che il secondo ha largamente profittato del primo per interessi statali e non nettamente capitalistici. Tanto è vero questo, che lo sviluppo dello Stato precede lo sviluppo del capitalismo. L'Impero Romano era già un organismo vastissimo e complesso quando il capitalismo romano era ancora alla gestione familiare. Paul Louis, non esita a proclamare: ‘Il capitalismo antico è nato dalla guerra‘. I primi capitalisti furono, infatti, i generali ed i pubblicani. Tutta la storia della formazione delle fortune è storia nella quale è presente lo Stato. È da questa convinzione che lo Stato è stato ed è il padre del capitalismo e non soltanto il suo alleato naturale che noi deriviamo la convinzione che la distruzione dello Stato è la conditio sine qua non della disparizione delle classi e della non-rinascita di esse (...).
Il lodigiano si scontra violentemente con il bolscevismo, considerando insieme impropri e mortali per il movimento [[socialista]] l'eliminazione del pluralismo ed il dominio del partito unico. Cosa che non perdona a Lenin e a Stalin, ma neppure a Trotskij, condannandone l'involuzione militarista e la disinvoltura politica: “Trotsky in atteggiamento di san Giorgio in lotta con il drago stalinista non può fare dimenticare il Trotsky di Kronstadt” (...).  
Il lodigiano si scontra violentemente con il bolscevismo, considerando insieme impropri e mortali per il movimento [[socialista]] l'eliminazione del pluralismo ed il dominio del partito unico. Cosa che non perdona a Lenin e a Stalin, ma neppure a Trotskij, condannandone l'involuzione militarista e la disinvoltura politica: “Trotsky in atteggiamento di san Giorgio in lotta con il drago stalinista non può fare dimenticare il Trotsky di Kronstadt” (...).  
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Per il lodigiano, sono sbagliate ed ingiuste le discriminazioni aprioristiche anche contro il ceto medio e medio-basso: “(...) La realtà è la classe sfaccettata in ceti, la classe eterogenea socialmente e psicologicamente” (...).
Per il lodigiano, sono sbagliate ed ingiuste le discriminazioni aprioristiche anche contro il ceto medio e medio-basso: “(...) La realtà è la classe sfaccettata in ceti, la classe eterogenea socialmente e psicologicamente” (...).
“Tutti gli uomini hanno bisogno di essere redenti da altri e da sé stessi. Il proletariato è stato, è e sarà più che mai il fattore storico di questa universale emancipazione. Ma lo sarà tanto più quanto meno sarà fuorviato dalla demagogia che lo indora e ne diffida, che lo dice Dio per trattarlo da pecora, che gli pone sul capo una corona di cartapesta e lo lusinga perfidiosamente per conservare, o per conquistare, su di lui il dominio” (...).
“Tutti gli uomini hanno bisogno di essere redenti da altri e da sé stessi. Il proletariato è stato, è e sarà più che mai il fattore storico di questa universale emancipazione. Ma lo sarà tanto più quanto meno sarà fuorviato dalla demagogia che lo indora e ne diffida, che lo dice Dio per trattarlo da pecora, che gli pone sul capo una corona di cartapesta e lo lusinga perfidiosamente per conservare, o per conquistare, su di lui il dominio” (...).
Per il lodigiano, il marxismo diviene parodia di se stesso quando, con presunta “scientificità”, condiziona lo sviluppo umano allo sviluppo dell'industrialesimo: “(...) la teoria della concentrazione del capitale si ridurrebbe ad un errore teorico che non intaccherebbe la solidità del marxismo se non avesse assunto, nella forma rivoluzionaria, il valore della previsione: separazione profonda tra le classi e conseguente cozzo finale (...); nella forma social-democratica, della previsione: conquista completa dello Stato da parte del proletariato per mezzo del parlamento. Quest'ultima previsione da tempo non ha ripercussione politica notevole, ma la prima si è trasformata in quella idolatria della grande industria come condizione necessaria del socialismo” (...).  
Per il lodigiano, il marxismo diviene parodia di stesso quando, con presunta “scientificità”, condiziona lo sviluppo umano allo sviluppo dell'industrialesimo: “(...) la teoria della concentrazione del capitale si ridurrebbe ad un errore teorico che non intaccherebbe la solidità del marxismo se non avesse assunto, nella forma rivoluzionaria, il valore della previsione: separazione profonda tra le classi e conseguente cozzo finale (...); nella forma social-democratica, della previsione: conquista completa dello Stato da parte del proletariato per mezzo del parlamento. Quest'ultima previsione da tempo non ha ripercussione politica notevole, ma la prima si è trasformata in quella idolatria della grande industria come condizione necessaria del socialismo” (...).  
