Sulla teologia della fotografia di strada (di Pino Bertelli): differenze tra le versioni

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La teologia della fotografia di strada si oppone alla violenza istituzionalizzata e non si scandalizza che contro la violenza ingiusta degli oppressori, possa sorgere la violenza giusta degli oppressi. Quando l'ingiustizia ha posto al suo servizio la legalità, l'ordine, il diniego... le classi povere private del diritto alla voce, alla dignità, alla presenza... alla fotografia di strada non resta che lavorare per un'educazione liberatrice e passare
La teologia della fotografia di strada si oppone alla violenza istituzionalizzata e non si scandalizza che contro la violenza ingiusta degli oppressori, possa sorgere la violenza giusta degli oppressi. Quando l'ingiustizia ha posto al suo servizio la legalità, l'ordine, il diniego... le classi povere private del diritto alla voce, alla dignità, alla presenza... alla fotografia di strada non resta che lavorare per un'educazione liberatrice e passare
dalle condizioni di vita inumane a condizioni più umane, con ogni mezzo.
dalle condizioni di vita inumane a condizioni più umane, con ogni mezzo.


=== Del documento fotografico ===
=== Del documento fotografico ===
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Una teologia della speranza è, nel contempo, una teologia della risorgenza.
Una teologia della speranza è, nel contempo, una teologia della risorgenza.
Non c'è storia della politica se non c'è storia della libertà. La teologia
Non c'è storia della politica se non c'è storia della libertà. La teologia
dell'utopia è il canto più estremo della liberazione dell'uomo da se stesso.
dell'utopia è il canto più estremo della liberazione dell'uomo da stesso.
L'utopia non è solo il sogno di uguaglianza nella diversità e godimento dei
L'utopia non è solo il sogno di uguaglianza nella diversità e godimento dei
beni comuni, che non prevede nella sua affabulazione, né servi né padroni...
beni comuni, che non prevede nella sua affabulazione, né servi né padroni...
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Sulla teologia della fotografia di strada è un articolo di Pino Bertelli, anarcopediano, scrittore, regista ed anarchico.

Sulla teologia della fotografia di strada

Annotazioni sulla sovversione non sospetta del linguaggio fotografico di Pino Bertelli «La teologia della liberazione che cerca di partire dall'impegno per abolire l'attuale situazione d'ingiustizia e per costruire una società nuova, deve essere verificata dalla pratica dello stesso impegno... Tutte le le teologie politiche della speranza, della liberazione, della rivoluzione, non valgono un gesto di solidarietà con gli uomini, con le classi e con i popoli oppressi».

Gustavo Gutierrez

«L'uomo nasce libero ed ovunque è in catene»

J-J. Rousseau

«È deplorevole per l'educazione della gioventù che i ricordi sulla guerra siano sempre scritti da gente che la guerra non ha ammazzato».

Louis Scutenaire

Ouverture in forma di rosa

Pino Bertelli fotografato da Paola Grillo nella Taverna Buenaventura Durruti (Barcellona, Spagna, 2007) - «La sola epoca che mi commuove è quella della Banda Bonnot» (Anonimo Toscano)

Mio padre e mia madre mi hanno insegnato ad amare il diverso, il povero, l'escluso e mi dicevano vicino al fuoco, mentre il pesce azzurro arrostiva nel sale, che nessuno può comprare un sorriso... e ancora... una mosca quando muore soffre quanto un re... e quando fuggivo sul tetto a guardare le stelle, a cercare la regina degli stracci sulla Via Lattea... fai quello che vuoi, ma quello che fai fallo con amore... perché quand'anche avessi tutti i mari e i cieli della terra, e tutto l'onore degli uomini, se non ho l'amore non sono niente... e quando penso a mio figlio e al figlio suo che sta per nascere... penso a tutta la cattiveria alla quale andrà incontro, alla mediocrità, alla rapacità, alla violenza della quale è capace una grande parte dell'umanità ricca... è a quel bambino che penso e ai poveri della terra... e allora sogno di andare a costruire un mondo in cui ogni uomo, senza eccezione di razza, di religione, di nazionalità... possa vivere una vita pienamente umana, liberata dalle schiavitù che gli vengono da altri uomini... fuori dall'amore non c'è salvezza.

