Martin Buber

Martin Mordechai Buber (Vienna, 8 febbraio 1878 – Gerusalemme, 13 giugno 1965) è stato un filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano che ha contribuito allo sviluppo del pensiero anarchico contemporaneo, influenzando anche teorici anarchici come Colin Ward. [1]

Martin Buber

Biografia [2]

Martin Mordechai Buber, nacque nel 1878 da una famiglia di ebrei austriaci assimilati. Dopo il divorzio dei genitori, trascorse l'infanzia dal nonno Salomon, nell'attuale città ucraina di L'vov (all'epoca Leopoli, nella Galizia asburgica). Il nonno, oltre che uomo d'affari, era un grande conoscitore della tradizione e della letteratura ebraiche. Oltre alle lingue-madri yiddish e tedesco, imparò subito ebraico, francese, inglese e italiano, e poi polacco alla scuola superiore. Nel 1892, dopo una crisi religiosa, ritornò nell'ambiente laico viennese e conobbe le opere di Kant, Kierkegaard e Nietzsche. Nel 1896 cominciò a studiare filosofia, filologia e storia dell'arte a Vienna, continuando poi gli studi a Lipsia e Zurigo. In quel periodo conobbe il poeta e attivista anarchico Gustav Landauer, anche lui ebreo, e nel 1898 aderì al sionismo, pur senza che le sue posizioni coincidessero con quelle del fondatore Theodor Herzl. In definitiva si trattò di un'adesione non sempre facile, giacché per Buber il movimento sionista non era connesso tanto col fine di fondare uno Stato ebraico in Palestina, quanto soprattutto di creare nuove radici e ripristinare contatti più fecondi con la tradizione europea, dalla quale non si sentiva affatto emarginato. Nel 1904 pubblicò la sua tesi, Beiträge zur Geschichte des Individuationsproblems (Contributi alla storia del problemi dell'individuazione). Si interessò alle filosofie mistiche di Böhme, Cusano e Paracelso e si riavvicinò alla mistica chassidica dell'infanzia. Studi che portarono alla pubblicazione delle Storie di Rabbi Nachman, ovvero racconti riguardanti Rabbi Nachman di Breslavia, grande esponente del Chassidismo, e delle Storie del Baal Shem. Nel periodo tra il 1910 e il 1914 si dedicò agli studi mitologici e pubblicò vari testi mistici. Durante la Prima guerra mondiale partecipò alla creazione della Commissione Nazionale Ebraica - per migliorare le condizioni di vita degli ebrei dell'Europa orientale - e fu redattore del mensile Der Jude. Nel 1921 Buber conobbe Franz Rosenzweig, con il quale nel 1925 iniziò a tradurre la Bibbia ebraica in tedesco (opera terminata solo nel 1962): un importante lavoro linguistico giacché, più che una traduzione vera e propria, fu una "verdeutschung" del testo, ovvero una "germanizzazione", per la quale furono reinventate regole linguistiche e grammaticali del tedesco, per una maggiore adesione allo spirito dell'originale ebraico. Nel 1923 egli scrisse il suo primo capolavoro, Io-tu. Continuò a collaborare con Landauer e nel primo dopoguerra, dopo che l'amico fu ucciso dai Freikorps, durante la repressione della «Repubblica dei Consigli» di Monaco, ne fu esecutore testamentario. Dal 1924 al 1933 insegnò filosofia della religione ebraica all'Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte sul Meno, incarico che lascerà con l'avvento al potere dei nazisti, che peraltro nell'ottobre del 1933 gli proibirono di tenere conferenze in pubblico. Nel 1938 lasciò la Germania per Gerusalemme, dove occupò la cattedra di filosofia sociale, antropologia e sociologia all'Università ebraica. In Palestina Buber si trovò isolato più che mai nell'ambiente sionista, prese parte al dibattito sul ritorno degli ebrei nella «terra promessa», con particolare riguardo al problema della convivenza con gli arabi palestinesi, e come membro del partito Yi'houd operò invano per realizzare un'intesa fra le due comunità, propugnando l'idea di uno Stato democratico binazionale insieme a Judah Magnes, Ernst Simon e altri, suscitando ovviamente antipatie e risentimenti. Nel 1946 pubblicò Sentieri in Utopia, sulla sua concezione dell'anarchismo. Dopo la Seconda guerra mondiale, Buber tenne una serie di conferenze in Europa e negli Stati Uniti. Nel 1951 ricevette il premio Goethe dall'Università di Amburgo, nel 1958 il premio Israele e nel 1963 il premio Erasmus, ad Amsterdam. Il premio Goethe gli suscitò nel mondo ebraico una marea di critiche e l'obiezione se non avesse avuto troppa fretta nel perdonare. La sua risposta fu la seguente:

«Circa dieci anni fa un numero considerevole di tedeschi - dovevano essere diverse migliaia - sotto il comando indiretto del governo tedesco e quello diretto dei suoi rappresentanti, uccise milioni di persone del mio popolo, con una procedura preparata e attuata in modo sistematico, la cui crudeltà organizzata non trova paragoni in nessun precedente evento storico. Io, che sono uno dei sopravvissuti, ho solo formalmente un'umanità comune con coloro che parteciparono a questa azione. Si sono tolti così radicalmente dal consesso degli esseri umani, si sono spostati in una sfera di mostruosa disumanità talmente inaccessibile alla mia concezione, che in me non è nemmeno stato possibile far nascere l'odio. E chi sono io per poter presumere di concedere un perdono?».