Tale convinzione, che ha fatto del marxismo una “energia collaterale” nell'opera di spoliazione delle società cosiddette “primitive” (e non statali) e nella devastazione dell'ambiente, ha esportato anche a sinistra il mito del produttivismo, finendo, col bolscevismo e lo stalinismo, alla ben nota farsa consistita nell'esaltazione dello stakanovismo.  
Tale convinzione, che ha fatto del marxismo una “energia collaterale” nell'opera di spoliazione delle società cosiddette “primitive” (e non statali) e nella devastazione dell'ambiente, ha esportato anche a sinistra il mito del produttivismo, finendo, col bolscevismo e lo stalinismo, alla ben nota farsa consistita nell'esaltazione dello stakanovismo.  


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==Il valore della cultura==
==Il valore della cultura==
La cultura, peraltro, ha per lui un valore quasi assoluto. Ma non certo in quanto mero esercizio di enciclopedismo elitario e dimostrativo fine a se stesso, la qual cosa Berneri rifugge a tal punto da farne oggetto di analisi impietose e persino inutilmente autocritiche (sorta di “esorcismi” volti a definire prioritariamente un ruolo militante che prevale nettamente sul suo essere intellettuale). La sua preoccupazione è quella di differenziarsi dallo stile del “pensatore solitario” chiuso in una torre d'avorio che, con una critica speciosa ed onnicomprensiva, naufraga infine nel puro scetticismo.
La cultura, peraltro, ha per lui un valore quasi assoluto. Ma non certo in quanto mero esercizio di enciclopedismo elitario e dimostrativo fine a stesso, la qual cosa Berneri rifugge a tal punto da farne oggetto di analisi impietose e persino inutilmente autocritiche (sorta di “esorcismi” volti a definire prioritariamente un ruolo militante che prevale nettamente sul suo essere intellettuale). La sua preoccupazione è quella di differenziarsi dallo stile del “pensatore solitario” chiuso in una torre d'avorio che, con una critica speciosa ed onnicomprensiva, naufraga infine nel puro scetticismo.
Cultura e pratica d'analisi sono per Berneri indispensabili alla maturazione della coscienza e della capacità dell'organizzazione libertaria, ed è per questo che mostra di aborrire l'ideologismo, statico e immutabile: “Un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrina) e non può dare ai principi che un valore relativo” (...). Il lodigiano non sopporta la superficialità raffazzonata ed invasata dei neofiti e la sicumera di alcuni dottrinari dell'anarchismo: “Noi siamo sprovvisti di coscienza politica nel senso che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda. Siamo avveniristi, e basta. Il fatto che ci sono editori nostri che continuano a ristampare gli scritti dei maestri senza mai aggiornarli con note critiche, dimostra che la nostra cultura e la nostra propaganda sono in mano a gente che mira a tenere in piedi la propria azienda, invece che a spingere il movimento ad uscire dal già pensato per sforzarsi nella critica, cioè nel pensabile. Il fatto che vi sono dei polemisti che cercano di imbottigliare l'avversario invece di cercare la verità, dimostra che fra noi ci sono dei massoni, in senso intellettuale. Aggiungiamo i grafomani pei quali l'articolo è uno sfogo o una vanità ed avremo un complesso di elementi che intralciano il lavorio di rinnovamento iniziato da un pugno di indipendenti che danno a sperar bene.