La Teologia della fotografia di strada (che facciamo nostra) si riconosce nella pedagogia degli oppressi che unisce teoria e prassi e secondo l'insegnamento di Paulo Freire, tende a modificare la relazione tra l'uomo oppresso e l'ambiente che lo circonda. La coscienza critica della fotografia di strada come teologia di liberazione, trova un suo linguaggio e diventa essa stessa icona o traccia di trasformazione radicale della società ingiusta. «Indicami qualcuno che ami ed egli comprenderà quello che sto dicendo. Dammi qualcuno che desideri, che cammini in questo deserto, qualcuno che abbia sete e sospiri per la fonte della vita. Mostrami questa persona ed ella saprà quello che voglio dire» (Agostino, il berbero).

La teologia della fotografia di strada si oppone alla violenza istituzionalizzata e non si scandalizza che contro la violenza ingiusta degli oppressori, possa sorgere la violenza giusta degli oppressi. Quando l'ingiustizia ha posto al suo servizio la legalità, l'ordine, il diniego... le classi povere private del diritto alla voce, alla dignità, alla presenza... alla fotografia di strada non resta che lavorare per un'educazione liberatrice e passare dalle condizioni di vita inumane a condizioni più umane, con ogni mezzo.

Del documento fotografico

Il documento fotografico è qualcosa di diverso dalla fotografia documentaria e dalla fotografia di strada... sono moti i libri, manuali, guide alla critica fotografica che dedicano interi capitoli al documento fotografico o alla fotografia documentaria e sovente li confondono. Il documento fotografico riguarda l'insieme delle fotografie che nel tempo si trascolorano in storia delle immagini... è uno strumento informativo e non necessariamente l'intervento dell'autore è cosciente. Il documento fotografico indica un momento, un accadere, una situazione indicativa... comunica un messaggio, è l'attimo fermato in un'immagine al quale il tempo conferirà un'aurea storica. Il documento fotografico registra un avvenimento e questa “causalità iconografica” si traduce in “documento”, quando contiene significati subito riconoscibili e portata sociale d'interesse comune.

In questo senso, (al di là del valore estetico), un matrimonio, un funerale, una fototessera, una foto segnaletica della polizia, la lapidazione di una puttana araba, un paio di torri di cemento che crollano incendiate da atti di terrorismo, la diva del cinema senza mutande, il presentatore televisivo che si confessa gay davanti alle telecamere, operai uccisi dal cancro nelle fabbriche dell'Occidente, minatori morti nelle miniere della Russia o della Cina, bambini morti per fame nei Sud della terra, soldati morti nelle guerre del petrolio, delle fedi (ebree, cristiane, musulmane) o del mercato globale... in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo (digitale o analogico fa lo stesso) queste immagini sono raccolte, si rovesciano in documento. Non importa che siano a fuoco, mosse o appena leggibili. L'importante è che il “segno” del momento sia fissato su un supporto e non soltanto nelle parole dei giornalisti, dei preti, degli storici o dei politici. Come sappiamo, col senno di sempre, i detentori dell'informazione, delle dottrine, dei saperi e dei governi hanno riempito le fosse comuni dell'umanità disprezzata.