Nel 1958 morì la moglie, Paula Winkler, un'intellettuale cattolica poi convertitasi all'ebraismo, che gli aveva dato due figli. Nel giugno del 1965, Buber stesso si spense a Gerusalemme.

Pensiero filosofico [2]

Il suo pensiero si caratterizza per il radicale rifiuto dell'idealismo e per l'incentrarsi sulla concreta realtà esistenziale della persona umana, con particolare riguardo alle sue relazioni con i propri simili e con Dio. Si avverte subito l'intento di creare le premesse teoriche per un rinnovamento religioso che vada dal popolo ebraico all'Occidente; ma con una specificità: Buber è estraneo sia all'ortodossia ebraica immobilista, sia alle componenti dell'ebraismo orientate alla completa integrazione nella cultura europea dominante in quel tempo, con l'intendimento di far operare il rinnovamento spirituale ebraico anche in favore dell'Occidente, ma dall'esterno, non dal suo interno. Se pensava che questo operare potesse aiutare l'Occidente a uscire dalla sua crisi spirituale, l'aiuto sarebbe tuttavia venuto dall'ebraismo come «frutto serotino dell'Oriente», e non già come parte della cultura occidentale. Una chiara rivendicazione dell'alterità culturale ebraica. La proposta anti-crisi di Buber ha un taglio antropologico-esistenziale necessitato dalla situazione dell'essere umano contemporaneo in un mondo il cui artificiale «splendore» - esaltato dalla borghesia trionfante - nasconde insicurezze sociali, esistenziali e tecnologiche, a motivo dello schiacciamento della persona dovuto alla crisi di famiglie e di comunità urbane e rurali, e a un progresso tecnologico-scientifico che, se da un lato sembra far accrescere il potere sulla natura, da un altro lato aliena la persona e manifesta il concreto pericolo dell'incontrollabilità. La necessaria riscoperta dell'integralità dell'essere umano va orientata dalla sua appartenenza al più ampio contesto dell'umanità e del mondo. Se quindi l'essere umano si incentra sul proprio «io» originariamente «astratto», Buber sottolinea che l'io prende concretamente forma solo attraverso un'apertura: l'incontro e l'interazione con un «tu»; da cui si passa poi al «noi». La persona è quindi un soggetto in relazione, ed è nella relazione che essa assume le sue posizioni fondamentali. Così, le due relazioni di base sarebbero «io-tu» e «io-esso», a seconda della posizione attiva o passiva dell'entità «altra». Nella relazione «io-esso» - vale a dire, nell'esperienza cognitiva - la realtà verso cui si apre l'io appare in modo passivo, e l'io la ingloba nella sfera della sua esperienza personale e della sua sperimentazione. Nella relazione «io-tu», invece, entrano in gioco due termini ugualmente attivi e reciprocamente coinvolti e coinvolgenti: qui si avrebbe l'acquisizione di un sapere vero, effettivo. Quest'ultima relazione passa inevitabilmente in quella «io-esso», giacché «esso» e «tu» si pongono in due diverse dimensioni temporali: il «tu» appartiene al presente, all'attimo, poiché si dà nell'attimo e nell'attimo scompare; «esso», al contrario, appartiene al passato, alla dimensione della durata, e resta sempre sotto il controllo della persona dell'io. Si ha in tutto ciò la dialettica evento/oggettività, attimo/storia, istante/durata, per non dire eternità/tempo. Dove non c'è relazione, c'è egoismo, di conseguenza non c'è dialogo e quindi non c'è nemmeno realtà. La parola si arricchisce col dialogo, e poi con la risposta. E la risposta - per il suo esserci o no, e per il suo contenuto - implica «responsabilità». A questo punto, cioè, la relazione si apre sulla dimensione dell'etica. La responsabilità nasce da una decisione (positiva o negativa) o da una mancanza di decisione. Per Buber la non-decisione è sempre negativa. È solo impegnandosi nel mondo e assumendo le proprie responsabilità che l'uomo realizza un vero rapporto con sé, con gli altri e con Dio stesso. La relazione «io-tu» eleva il ruolo e il significato della parola umana, giacché qui la parola va al di là della «comunicazione» per diventare «comunione», sia fra persona e persona, sia fra persona e natura (magari in questo caso si avrà parola senza parola). Ma la relazione «io-tu», perché si abbia effettiva reciprocità, deve pervenire alla pienezza del «noi». La crisi dell'uomo contemporaneo (di una gravità diversa da qualsiasi crisi del passato) nasce