Testimonianza sul campo di concentramento di Renicci d'Anghiari

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A Renicci (prov. Arezzo) le deportazioni inizarono il 10 ottobre 1942 e nel giro di due mesi si arrivò ad oltre 3.800 detenuti. Essi si organizzarono per contrastare, seppur in confino, il regime fascista. Nell'estate del 1943, in coincidenza con l'arrivo a Renicci di centinaia di confinati politici trasferiti da Ustica, Ventotene e Ponza, si diffusero nel campo di detenzione scioperi, proteste, deportazioni e diserzioni dei soldati di guardia. Caduto il fascismo (8 settembre), il 14 settembre 1943 i prigionieri, oramai senza più sorveglianza, fuggirono disperdendosi nelle zone circostanti, quasi tutti si unirono alle brigate partigiane attive nell'Appennino Tosco-Marchigiano.

Testimonianza (tratta da «L'Agitazione del Sud», settembre 1966) dell'anarchico Alfonso Failla sulle vicende legate alla sua detenzione nel 1943 presso il campo di concentramento di Renicci d'Anghiari.

Testimonianza

Nel campo di Renicci

Dopo il 25 luglio 1943 – data della caduta del fascismo – la liberazione dei confinati politici che si trovavano in quella data nell'isola di Ventotene ebbe inizio soltanto oltre due settimane dopo che il governo Badoglio, rifacendosi alle tradizioni dell'Italia borghese e monarchica, iniziò la liberazione degli antifascisti incominciando, nell'ordine di precedenza, dai moderati fino ai giellisti, repubblicani, socialisti e comunisti.

Coerentemente ai contatti avuti e con gli impegni presi con i vari partiti dello schieramento parlamentare tradizionale, noi anarchici, esclusi dalla liberazione di fronte al progressivo avanzare nel Sud degli eserciti angloamericani – fummo invece trasferiti al campo di concentramento di Renicci di Anghiari in provincia di Arezzo.

Con noi furono pure esclusi dalla liberazione comunisti e nazionalisti jugoslavi e albanesi ed alcuni antifascisti italiani. C'imbarcarono intorno al 20 d'agosto su una corvetta della regia marina non attrezzata al salvataggio di centinaia di persone nel caso di un probabile attacco di sottomarini. Quando la nave uscì dal porticciolo di Ventotene, prima di virare per Gaeta, gridammo ripetutamente il nostro saluto al compagno Gino Lucetti prigioniero nell'ergastolo dell'isola di Santo Stefano.

Dopo alcune ore di sosta a Gaeta, dove avemmo i primi saluti dal compagno Salvatore Vellucci, dai suoi figli e da sua moglie, incominciò il nostro viaggio verso il campo di concentramento. Eravamo scortati da carabinieri ed agenti della PS.

Non eravamo ammanettati tanto che fu facile a parecchi compagni tra i quali i fratelli Girolimetti, Giorlando ecc. di evadere. In tutte le stazioni improvvisammo comizi, affacciati dai finestrini, incitando alla lotta radicale contro il fascismo ed il nazismo. A Roma il nostro treno fu sballottato da una stazione all'altra, si disse per proteggerci dai bombardamenti aerei ma in realtà per impedire i nostri contatti con i compagni romani e le nostre proteste per la nostra mancata liberazione.

Ricordo con dispiacere un tentativo di evasione del mio compagno Arturo Messinese fallito per un casuale incontro con un gruppo di nostri guardiani che rientravano in stazione dopo essersi allontanati temporaneamente. Lungo tutto il viaggio, nelle soste delle varie stazioni i nostri inviti alla lotta contro il fascismo incontrarono lo stupore e l'indecisione popolare. Fu ad Arezzo che notammo una diffusa e simpatica comprensione solidale da parte di centinaia di persone che si trovavano in quella stazione. Fu qui che vedemmo per l'ultima volta il compagno Zambonini. Era stato un forte e deciso militante, ferito nella guerra di Spagna ed ospite, con noi, nell'isola di Ventotene durante la Seconda guerra mondiale.