I galleristi, gli operatori culturali, i critici prezzolati... riciclano tutto, dall'icona di “Che” Guevara ai bambini che tiravano i sassi in Palestina (prima che il massiccio intervento dei dollari americani mettesse il bavaglio alla terra dei senza terra e infilasse nei fucili la stoppa del futuro benessere). La fotografia non vende ma serve per riciclare altre cose, fare mercimoni, scrivere e parlare di nuove scemenze che fanno tendenza. La fotografia è una guida turistica alla quale mancano (o sono state strappate) le immagini essenziali della sua storia: quelle del disvelamento di un'esistenza planetaria vessata, umiliata e offesa. Se c'è un angolo culturale che fa pensare all'industria zuccheriera o al tanfo delle fogne, è proprio il mondo dorato della fotografia: poco succo, molta merda.

Quando l'etica dei fotografi, come quella degli operai, non si preoccupava molto dei comandamenti mercantili e i bambini crescevano nelle strade, in prossimità delle bettole, con i piedi scalzi nel sole... gli uomini con la “scatola delle illusioni” inventarono la disinvoltura, l'amore e la libertà. Sfuggivano ad ogni patria e alla cittadinanza del nome... trovavano sempre non-luoghi della fantasia dove ritornare a giocare alla propria infanzia. La più grande catastrofe di tutti i tempi fu la fuga del mio canino Titti. Un bastardo che quando morì mia nonna, scappò di casa e volò (forse) nei colori irrecuperabili di quel cielo africano bagnato dallo scirocco. Così presi a leggere. Di tutto, all'infuori dei libri di scuola. Ho compreso poi che «l'istruzione obbligatoria è il miglior metodo di abbrutimento delle folle per mantenerle nell'ignoranza» (Louis Scutenaire).

Però mi piacevano le fotografie dell'album di famiglia. Mio padre in guerra, la seconda, quella mondiale, in Africa. Le donne nude, i seni alti, i sorrisi incerti, gli occhi malinconici dei servi... e i coltelli puliti dei guerrieri... non avevano mai tagliato una gola dell'oppressore. Erano solo oggetti per la fotografia. E mio padre. In posa con la divisa da marinaio libertino. Bello e anarchico. Se ne fregava della guerra, del duce e del re. Amava la vita e dietro una di quelle immagini di cartone ingiallito, di lui sorridente e con i baffi lucidi, c'è scritto: «A Lina, ti amo e vorrei mangiarti un po', senza distruggerti». Era mia madre. Mio padre non aveva mai avuto bisogno di patria, perché mi diceva, il posto dove stai bene e c'è il tuo amore è la tua terra. Ogni bandiera piantata su un palazzo, come ogni croce fissata su una chiesa, rende l'aria irrespirabile e anche il profumo dei tigli muore. Le fotografie di mio padre sono il primo documento fotografico nel quale mi sono imbattuto. Lì dentro ho compreso il valore di un'immagine come memoria o accusa di una storia universale dell'infamia.

Della fotografia documentaria

Per fotografia documentaria s'intende che la rappresentazione del reale è cercata, scavata, rubata alla realtà dallo sguardo fantastico o dall'indignazione del fotografo. Ora, qualsiasi foto è un “documento” ma la fotografia documentaria fa dell'atto visivo anche, o spesso, una raffigurazione della verità non dolcificata, tradita o semplicemente non censurata dalle richieste del mercato. Non importa intervenire su ciò che si fotografa o che la fotografia riproduca l'immagine fedele della realtà, quello che conta è che la fotografia contenga il vero, e niente è più vero del falso. La fotografia documentaria contiene un significato generale che trapassa la fotografia d'attualità e mostra non solo il dato storico ma anche il coinvolgimento dell'autore.

La fotografia documentaria contiene lo storico, il poetico, il realistico... ma ne travalica i generi per interpretare in profondità l'accadere del mondo. La fotografia così fatta, o così sognata, deborda da ogni sorta di confezione e fa della crudeltà esercitata da una minoranza dell'umanità arricchita, il rovesciamento di prospettiva della sua barbarie. La fotografia documentaria non è ritratto, né paesaggio, né scene scippate alla strada, né frammenti di surrealtà dell'arte di vedere ciò che è celato nell'immaginario... è la rappresentazione o la fattualità di una visione soggettiva di un'epoca.