Cultura e pratica d'analisi sono per Berneri indispensabili alla maturazione della coscienza e della capacità dell'organizzazione libertaria, ed è per questo che mostra di aborrire l'ideologismo, statico e immutabile: “Un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrina) e non può dare ai principi che un valore relativo” (...). Il lodigiano non sopporta la superficialità raffazzonata ed invasata dei neofiti e la sicumera di alcuni dottrinari dell'anarchismo: “Noi siamo sprovvisti di coscienza politica nel senso che non abbiamo consapevolezza dei problemi attuali e continuiamo a diluire soluzioni acquisite dalla nostra letteratura di propaganda. Siamo avveniristi, e basta. Il fatto che ci sono editori nostri che continuano a ristampare gli scritti dei maestri senza mai aggiornarli con note critiche, dimostra che la nostra cultura e la nostra propaganda sono in mano a gente che mira a tenere in piedi la propria azienda, invece che a spingere il movimento ad uscire dal già pensato per sforzarsi nella critica, cioè nel pensabile. Il fatto che vi sono dei polemisti che cercano di imbottigliare l'avversario invece di cercare la verità, dimostra che fra noi ci sono dei massoni, in senso intellettuale. Aggiungiamo i grafomani pei quali l'articolo è uno sfogo o una vanità ed avremo un complesso di elementi che intralciano il lavorio di rinnovamento iniziato da un pugno di indipendenti che danno a sperar bene.
(...) È l'ora di finirla coi farmacisti dalle formulette complicate, che non vedono più in là dei loro barattoli pieni di fumo; è l'ora di finirla coi chiacchieroni che ubriacano il pubblico di belle frasi risonanti; è l'ora di finirla con i semplicisti, che hanno tre o quattro idee inchiodate nella testa e fanno da vestali al fuoco fatuo dell'Ideale distribuendo scomuniche” (...).
(...) È l'ora di finirla coi farmacisti dalle formulette complicate, che non vedono più in là dei loro barattoli pieni di fumo; è l'ora di finirla coi chiacchieroni che ubriacano il pubblico di belle frasi risonanti; è l'ora di finirla con i semplicisti, che hanno tre o quattro idee inchiodate nella testa e fanno da vestali al fuoco fatuo dell'Ideale distribuendo scomuniche” (...).
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La sua è, anche in economia, un forma complessa di socialismo libertario (“socialista libertario come lo sono io”) (...), che parte dal piano più semplice per giungere ad una realtà più ramificata (ma mai piramidale), più “equitaria” che pianificatoria. Parlando della Prima Internazionale in Italia, ed usando la cosa per chiarire il suo pensiero, Berneri scrive: “«Il socialismo non ha ancora detto la sua ultima parola; ma esso non nega ogni proprietà individuale. Come lo potrebbe, se combatte la proprietà individuale (leggi: capitalista) del suolo, per la necessità che ogni individuo abbia un diritto assoluto di proprietà su ciò che ha prodotto? Come lo potrebbe se l'assioma ‘chi lavora ha diritto ai frutti del suo lavoro‘, costituisce una delle basi fondamentali delle nuove teorie sociali?'» (...) In questa risposta del Friscia è netta l'opposizione della proprietà per tutti alla proprietà monopolistica di alcuni; il principio dell'eguaglianza relativa (economica); ed infine il principio dello stimolo al lavoro rappresentato dalla ricompensa proporzionata, automaticamente, alle opere” (...). L'accento è posto sia su una democrazia diretta da realizzarsi prioritariamente in sede locale (pur contemperata dall'opera di salvaguardia solidaristica e di controllo di altre entità di tipo regionale e nazionale), che sull'attenzione allo sviluppo autonomo dei membri della collettività (cosa determinante per la stessa).  
La sua è, anche in economia, un forma complessa di socialismo libertario (“socialista libertario come lo sono io”) (...), che parte dal piano più semplice per giungere ad una realtà più ramificata (ma mai piramidale), più “equitaria” che pianificatoria. Parlando della Prima Internazionale in Italia, ed usando la cosa per chiarire il suo pensiero, Berneri scrive: “«Il socialismo non ha ancora detto la sua ultima parola; ma esso non nega ogni proprietà individuale. Come lo potrebbe, se combatte la proprietà individuale (leggi: capitalista) del suolo, per la necessità che ogni individuo abbia un diritto assoluto di proprietà su ciò che ha prodotto? Come lo potrebbe se l'assioma ‘chi lavora ha diritto ai frutti del suo lavoro‘, costituisce una delle basi fondamentali delle nuove teorie sociali?'» (...) In questa risposta del Friscia è netta l'opposizione della proprietà per tutti alla proprietà monopolistica di alcuni; il principio dell'eguaglianza relativa (economica); ed infine il principio dello stimolo al lavoro rappresentato dalla ricompensa proporzionata, automaticamente, alle opere” (...). L'accento è posto sia su una democrazia diretta da realizzarsi prioritariamente in sede locale (pur contemperata dall'opera di salvaguardia solidaristica e di controllo di altre entità di tipo regionale e nazionale), che sull'attenzione allo sviluppo autonomo dei membri della collettività (cosa determinante per la stessa).  