dalla perdita del «tu» (sia umano che divino), determinata dal vivere in un mondo in cui il capitalismo ha disgregato le coesioni interne alla persona e ai corpi sociali intermedi, facendo sì che le relazioni siano basate solo su interessi economici, o comunque materiali. In conclusione, per Buber la vita dell'essere umano è sempre incontro e ha un'essenza dialogica, la cui realizzazione richiede la comunicazione con l'umanità, con la creazione e con Dio. L'uomo è anche, per essenza, homo religiosus, perché attraverso l'amore verso l'umanità si apre all'amore di Dio, e viceversa. Non è quindi possibile parlare agli uomini senza parlare a Dio. L'io umano, elemento necessario delle relazioni di base da lui concettualizzate, non è né originario né assoluto, poiché queste due connotazioni attengono a Dio, da Buber definito «Persona assoluta». Dio costituisce il mondo come suo «tu» attraverso l'io umano. Proprio perché assoluto, Dio entra in relazione con la persona umana e col mondo gratuitamente e senza esserne limitato; la sua presenza va al di là della dicotomia trascendenza/immanenza. Al riguardo Buber - come del resto in tutte le tradizioni religiose panenteiste (il panteismo è mero errore occidentale frutto di incomprensione concettuale, per non dire ignoranza) - non colloca Dio nel mondo, bensì il mondo in Dio, che a sua volta nel mondo è presente (la shekinah). Essendo Dio «Io assoluto» in sé, in rapporto all'essere umano è un «Tu assoluto». Stante questa alterità rispetto alle relazioni interumane, e anche alla luce di quanto fin qui detto, la relazione Dio-persona umana non può essere diretta, ma deve passare attraverso la relazione fra persona e mondo. E quindi Dio non diventa un «esso» per la persona. La presenza di Dio nel mondo - per la quale Buber già nei primi scritti chassidici era ricorso, e non a caso, alla tradizionale nozione di shekinah - la sua presenza nell'uomo, nonché la presenza del mondo e dell'uomo in Dio consentono di attribuire carattere fondamentale a queste relazioni, e quindi a porre a fondamento della religione l'incontro originario Dio-uomo. La presenza di Dio, nel sistema qabbalistico di Isaac Luria (1534-1572), è l'ultima delle dieci sefiroth a essersi rotta nell'originario processo di creazione, e l'essere umano ha la capacità di riceverla, ma deve rispondere con un'azione che provenga dall'integralità del suo essere, nel segno di un'unità che può arrivare a coinvolgere anche il cosmo intero. Da qui l'intuizione di Buber per cui «in principio è la relazione», dalla quale la realtà può raggiungere il proprio compimento come il dialogo tra incontrante e incontrato, che si fanno il dono reciproco della presenza. Rifiutando le teorizzazioni sulla «morte di Dio», Buber sottolinea invece l'eclissi di Dio nel momento in cui l'essere umano rifiuta il dialogo col suo «Tu assoluto». Più appropriatamente egli parla di «eclissi» di Dio: un'eclissi causata dall'egoismo umano, individuale e sociale. In definitiva, Buber vede la soluzione della crisi dell'umanità contemporanea nel rinnovamento della relazione con Dio, ma non in termini solipsistici. Poiché la persona integrale è un essere in comunione, il rinnovamento della relazione con Dio passa attraverso un «noi» che è la comunità. Buber è orientato verso una comunità che non sia sinonimo di collettivismo (cioè un'altra forma di alienazione), bensì di unione dialogica ed esistenziale fra persone, dove ognuna sia il centro comunitario. Ovviamente non manca in Buber la riaffermazione e l'esplicitazione della identità ebraica. In merito alla sua essenza, egli sottolinea la coscienza della scissione e l'anelito all'unità; e inoltre la ricerca vissuta della relazione tra morale e religione, e la religiosità come azione e come spinta messianica verso il futuro. Questi princìpi - unità, azione e futuro - sono validi per l'umanità intera: ragion per cui Buber considerava il ritorno all'autentico ebraismo come ritorno alla vera umanità. Si può benissimo definire quello di Buber - anche in ambito filosofico - un percorso verso l'utopia. L'utopia (come aveva ben compreso Camillo Berneri) è parte ineliminabile dell'orizzonte umano e il suo etimo dice soltanto della sua inesistenza in atto: il futuro resta impregiudicato, e non è detto che l'assalto al cielo fallisca sempre.