L'immagine documentaria è un'icona del pianto degli altri al quale ciascuno partecipa con i mandanti e i giannizzeri di quell'esecuzione materiale. La complicità diretta o indiretta dei consumatori di ideologie, fedi o merci... è una specie di gogna e una forma di sfruttamento dei popoli impoveriti dalle guerre del petrolio, dell'oro, dei diamanti, dell'acqua... l'immagine documentaria dunque è un atto di poesia etica, un valore di comunicazione altra che porta in sé anche la critica radicale dell'ordine.

Il divieto fa emergere la trasgressione ma per la quasi totalità della fotografia mercantile, l'immagine documentaria resta all'interno di quella proliferazione d'informazioni audiovisuali che investono la quotidianità e rendono indifferenti a tutto, compreso il patibolo delle lacrime. L'assoluta tolleranza di tutte le opinioni fotografiche ha come fondamento l'intolleranza assoluta di tutte le inciviltà. Il diritto di scrivere, fotografare, filmare, pensare, dire di tutto su tutto...non ha niente a che vedere con la libertà di pensiero... semmai ha molto a che fare con la libertà di uccidere, torturare, opprimere, affamare, sfruttare il povero... e permettere ai mass-media, alle università, alle gallerie d'arte... di sostenere la dis/umanizzazione della comunità che viene.

Le immagini più consumate della civiltà dello spettacolo sono gogne. Ci sono interi popoli che non hanno diritto d'opinione e di vita di fronte alle potenze occidentali eppure sono i più fotografati, filmati, videoripresi... il digitale fa miracoli... il genocidio in diretta è come un medicamento sociale... fa bene a tutti e anche i bambini hanno i giocattoli telematici per dare agli ultimi la sorte che meritano. Nemmeno i “bastoni animati” di Walt Disney hanno fatto tanti danni nella testa dei bambini d‘ogni tempo, quanto le “scatole desideranti” dei grandi centri commerciali. «Ciò che sacralizza uccide. L'esecrazione nasce dall'adorazione. Sacralizzati, il bambino è un tiranno, la donna un oggetto, la vita un'astrazione disincantata» (Raoul Vaneigem). E gli uomini tutti, guardano passare sui marciapiedi della storia (come puttane sfiorite), i loro profeti con le mani lorde di sangue. Messia, Papa, Imam, Rabbino, Pope, Guru o Pastore fa lo stesso... è nel dogma, credo o fede che si alzano le croci, le bandiere, i monumenti, le forche, i campi di sterminio, i mattatoi delle guerre... la circoncisione del cervello è la pratica del vivente e l'arte di conciliare la colonizzazione del mondo con il massacro di intere popolazioni e fare finta che questo sia nell'ordine del mercato globale è quantomeno bizzarra. Le polemiche religiose, politiche o culturali che circolano nelle “grandi” fonti d'informazione... sono baruffe di buffoni che continuano a generare mostri.

Della fotografia di strada

La fotografia di strada esprime una teologia della liberazione (sempre) o non è niente. La fotografia selvatica dei randagi senza frontiere è un contenitore di segni dove la libertà d'espressione o la poesia della vita quotidiana decostruita, non è soltanto posta in difesa dell'umano ma è appartenenza alla libertà dell'umano. La fotografia di strada cuoce i maestri e i santi della storiografia fotografica in salsa piccante e li serve con le loro eureole fritte sulla tavola dei giusti e dei banditi di confine. Le briciole delle loro vestigia mercanteggiate le riserva ai cani da guardia dell'informazione totale. I saperi della foto-grafia dominante, li getta direttamente nell'immondezzaio dell'arte per tutti.