Il lodigiano coglie con preveggenza il problema e la sfida che rappresenta per il movimento rivoluzionario l'imporsi di una società complessa con un'enorme moltiplicazione dei beni, ove la questione di una nuova qualità della vita non può venire affrontata deterministicamente con un sistema chiuso. Egli considera “utopistica ogni pretesa di ridurre la produzione ad una sola forma”, individuale od associata (...). I meccanismi della partecipazione, l'organizzazione del lavoro, come già la diffusione della cultura, sono prioritari nella sua riflessione, in un interrogarsi che non ammette deroghe inclini al “sic et simpliciter” e ad assolutizzazioni ideologiche. Una riflessione che non dà mai nulla per scontato.  
Il lodigiano coglie con preveggenza il problema e la sfida che rappresenta per il movimento rivoluzionario l'imporsi di una società complessa con un'enorme moltiplicazione dei beni, ove la questione di una nuova qualità della vita non può venire affrontata deterministicamente con un sistema chiuso. Egli considera “utopistica ogni pretesa di ridurre la produzione ad una sola forma”, individuale od associata (...). I meccanismi della partecipazione, l'organizzazione del lavoro, come già la diffusione della cultura, sono prioritari nella sua riflessione, in un interrogarsi che non ammette deroghe inclini al “sic et simpliciter” e ad assolutizzazioni ideologiche. Una riflessione che non dà mai nulla per scontato.  
In sostanza, Berneri indaga a tutto campo e “senza rete”, mettendo in crisi tutti i dogmi del socialismo. Di se stesso scrive: “Ho abbandonato il movimento [[socialista]] perché continuamente mi sentivo dare dell'anarchico; entrato nel movimento anarchico mi sono fatto la fama di repubblicano federalista. Quello che è certo è che sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. I dissensi vertono su questi punti: la generalità degli anarchici è atea ed io sono agnostico; è comunista ed io sono [[liberista]] (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali); è anti-autoritaria in modo individualista ed io sono semplicemente autonomista-federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo)” (...).  
In sostanza, Berneri indaga a tutto campo e “senza rete”, mettendo in crisi tutti i dogmi del socialismo. Di stesso scrive: “Ho abbandonato il movimento [[socialista]] perché continuamente mi sentivo dare dell'anarchico; entrato nel movimento anarchico mi sono fatto la fama di repubblicano federalista. Quello che è certo è che sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. I dissensi vertono su questi punti: la generalità degli anarchici è atea ed io sono agnostico; è comunista ed io sono [[liberista]] (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali); è anti-autoritaria in modo individualista ed io sono semplicemente autonomista-federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal Sovietismo)” (...).  
“In sede politica, il federalismo repubblicano di Cattaneo e del Ferrari mi pareva, fin dal 1918, passibile d'integrarsi col comunalismo libertario propugnato dalla 1.a Internazionale e con il Soviettismo, quale esperienza genuina, cioè prima che diventasse strumento della dittatura bolscevica” (...).
“In sede politica, il federalismo repubblicano di Cattaneo e del Ferrari mi pareva, fin dal 1918, passibile d'integrarsi col comunalismo libertario propugnato dalla 1.a Internazionale e con il Soviettismo, quale esperienza genuina, cioè prima che diventasse strumento della dittatura bolscevica” (...).
Nondimeno Berneri resterà sempre e comunque un [[socialista]] libertario ed i tentativi (anche postumi) di guadagnarlo al liberalismo rimarranno sempre frustrati.
Nondimeno Berneri resterà sempre e comunque un [[socialista]] libertario ed i tentativi (anche postumi) di guadagnarlo al liberalismo rimarranno sempre frustrati.
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==Berneri e Malatesta==
==Berneri e Malatesta==
Chiuderemo questo excursus berneriano cercando di tracciare – a mo' di sintesi e chiosa – la differenza fra l'opzione malatestiana (un “classico” dell'anarchismo) e quella del nostro. Meglio sarebbe dire che si proverà a definire per sommi capi il percorso evolutivo che stacca Berneri da Malatesta, ma che pure mantiene i due in relazione. È vero infatti che se l'attualismo del lodigiano supera il volontarismo, dallo stesso volontarismo Berneri non prescinde completamente. Semplicemente lo sublima politicamente.