L'anarchismo di Martin Buber [2]

Martin Buber rientra nella corrente culturale dell'ebraismo dell'Europa centrale che durante il secolo scorso associò il messianismo con la prospettiva socialista. Buber appartiene al versante spiritualista e religioso di questa corrente, mentre sul versante laico di essa il maggior esponente è stato forse Erich Fromm, freudiano e marxista, ma entrambi - pur con le inerenti differenziazioni - radicati nella tradizione biblica, da cui hanno tratto ispirazione per le loro visioni di un futuro dell'umanità più giusto e libero. Per Buber la comunità è la soluzione per il problema dell'uomo. Non si tratta tuttavia della comunità «naturale», i cui vincoli interni sono di sangue o di luogo e che quindi si forma automaticamente, cioè a prescindere dalla volontà e dall'impegno delle persone; e non è nemmeno la massa, in cui l'uomo galleggia sull'acqua in balia della corrente, senza effettiva autonomia. Per conseguenza non si tratta neanche di una realtà improntata al collettivismo. Vero è che l'essere umano si sente sorretto dalla collettività, che lo solleva dalla solitudine, dall'angoscia del mondo, dallo smarrimento, ma in realtà ciò limita l'inclinazione al rapporto personale, come se coloro che sono riuniti nel gruppo dovessero insieme essere rivolti principalmente solo all'opera del gruppo. In tutti questi modi di essere della società si hanno individui «impacchettati insieme», con l'illusione di condurre la propria esistenza, mentre si ha soltanto una vita «derivata» e spogliata di vera responsabilità.

La comunità è invece per Buber un sistema di relazioni interpersonali collegate con un centro, purché esistano due condizioni. La prima condizione richiede che si superi il mero fatto spaziale-materiale della vicinanza reciproca, per dare luogo all'essere uno presso l'altro di una molteplicità di persone che ovunque fa l'esperienza di una reciprocità, di un dinamico e reciproco «essere di fronte». Con questo Buber si oppone all'impersonalista concezione heideggeriana dell'essere comune, rivendicando l'essere in comune, implicante il pluralismo che deriva dal riconoscimento reciproco dei singoli componenti: «Il fondamento dell'essere uomo-con-l'uomo [consiste nel] desiderio di ogni uomo di essere confermato per ciò che è [...] e la capacità innata dell'uomo di confermare allo stesso modo gli uomini come lui» [3] Questa condizione viene meno quando non si evitano atteggiamenti suscettibili di incidere negativamente sul significato della dimensione pubblica per la loro carica massificatrice; si tratta dei momenti di entusiasmo storico in cui la trasfigurazione della massa è così abbagliante da oscurare ogni alterità e la persona, sopraffatta da un'estasi inebriante, scompare nel movimento della vita pubblica; e altresì si tratta della passività che porta all'omologazione, vale a dire quando capita di stare dalla parte dell'opinione pubblica. Tutti questi casi hanno il minimo comun denominatore dell'affidarsi ciecamente a qualcuno e non decidere da soli. Tutto il discorso filosofico di Buber, apparentemente solo antropologico e psicologico, in realtà si riverbera sulla sua intera concezione sociale e politica, è anzi la base del suo socialismo comunitarista anarchico. La sua visione della comunità come insieme di libere relazioni reciproche è una sorta di «noi collettivo» retto dalle relazioni fra una pluralità di «io-tu» e, sia pure con diversa motivazione, si apparenta al comunitarismo di Pëtr Kropotkin, incentrato sul mutuo soccorso e sulla libertà.

L'anarchismo di Buber [4], di cui Sentieri in Utopia è per vari aspetti la sintesi, si incardina nel filone della cultura ebraica ostile a ogni relazione umana (e sociale) improntata alla sottomissione, alla sudditanza e, quindi, avverso alla gerarchia e - a fortiori - alla repressione, in nome della libertà umana contro il dominio.

 
Gustav Landauer ha condiviso con Martin Buber una profonda amicizia personale e intellettuale.