La fotografia è un mezzo di riproduzione o di espressione, sempre. Fissa, preserva o tradisce l'informazione. È una scrittura iconica che al di là del supporto usato (analogico o numerico) costituisce una presenza visiva che scippa l'istante della cronaca e lo rende espressione della storia. Il fotografo non è mai innocente o ladro soltanto, è anche testimone di un fatto e la sua capacità o incapacità fattuale è comunque una traccia mai “oggettiva”, semmai incosciente, della cosa fotografata.

La scrittura con la luce è una lingua bastarda, trasfigura e moltiplica i segni e fa di un'immagine una celebrazione, un crimine o una pregevole disobbedienza alle regole dei saperi codificati. La fotografia, tutta la fotografia, è una tecnica di comunicazione sociale che attraverso la selezione degli spazi (per mezzo degli obiettivi), della scelta dei tempi (l'attivazione dell'otturatore o della tecnologia digitale) e l'individuazione delle scale e prospettive variabili al momento della ripresa... è sempre una finestra aperta sul mondo e una fotografia, quando è grande, contiene il ritratto di un'epoca e (Walter Benjamin, diceva) pone fine alla concezione aristocratica dell'arte.

Due o tre cose che so dell'arte di comunicare

Cantando dietro i paraventi dell'arte. L'arte autentica si oppone alla comunicazione battesimale cattedratica e a quella dell'impostura mercantile... semmai la détourna e la rende innocua di fronte al rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato. La comunicazione è all'opposto della conoscenza, è il suo fantasma. La comunicazione dominante è nemica delle idee e nel tempo del mercato globale o del neocolonialismo, si fa portavoce dell'ottimismo prolungato che sconfina nella stupidità. Non ci sono guerre giuste né guerre umanitarie o guerre di religione che possono giustificare le predazioni dei paesi ricchi contro popoli impoveriti, terrorismi internazionali o genocidi prolungati... anche quando vengono subito dopo la pubblicità televisiva e rovinano il pranzo o aiutano a digerire, forse. Quando non c'è nessuna speranza, non c'è nessun futuro.

La pace si fa con la pace. Chi semina pace raccoglie la pace. Toccare la pace significa disertare i codici, i valori, i credi dell'arte che fa spettacolo di sé. Una società consapevole chiede la pace e l'educazione alla pace comincia con il ripudiare la guerra. Non esiste un uso buono o cattivo della comunicazione (della libertà d'espressione), soltanto un uso insufficiente o inutile di essa. Quand'anche possedessi tutta la ricchezza degli uomini, avessi lo spirito libero degli antichi poeti e parlassi la lingua degli angeli, se non ho l'amore non sono niente.

I briganti dell'arte profanata, decostruita, riattualizzata... lavorano alla demistificazione dei saperi codificati e sulla fine del mercantilismo come forma diffusa dell'inutilità dell'arte. La libertà d'espressione come il rispetto dei diritti più elementari dell'uomo non si dà, si conquista. Capitalismo e schizofrenia sono viacoli dell'inconscio collettivo che ri/produce la comunicazione maniacale, repressiva, idolatrica della società moderna. Le macchine desideranti di Félix Guattari e Gilles Deleuze o la scatola degli arnesi di Michel Foucault, determinano modelli, comportamenti, bisogni dell'immaginario sociale e come negli studi sulla burocratizzazione del mondo di Bruno Rizzi, vanno a configurare l'ideologia dominante nei linguaggi di chiusura delle rappresentazioni artistiche, anche.