“Sparate vigliacchi!”

Alla partenza da Ventotene, di fronte alle nostre proteste per la mancata liberazione c'era stato promesso che saremmo stati liberati nei giorni seguenti, in terra ferma. Il compagno Zambonini alla stazione di Arezzo si rifiutò di proseguire per il campo di concentramento, perciò venne condotto in carcere. Dopo, durante la resistenza, sarà fucilato dai nazifasciti nel poligono di Reggio Emilia.

Arrivati, sull'imbrunire, alla stazione di Anghiari fummo ricevuti da alcune centinaia di carabinieri e soldati ai quali sentimmo distintamente rivolgere dai loro ufficiali l'ordine di caricare le armi. Protestammo energicamente.

In un alterco con gli ufficiali che ci insolentivano minacciando fucilazioni, i compagni Marcello Bianconi e Arturo Messinese gridarono: “Sparate vigliacchi!”. Perciò furono immediatamente condotti in cella di sicurezza. Così ebbe inizio la nostra agitazione contro il regime interno del campo di concentramento.

Questo era stato fino ad allora uno dei peggiori del genere. I prigionieri erano in massima parte partigiani jugoslavi e con essi erano centinaia di minorenni e ragazzi di pochi anni. Il regime alimentare era stato sempre più scarso e pessimo; centinaia di internati, specialmente bambini e ragazzi erano morti a causa del pessimo trattamento. In cambio la sorveglianza era feroce e bestiale. Guardavano i prigionieri centinaia di soldati e carabinieri, richiamati, quest'ultimi, dalle regioni Toscana e limitrofe. Il comandante in seconda, maggiore Fiorenzuoli, ed il tenente Panzacchi si distinguevano per i loro arbitrii. Era perfino proibito che gli internati delle varie sezioni in cui era diviso il campo si avvicinassero alle reti metalliche divisorie per conversare reciprocamente. Il mattino seguente il nostro arrivo i nostri aguzzini fecero una dimostrazione di forza. Le minacce degli ufficiali rivolte a noi con lo spiegamento dei picchetti armati seguendo l'arresto dei compagni Bianconi e Messinese volevano conseguire lo scopo di intimidirci e renderci alla loro mercé. Costituivamo, insieme ai compagni reduci dalle lotte combattute nell'esilio in Spagna, l'aggrupamento più provato dalle lotte che in carcere e al confino ci erano costate ulteriori condanne ad anni di carcere e di confino supplementari, oltre che la vita di parecchi compagni, per difendere la nostra dignità umana dagli arbitrii della milizia e della polizia fasciste. E l'odore di polvere era per noi un maggiore incentivo a non desistere dalla lotta iniziata contro gli aguzzini del campo di concentramento di Renicci di Anghiari. Reclamammo libertà di comunicazione tra i prigionieri dei vari settori, la cessazione degli arbitrii perpetrati specialmente dal tenente Panzacchi coadiuvato da alcuni soldati come lui dichiaratamente fascisti. E il ritorno tra noi dei compagni Bianconi e Messinese. Dopo alcuni giorni di dure schermaglie il comandante del campo, il colonnello Pistone, decise di togliere il divieto di intercomunicazione tra i prigionieri dei vari raggi ed ai ragazzi fu raddoppiata la razione alimentare che era costituita da qualche centinaio di grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal sottostante fiume Tevere, che provocava epidemie di coliti e dissenteria.

I nostri rapporti con i custodi rischiarono di arrivare ad una rottura tragica. Si pretendeva che all'appello mattutino noi si fosse allineati militarmente e che uno di noi stessi, in funzione di caporeparto, ci avesse contati e presentati all'ufficiale di ispezione.

Bibliografia

  • Enzo Gradassi; Ezio Raspanti, Prigionieri ad Anghiari, Arezzo, Biblioteca Città di Arezzo, 1998.
  • Roderico Grisak, Andrea Bertocci (a cura di), Sansepolcro. I muri raccontano, vol. 1, Sansepolcro, Via Maior, 2010.

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