Non è possibile trascurare l'influsso esercitato dall'amicizia personale e intellettuale con Gustav Landauer (1870-1919). Idee di quest'ultimo sono state riprese e portate avanti da Buber, con particolare riguardo al federalismo libertario e comunitario, del quale egli vedeva un riscontro nelle prime esperienze dei kibbutzim socialisti in Palestina. Un socialismo capace di rinnovare l'animo umano; una democrazia basata sulle relazioni dirette; una libertà che si formi nello spirito della persona prima ancora della sua oggettivazione nella società, e quindi prima della militanza sociale e politica; la rigenerazione spirituale come vera leva del progresso (ben più delle scienze e delle tecniche); il socialismo anche quale dimensione culturale per superare l'atomismo individualistico; il modello federativo basato sulla partecipazione volontaria e sulle relazioni umane; l'umanizzazione della vita sociale: sono tutti questi elementi che accomunano le concezioni di Buber e Landauer. Fondamentale nel pensiero buberiano è la nozione di «interumanità» («zwischenmenschlichkeit»), coinvolgente la socializzazione delle relazioni interpersonali, la cooperazione e l'umanitarismo, il superamento delle istituzioni centralizzate, che sono di ostacolo alla libertà, all'autodeterminazione e alla giustizia. Con Sentieri in Utopia Buber non ha voluto certo svalorizzare l'utopia, bensì il contrario, se si considera che per lui l'utopia è «la nostalgia di ciò che è giusto». Va notata la data in cui fu scritto questo libro: il 1946, vale a dire quando in Palestina i sogni di conciliazione dell'autore si erano ormai del tutto frantumati. Questa nostalgia diventa allora orgogliosa rivendicazione di un dover essere che - indipendentemente dal rifiuto attuale da parte del mondo (e in primis dello stesso mondo di Buber) - sussiste comunque, resta vivo quale pietra di paragone e segno di condanna senza appello. Di primo acchito il libro in questione sembra un'opera storica e politica, giacché è incentrata sul pensiero di grandi pensatori rivoluzionari e su talune esperienze pratiche. In realtà, tutto il discorso è retto da un sottostante filo rosso di natura profetica e religiosa, con il quale interagisce l'aspetto politico. La prospettiva in cui si è mosso Buber è innegabilmente messianica ed escatologica, poiché il fine ultimo degli esseri umani è inscindibilmente legato alle sorti del mondo. Tuttavia, nell'ambito della nostalgia per il giusto Buber ha distinto l'escatologia dall'utopia: la prima è l'immagine di un tempo perfetto in cui si dà il compimento della creazione; la seconda è l'immagine dello spazio perfetto. L'eschaton è nelle mani di Dio, ma l'utopico è in quelle degli esseri umani. E riguardo all'escatologia ha effettuato la distinzione fra «escatologia profetica» ed «escatologia apocalittica». La prima, di matrice ebraica, implica comunque una partecipazione attiva delle persone; la seconda, invece, di matrice iranica, per il suo carattere determinista fa sì che la persona vi svolga un ruolo essenzialmente passivo. Calata in ambito politico, la distinzione investe le differenze fra il pensiero libertario e il marxismo, inquadrandoli rispettivamente nella prima e nella seconda categoria escatologica. Influenzato da Landauer, Buber ha inteso la prospettiva comunitaria, libertaria e umanista come permanente rivoluzione della vita personale (nel giorno per giorno) volta alla ricerca del contenuto e del senso dell'esistenza. Di conseguenza la rivoluzione diventa un costante movimento per evitare che si staticizzi, che si cristallizzi nell'istituzionalità. Per l'esigenza di procedere in una direzione qualitativamente appropriata, Buber ha respinto ogni progetto di accentramento socio/economico e politico, e quindi l'impostazione leninista, rimarcando quanto di positivo c'è in quel «socialismo utopistico» a cui Marx e Lenin avevano contrapposto un socialismo «scientifico» che, nel caso di Lenin, si è rivelato scientifico solo in senso popperiano: cioè falsificabile e, nel concreto, auto-falsificato.

Buber e tutti gli ebrei anarchici animati da una speranza messianica ed escatologica avevano riposto enormi aspettative nell'esperimento dei kibbutzim in Palestina, quale nuovo modo di organizzazione sociale e produttiva anticapitalista e libertario. Ed effettivamente nella prima metà del secolo scorso si trattò di un fenomeno che fece epoca nell'ambito delle sinistre non staliniste. Il kibbutz (al plurale kibbutzim) - cioè «assemblea» oppure «insieme», e nel nome c'è già il programma - è una comunità agricola o anche industriale autogestita di tipo collettivista, originariamente formatasi sotto l'influsso del comunismo libertario. [5] Era in comune la proprietà della terra, delle case e dei mezzi di produzione in genere [6], e anche l'educazione dei bambini. A quel tempo nei kibbutzim non c'erano strutture elette e il potere era direttamente gestito dall'assemblea dei membri. Costoro non avevano problemi economici di sorta, poiché di tutto si faceva carico la segreteria della comunità. Originariamente vi si conduceva una vita assai spartana [7] e all'interno non circolava denaro. I kibbutzim si raggrupparono poi in federazioni perlopiù sulla base di affinità partitiche e ideologiche. Generalmente sono stati considerati frutto del marxismo, ma di marxista avevano solo il rifiuto della proprietà privata. I princìpi portanti - autogestione, libere assemblee, autonomia e federalismo - erano invece tipici dell'anarchismo. I membri dei kibbutzim erano per lo più atei o agnostici e comunque poco propensi alla religiosità. Pur tuttavia non mancarono i credenti che combinavano religione e anarchismo, soprattutto i qabbalisti e i chassidici. Giora Manor (del kibbutz Mishmar Ha-Emek) ha scritto: «da quando è stato concepito [...] il kibbutz è sempre stata una libera società che ogni membro può lasciare - come molti hanno fatto e fanno - se non condivide le sue decisioni. [...] è prevalso il principio anarchico della libera volontà degli individui. [...] Naturalmente i kibbutz hanno regole e ci si aspetta che i membri vi si attengano. Non vi è cioè «anarchia» intesa come totale assenza di norme. Ma la corretta definizione anarchica dell'anarchia non è quella di una società senza norme e regole, ma di una società basata sull'accettazione volontaria delle decisioni e dei regolamenti sociali da parte di ogni individuo. Consenso senza coercizione e sanzioni istituzionalizzate. Ciò è esattamente quanto avviene nella vita del kibbutz». [8]