La scrittura nobiliare dei corsari dell'utopia non celebra ciò di cui parla né si confonde con i cerimonieri della critica domestica... si chiama fuori dalle menzogne dei commedianti e dalla disonestà dei truffatori... canta la grazia dei poeti e mostra che ogni opera d'arte è una puttana che striscia sugli scanni del consenso o è la celebrazione dell'assassinio di tutte le arti prostituite sul sagrato dell'eternità di falsi miti. Una riflessione autentica sui modi del farearte non si ferma in un museo, in un castello o in una chiesa... lì finisce col morire... ogni opera d'arte muore, infatti, con la deificazione del segno. La morale comune c'indigna non solo per la sua ipocrisia e per la sua mediocre crudeltà... nel cammino di una teologia di liberazione degli oppressi, soltanto una rottura radicale col presente stato di cose (non solo nell'arte), una profonda trasformazione dell'idea di bellezza, l'accesso degli esclusi nel concilio dell'accoglienza, della tenerezza, dell'amore o una rivoluzione della carezza ai quattro venti della terra... possono aprire il passaggio dell'uomo planetario alla visione di un'eu-topia (il luogo-felice) dove un tempo ciascuno era signore di sé e la poesia era pane e miele della vita quotidiana.

I maestri carbonari dello smascheramento della società dei simulacri, anche quando sono vilipesi, dileggiati, sbeffeggiati... hanno disseminato di idee eversive la comunicazione dell'arte... parole, cinema, fotografia, grafica, teatro, attorialità... sono stati contaminati, scomposti, reinventati dagli eretici di ogni eresia ed hanno annunciato la ventata libertaria esplosa nel Maggio francese del '68 e che ancora si aggira come uno spettro nelle periferie invisibili della terra... c'è da dire che da qualche parte la ricchezza critica, radicale, ereticale di questi coltivatori di anime ribelli ha attecchito, ma non è ancora una foresta di torce quella che brucia il disordine genuflesso della creatività, senza averlo amato mai.

Lo spettacolo sociale, scrive Guy Debord, è concentrato, diffuso, integrato e la comunicazione ideologica della soggezione e del plauso passa per la cultura dei supermercati. Il divieto accende la trasgressione ma sovente ogni forma d'arte figura una libertà svilita dagli stessi artisti che galleggiano nel flusso della richiesta. L'arte è il maneggio di tutte le armi o una guida turistica alla quale mancano le pagine che riguardano i non-luoghi dell'utopia. Ai bambini allevati nella pubblica via, come noi, ai vagabondi delle stelle o ai sovversivi non sospetti d'ogni linguaggio, rimangono sempre addosso le parole e le immagini della loro infanzia. «L'istruzione obbligatoria è il miglior metodo di abbrutimento delle folle per mantenerle nell'ignoranza» (Louis Scutenaire). Nulla è più importante nella vita che evitare accuratamente le fogne del successo sociale.

Nel rizoma di poetiche senza bavagli, emergono desideri, sogni, schegge di utopie mai del tutto strozzate dall'impero massmediatico della civiltà dello spettacolo. Si tratta di restituire all'arte di comunicare lo stupore dell'infanzia e fare della meraviglia il principio di tutte le disobbedienze, a partire dall'educazione come pratica della libertà. «Nessuno educa nessuno. Nessuno si educa da solo. Le persone si educano nel dialogo e nel cammino della libertà» (Paulo Freire, diceva). L'obbedienza non mai stata una virtù. Non abbiamo paura delle rovine, perché il mondo nuovo del quale parliamo è già qui, tra le lucciole di maggio e la poesia in forma di solidarietà, di fraternità e di gioia. Quando a sognare è un uomo soltanto, resta solo un sogno, ma quando il suo sogno si trascolora nel sogno di tanti, diventa storia.

La teologia della fotografia di strada esprime — sotto ogni forma — la denuncia dell'ingiustizia e delegittima il sangue versato e rimasto impunito dell'ordine dominante. È l'amore dell'uomo per l'uomo che libera gli schiavi, fa crollare gli imperi e solleva gli oppressi. Il silenzio o l'accettazione dello sfruttamento dei deboli da parte dei potenti, passa attraverso il consenso massmediatico e le preghiere di sterminio sono deposte sugli scaffali dei grandi magazzini e nei parlamenti... si tratta di cogliersi come uomini planetari non ancora realizzati che rifiutano di vivere in una società alienata e si schierano a fianco degli esclusi. La liberazione degli affamati, degli offesi, degli umiliati... è prima di ogni cosa un atto politico. È la rottura con una realtà di sfruttamento e di povertà estrema, l'inizio della costruzione di quella società giusta e fraterna che molti uomini tengono nel cuore. La liberazione degli oppressi passa dalla difesa dei diritti fondamentali dei poveri, il castigo degli oppressori e la restituzione dei beni che hanno loro sottratto in secoli di angherie, saccheggi e genocidi.