Chiuderemo questo excursus berneriano cercando di tracciare – a mo' di sintesi e chiosa – la differenza fra l'opzione malatestiana (un “classico” dell'anarchismo) e quella del nostro. Meglio sarebbe dire che si proverà a definire per sommi capi il percorso evolutivo che stacca Berneri da Malatesta, ma che pure mantiene i due in relazione. È vero infatti che se l'attualismo del lodigiano supera il volontarismo, dallo stesso volontarismo Berneri non prescinde completamente. Semplicemente lo sublima politicamente.
A prescindere da Malatesta, per Berneri, anziché parlare sempre e solo dei massimi sistemi, in un crescendo millenaristico che verrà riconosciuto al massimo come utopia positiva, irrealizzabile o molto “aldilà” da venire, la propaganda anarchica deve calarsi nella realtà, deve prendere corpo nell'azione quotidiana. In sostanza, non deve affidarsi al semplice volontarismo, deve divenire induttiva. L'anarchismo deve essere levatore di se stesso partendo dal capo e non dalla coda della problematica sociale. Per vincere, deve convincere la società civile che si può fare a meno dello stato, che ci si può organizzare su basi differenti, e che tutto ciò è assolutamente pratico e utile.   
A prescindere da Malatesta, per Berneri, anziché parlare sempre e solo dei massimi sistemi, in un crescendo millenaristico che verrà riconosciuto al massimo come utopia positiva, irrealizzabile o molto “aldilà” da venire, la propaganda anarchica deve calarsi nella realtà, deve prendere corpo nell'azione quotidiana. In sostanza, non deve affidarsi al semplice volontarismo, deve divenire induttiva. L'anarchismo deve essere levatore di stesso partendo dal capo e non dalla coda della problematica sociale. Per vincere, deve convincere la società civile che si può fare a meno dello stato, che ci si può organizzare su basi differenti, e che tutto ciò è assolutamente pratico e utile.   
D'altro canto è evidente la necessità immediata di uscire dalle vuote formule cui il dottrinarismo ha costretto la ricerca sociale ed economica del movimento. Un movimento al quale – banalizzando – è stato predicato che prima avviene la rottura rivoluzionaria e poi la costruzione, che i due momenti sono privi di continuità e religiosamente separati, quasi nell'attesa di una sorta di palingenesi "mistica", tanto timoroso di sbagliare da esser certo che si sbagli non appena ci si cali nell'opera di preconizzazione del futuro.   
D'altro canto è evidente la necessità immediata di uscire dalle vuote formule cui il dottrinarismo ha costretto la ricerca sociale ed economica del movimento. Un movimento al quale – banalizzando – è stato predicato che prima avviene la rottura rivoluzionaria e poi la costruzione, che i due momenti sono privi di continuità e religiosamente separati, quasi nell'attesa di una sorta di palingenesi "mistica", tanto timoroso di sbagliare da esser certo che si sbagli non appena ci si cali nell'opera di preconizzazione del futuro.   
Questo è il segno dell'influenza giacobina sul movimento libertario, sia perché dal giacobinismo mutua la sciocca certezza che, mutatis mutandis, un "partito" d'avanguardia possa comunque forzare e predeterminare il futuro con la semplice azione o il gioco d'azzardo dei propri quadri (concezione che può bastare solo ad organizzazioni che abbiano come fine ultimo la realizzazione di un mero colpo di stato), sia perché esigenze dovute alle incombenze immediate della lotta politica e della storia costringono giocoforza l'anarchismo (privato della riflessione e del "sistemismo" che invece i vari giacobini praticano) a seguire pedissequamente "in coda" il bolscevismo in tutte le sue varianti.   
Questo è il segno dell'influenza giacobina sul movimento libertario, sia perché dal giacobinismo mutua la sciocca certezza che, mutatis mutandis, un "partito" d'avanguardia possa comunque forzare e predeterminare il futuro con la semplice azione o il gioco d'azzardo dei propri quadri (concezione che può bastare solo ad organizzazioni che abbiano come fine ultimo la realizzazione di un mero colpo di stato), sia perché esigenze dovute alle incombenze immediate della lotta politica e della storia costringono giocoforza l'anarchismo (privato della riflessione e del "sistemismo" che invece i vari giacobini praticano) a seguire pedissequamente "in coda" il bolscevismo in tutte le sue varianti.   
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