Tuttavia, le speranze di Buber e dei fautori di una conciliazione con gli arabi si sono risolte in disillusione e dramma, per motivi riguardanti entrambe le parti in causa. Da un lato abbiamo proprio l'intreccio con il sionismo politico, che rapidamente assunse connotati di «nazionalismo» religioso e di imperialismo, determinando così un cambio di paradigma da cui è conseguito - per la sua vittoria - il naufragio dell'anarchismo e di tutto il pensiero libertario in un Israele dominato da una tutt'altro che messianica volontà di potenza temporale. Resta del tutto aperta la questione se e fino a che punto non vi abbia contribuito anche l'estinzione della cultura yiddish, a causa del genocidio della Germania nazista in Europa. Dall'altro lato c'è il fatto che gli arabi, sotto il colonialismo anglo-francese, erano diventati tutt'altro che aperti alla conciliazione con i nuovi venuti dall'Europa. Nel mondo ebraico addirittura non mancò chi rivolse a Buber lo strampalato rimprovero di aver sovrapposto il sionismo al messianismo. In realtà aveva cercato di fondere messianismo e sionismo in una visione tanto limpida quanto - purtroppo - tutta e solo sua; con la conseguenza che ancora una volta il messianismo ha cozzato col mondo della politica aliena, e ancora una volta a vincere è stata quest'ultima.

Tirando le somme, l'opera sociale e politica di Buber si inquadra - a un livello indubbiamente alto - nelle ricerche di alternative all'antisocialità dell'individualismo borghese, del capitalismo e di quello che, dopo lo svuotamento della rivoluzione d'Ottobre, è stato il socialismo reale. Le due apparenti alternative - che Buber ha rifiutato - si identificano nello sfruttamento e nell'oppressione, nonché nella disorganizzazione sociale ed esistenziale della persona, eliminando gli spazi dialogici. Nel suo sforzo di superamento, Buber ha ripreso la tradizione dell'utopismo socialista e libertario, in ciò animato anche da una solida fede in Dio e - nonostante tutto - nell'essere umano. Questa concezione non ha avuto seguito; ma ciò non significa che fosse irrealista e non esprimesse esigenze concrete e positive. Una volta Oscar Wilde definì il cinico come una persona che accetta il mondo per quello che è e si tiene lontana dal dover essere. Buber vide la realtà del mondo, ma fece del dover essere l'asse centrale della sua vita intellettuale, consapevole che il sogno non è disarmato di fronte alla realtà mondana, se diventa un sogno in comune ed è armato di volontà collettiva. Il punto sta proprio qui: nel voler fare il possibile desiderando l'impossibile. Il realizzarsi di questo presupposto può aprire il sogno a una prospettiva messianica ed escatologica. In questo Buber traeva lievito dalla tradizione culturale ebraica, per la quale la storia non è un progresso lineare e irreversibile ed esiste sempre la possibilità di rinnovamento e riscatto, ma non in termini di gradualità: il rinnovamento, la rivoluzione, è per lui (perfettamente in linea con landauer) l'irruzione improvvisa del nuovo, l'irruzione messianica del rinnovamento. L'attesa del Messia è l'immagine iconica di ciò. D'altro canto - notava Buber - chi pensa alla storia come progresso non attende certo il Messia. In merito al messianismo Buber ha operato per far pendere da una parte ben precisa, piuttosto che dall'altra, la tensione dialettica - esistente nell'ebraismo - fra attendere e agire, tra fede in Dio e fede nell'essere umano, con riguardo alla sua partecipazione alla salvezza, propria e del mondo, orientandosi verso la creazione di un ordine sociale giusto, senza oppressi né oppressori, e quindi senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Di qui la visione di una comunità basata su rapporti umani autentici, sul mutualismo reciproco e sul riconoscimento completo dell'Altro. La visione di un mondo libero, in cui la libertà non è la vuota e solipsistica libertà dell'individualismo borghese, bensì la liberazione di massa dai vincoli del capitalismo (privato o di Stato) e dell'atomizzazione; la visione di una possibilità di vivere spontaneamente in comunità volontarie. La visione buberiana contiene innegabilmente una sorta di nostalgia per le comunità del passato, maggiormente organiche rispetto agli aggregati sociali frutto della vittoria del capitalismo e della sua espansione. E non casualmente Buber ha ripreso la distinzione di Tönnies fra comunità e società, additando in quest'ultima la mancanza di interna coesione. [9] Tuttavia egli non ha certo vagheggiato un ritorno al passato, cioè la riproposizione pedissequa di quel che è stato. Anche rispetto al passato la sua comunità è nuova, ma non antitetica, poiché le si apparenta nei valori. Una comunità nuova - una federazione di comunità - che egli non concepisce come «stato», ma come processo, riprendendo così la classica visione anarchica delle comunità in cui liberamente si sperimentano nuove forme di organizzazione e di produzione. La sua sottolineatura circa l'esigenza che il rinnovamento rivoluzionario debba avvenire nel profondo delle coscienze personali, prima ancora che nelle istituzioni e nelle forme produttive, è della massima importanza, essendo egli consapevole di come sia proprio la mancanza di diffusa coscienza comunitaria e della coesione interna che ne deriva a rendere alla fine necessario lo Stato e la sua fisiologica coercizione/repressione. L'alternativa non è fra Stato liberale e Stato illiberale, bensì fra Stato e libertà. È forte nell'opera buberiana il richiamo al ritorno alla terra, a fronte dell'atomizzazione e disgregazione esistenti nella vita cittadina. Pur tuttavia, fare di Buber l'apostolo dell'abbandono tout court dell'urbanesimo vorrebbe dire tradirne il pensiero. In realtà il senso della sua posizione sta nella creazione di forme di convivenza comunitaria che vadano al di là degli attuali assetti urbani, senza trascurare che a monte di tutto c'è il rinnovamento, sia interiore che nei rapporti intersoggettivi. Qualcuno ha definito la concezione sociale di Buber «teocrazia anarchica», in realtà Buber si è riallacciato all'originario patto teologico-politico della storia di Israele, ma dell'Israele premonarchico, in cui il Melekh («Re») era Dio e non un uomo. Cosicché accettare la regalità divina si accompagna con l'anelito all'autonomia dell'essere umano, con il rifiuto del dominio. La Sion di Buber, la sua Terra Promessa, ha natura spirituale, religiosa e antistatalista: un ideale virtualmente universale. Niente a che vedere col progetto politico e nazionalista di Theodor Herzl, bensì un «sionismo tutto buberiano», fedele alla Torah e orientato alla realizzazione del Regno di Dio, per il quale Gerusalemme potesse diventare l'alternativa reale alla stalinista Mosca e alla capitalista New York. Disse Buber che «Israele perde sé stesso se sostituisce la Palestina con un'altra terra, e perde sé stesso se sostituisce Sion con la Palestina». Qui in effetti c'è la grande illusione di Buber: pensare ancora che un Israele in fase di allontanamento sempre più progressivo dalla Sion spirituale - ancor prima che Buber si stanziasse in Palestina - potesse diventare l'araldo e il precursore di un mondo redento.