La teologia della fotografia di strada non ha altra bellezza se non quella di aiutare a spezzare le catene della malvagità , sciogliere i legami del giogo, dare libertà agli oppressi... dividere il tuo pane con l'affamato, vestire chi è nudo e non voltare le spalle al tuo simile, diceva Isaia, è ricordare ad ogni essere umano che la liberazione autentica sarà opera degli oppressi o non sarà. Una teologia della speranza è, nel contempo, una teologia della risorgenza. Non c'è storia della politica se non c'è storia della libertà. La teologia dell'utopia è il canto più estremo della liberazione dell'uomo da sé stesso. L'utopia non è solo il sogno di uguaglianza nella diversità e godimento dei beni comuni, che non prevede nella sua affabulazione, né servi né padroni... l'utopia è anche una denuncia dell'ordine esistente e l'eresia più concreta che sta al fondo dell'utopia è rifiutare la brutalità dei valori correnti e annunciare le “primavere di bellezza” che saranno e che ancora non sono... il presagio di una comunità differente e di una differente società di armonia. La teologia della fotografia di strada lavora sull'immaginario liberato. Il passaggio dalla poesia alla vita quotidiana impone un salto di qualità, una rottura con l'ordine dell'ingiustizia, l'intervento dell'immaginazione contro i disegni salvifici della civiltà dello spettacolo e dice: la mia parola è no!

La Teologia della fotografia di strada o di liberazione dell'immaginario assoggettato... esprime una poetica che include il punto di vista dei poveri. La Teologia della fotografia di strada è anche una teologia dei diritti umani che disvela il sistema dei poteri politici e mostra che la politica coloniale è figlia della politica industriale. Non esiste nessun uso innocente dell'immagine e della libertà. Potere significa oppressione, dominazione, costrizione. La democrazia dell'uguaglianza ha per fine la partecipazione degli uomini alla vita comune. In una società di liberi e uguali ciascuno è l'espressione della propria capacità di amare l'altro... ed è parte fondante della società di mutuo soccorso alla quale aspira.

La Teologia della fotografia di strada emerge dalla lezione etica di poeti del disagio rovesciato come Riis, Hine, Sander, Vischniac, Capa, Modotti, Smith, Cartier-Bresson, Lange, Evans, Shahn, Arbus, Weegee, Frank, Koudelka, Salgado... contiene una teoretica della dissidenza che si scontra con l'ortodossia o sovra-identità delle democrazie dello spettacolo che distruggono legami sociali e seppelliscono culture e memorie storiche. «Un popolo che venga generalmente maltrattato contro ogni diritto non deve lasciarsi sfuggire l'occasione in cui può liberarsi delle proprie miserie, scuotendo il pesante giogo che gli viene imposto con tanta ingiustizia... dimodoché le rivoluzioni... non si verificano in uno Stato per colpe leggere commesse nell'amministrazione degli affari pubblici... Quando in realtà si verificano colpe gravi, il popolo ha il diritto di resistere e difendersi» (Hannah Arendt). Ogni forma di rivoluzione è sempre in primo luogo distruzione dell'antico regime.