Note

  1. «Secondo me» - dice Ward - «l'anarchia implica auto-regolazione. Non vivendo su un'isola deserta, siamo obbligati a rapportarci agli altri e a condividere regole comuni. L'anarchia essenzialmente rifiuta le regole imposte, e il caso più evidente sono le regole dello Stato. [...] Il concetto è stato ben spiegato dal filosofo Martin Buber nel suo saggio su "Stato e società". Il principio sociale rimanda ai rapporti umani, il principio politico alle modalità con cui agisce lo Stato. Il primo implica necessariamente la cooperazione tra individui e gruppi, il secondo implica il governo. Ecco la differenza» (estratto da una intervista a Colin Ward).
  2. 2,0 2,1 2,2 Fonte: Martin Buber e l'anarchismo, di Pier Francesco Zarcone
  3. M. Buber, Distanza originaria e relazione, in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 288.
  4. Colin Ward parla di «socialismo libertario».
  5. Il primo kibbutz fu fondato nel 1909. Gli aderenti passarono da 179 nel 1914 a 2624 nel 1927 e a 22.932 nel 1941. Ai primi del 1990 erano 124.900, ripartiti in 270 kibbutzim. Sull'argomento si veda, in particolare: Roberto Massari, Sui kibbutzim (1966-1967), in Dentro e oltre gli anni '60. Culture, politica e sociologia (1960-74), Massari editore, Bolsena 2005, pp. 47-110; il saggio - scritto fra l'autunno-inverno del '66 e gli inizi del '67 - si occupa ampiamente delle caratteristiche dei kibbutzim presenti all'epoca, a poco tempo dallo scoppio della Guerra dei sei giorni, che ne modificherà sostanzialmente la natura decretando di fatto la scomparsa della loro originaria fisionomia collettivistica.
  6. A differenza di quel che accadeva nel moshav, villaggio cooperativo in cui i soci conservavano la proprietà individuale della terra, ma gestivano in comune acquisti e vendite.
  7. Col tempo, tuttavia, la linea anticapitalista e comunista si è andata via via attenuando fino all'apertura al mercato, alla proprietà e al profitto, fino alla vera e propria privatizzazione. Originariamente i lavori erano assegnati a ciascuno dalla comunità e il salario (uguale per tutti) era fissato dall'assemblea, mentre adesso i lavori sono scelti dai singoli, il salario è liberalizzato e le case sono in proprietà privata.
  8. Giora Manor, La natura anarchica del kibbutz, in Archivio Pinelli, aprile 2000, pp. 19-22.
  9. Cfr. Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, 1887 (trad. italiana: Comunità e società, a cura di Maurizio Ricciardi, Laterza, Roma 2011).