La fotografia, tutta la fotografia, «porta il suo referente con sé» (Roland Barthes) e quando è grande, coglie il significante fotografico. La cattiva fotografia marcisce di banalità splendenti e permea l'oggetto della sua attenzione nella celebrazione del mondano (Stieglitz, Steichen, White, Kühn, Newton, Hamilton, von Gloeden, Araki, LaChapelle, Warhol e la quasi totalità della fotografia italiana...). Ogni fotografia è una traccia della propria cultura o della propria stupidità. A leggere le opere dei grandi maestri si comprende che la Fotografia non si riconcilia con la società nel mito spettacolarizzato bensì ne disvela le brutture o l'effimero. La storia della fotografia come stupore, rimanda al cambiamento del luogo comune e fa del dolore degli altri (direbbe Susan Sontag), l'istante di un'adesione o, meglio ancora, il vero bene, che è un atto morale. Scoprire il nostro non-sapere nell'uguaglianza del sentire è un gesto d'accoglienza.

La fotografia randagia accetta i propri limiti e getta uno sguardo radicale al di là del visibile... è desiderio di qualcosa che non si possiede e a cui si aspira... rifiuta i simulacri che riconoscono la politica, la fede o la cultura come criteri del successo che legittimano la sola felicità possibile nella società data. La fotografia di strada custodisce lo sguardo, come il ribelle l'utopia, l'una e l'altro sono depositari dell'indicibile e l'attimo della loro diserzione da tutto quanto è merce o ideologia, segna l'interrogazione dell'ordine costituito.

La fotografia di strada o quella più genericamente di “impegno sociale”, coglie ciò che emerge dall'apoteosi dell'apparenza. In questo senso, tutta la fotografia non addomesticata è una sorta di denuncia del quotidiano aggredito e lavora alla sovversione dell'immagine, della parola, della legge... la fotografia che affronta il sangue dei giorni passa attraverso l'arbitrarietà d'una scelta, la quale si presenta sovente come linguaggio deturnato. La fotografia esiste per rompere l'egemonia della quotidianità impoverita o per prolungarla, diceva. La fotografia di strada ha la capacità straordinaria di spaccare il tempo della replica, di liberare il tempo fertile del falciare ciò che è stato coltivato e divampa dalla brace della sovversione dei generi.

Niente è sacro, tutto si può profanare. L'istante inchiodato dalla fotografia nella storia dell'uomo è parola, strappo, disaffezione con il silenzio prolungato del dire... non c'è fotografia del sociale se non al prezzo d'una rinuncia... la fotografia come distruzione dell'immaginario edulcorato è una seminagione di bellezza, un segno eversivo, una magnifica ossessione che travalica i limiti della realtà eccessiva o un'audacia visionaria che sborda fuori dai confini improvvisati della genuflessione artistica. C'è eternità solo nel desiderio, nel piacere, nella passione dei bastardi senza patria che vivono e muoiono al di qua o al di là di tutte le frontiere, perché sanno bene che «il patriottismo è l'ultimo rifugio delle canaglie» (Orizzonti di Gloria, di Stanley Kubrick). La fotografia di strada arrossa la vergogna del potere e mostra il divenire dell'umanità in un letamaio.

Commiato dal futuro

Teologia dell'amore ludro o Opera do Malandro. Una storiella ebraica (che mi è stata raccontata da fra'Marcelo Barros, uno dei maggiori esponenti della Teologia della liberazione e mio compagno di strada): Un giorno un rabbino chiese ai suoi discepoli come si distingue il momento in cui finisce la notte e il giorno comincia. Un discepolo rispose: «Quando da lontano riusciamo a distinguere un cane da una pecora». «No», disse il rabbino. «È quando riusciamo a distinguere tra una palma e un albero di fichi», chiese un altro. “No”, disse ancora il rabbino. “Ma, quando è allora?”, chiesero in coro i discepoli. Il rabbino rispose: «È quando si può guardare il volto di una persona e riconoscere in essa un fratello o una sorella. Finché non si riesce a vedere così, è ancora notte nel nostro cuore». Solo nell'amare ed essere amati dunque, possiamo riconoscere in ogni uomo e ogni donna della terra, un fratello o una sorella. Allora e solo allora sarà giorno nei nostri cuori.


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