Opere in italiano

  • Sette discorsi sull'ebraismo, tr. Dante Lattes e Mosè Belinson, Firenze: Israel, 1923; Assisi-Roma: Carucci, 1976 (ed. con prefazione di Clara Levi Coen); n. ed. come Discorsi sull'ebraismo, Milano: Gribaudi, 1996
  • La leggenda del Baal-Shem, tr. Dante Lattes e Mosè Beilinson, Firenze: Israel, 1925; Assisi-Roma: Carucci, 1978; Milano: Gribaudi, 1995 (ed. con presentazione di Enzo Bianchi)
  • Il principio dialogico, tr. Paolo Facchi e Ursula Schnabel, Milano: Comunità, 1959; n. ed. Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, tr. Anna Maria Pastore, Cinisello Balsamo: San Paolo, 1993
  • L'eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, tr. Ursula Schnabel, Milano: Comunità, 1961; Milano: Mondadori, 1990 (ed. con introduzione di Sergio Quinzio); Firenze: Passigli, 2001
  • I racconti dei Chassidim, tr. Gabriella Bemporad, Milano: Longanesi 1962; Milano: Garzanti, 1979 (ed. con introduzione di Furio Jesi); Parma: Guanda, 1992
  • Israele: un popolo e un paese, tr. Paolo Gonnelli, Milano: Garzanti, 1964; n.ed. come Sion. La storia di un'idea, con una nota introduttiva di Andrea Poma, Genova: Marietti 1987
  • Gog e Magog, tr. Silvia Heimpel-Colorni, Milano: Bompiani, 1964; Vicenza: Neri Pozza, 1999
  • Immagini del bene e del male, tr. Amerigo Guadagnin, Milano: Comunità 1965; n.ed. come L'uomo tra il bene e il male, tr. Roberto Tonetti, a cura di Cornelia Muth, Milano: Gribaudi, 2003
  • Sentieri in utopia, tr. Amerigo Guadagnin, Milano: Comunità, 1967
  • Il problema dell'uomo, tr. Fabio Sante Pignagnoli, Bologna: Pàtron 1972; Leumann: Ldc, 1983 (ed. con introduzione di Armido Rizzi)
  • Mosè, tr. Piera Di Segni, introduzione di Pier Cesare Bori, Casale Monferrato: Marietti 1983
  • Confessioni estatiche, tr. Cinzia Romani (con un saggio di), Milano: Adelphi, 1987
  • La fede dei profeti, tr. Andrea Poma, Casale Monferrato: Marietti 1987; Genova: Marietti, 2000
  • La regalità di Dio, tr. Michele Fiorillo, prefazione di Jan Alberto Soggin, Genova: Marietti, 1989
  • Il cammino dell'uomo secondo l'insegnamento chassidico, tr. Gianfranco Bonola, prefazione di Enzo Bianchi, Magnano: Qiqajon, 1990
  • La saggezza dell'uomo, a cura di Armido Rizzi, Leumann: Ldc, 1990
  • L'io e il tu, tr. Anna Maria Pastore, Pavia: Irsef, 1991 (estratto da Il principio dialogico e altri saggi)
  • Incontro. Frammenti autobiografici, tr. Agnese Franceschini, introduzione di David Bidussa, Roma: Città nuova 1991
  • Due tipi di fede: fede ebraica e fede cristiana, tr. Sergio Sorrentino, postfazione di David Flusser, Cinisello Balsamo: Paoline, 1995
  • Le storie di Rabbi Nachman, tr. Maria Luisa Milazzo, Milano: Guanda, 1995; Milano: TEA, 1999
  • Profezia e politica. Sette saggi, tr. Lucia Velardi, a cura di Francesco Morra, Roma: Città nuova, 1996
  • Racconti chassidici. I dieci gradini della saggezza, Como: Red 1997
  • Elia (con Elie Wiesel), tr. Teresa Franzosi e Daniel Vogelmann, presentazione di Paolo De Benedetti, Milano: Gribaudi, 1998
  • Il cammino del giusto. Riflessioni s alcuni Salmi, tr. Teresa Franzosi, presentazione di Gianfranco Ravasi, Milano: Gribaudi, 1999
  • Racconti di angeli e demoni, tr. Vincenzo Noja, presentazione di Paolo De Benedetti, Milano: Gribaudi, 2000
  • La modernità della Parola: lettere scelte 1918-38, tr. (e introduzione di) Francesca Albertini, Firenze: Giuntina, 2000
  • Le parole di un incontro, a cura di Stefan Liesenfeld, tr. Lucia Velardi, Roma: Città nuova, 2000
  • Beato l'uomo che ha trovato la saggezza. Meditazioni per ogni giorno, a cura di Dietrich Steinwede, tr. Roberto Tonetti, Milano: Gribaudi, 2001
  • Daniel. Cinque dialoghi estatici, tr. Francesca Albertini, Firenze: Giuntina, 2003
  • Logos. Due discorsi sul linguaggio, tr. Donatella Di Cesare, Roma: Città nuova, 2003
  • Parola e scrittura. Per una nuova versione tedesca, a cura di Nunzio Bombaci, Roma: Aracne, 2007
  • Una terra e due popoli: sulla questione ebraico-araba, a cura di Paul Mendes-Flohr, tr. Irene Kajon e Paolo Piccolella, Firenze: Giuntina, 2007
  • La passione credente dell'ebreo, a cura di Nunzio Bombaci, Brescia: Morcelliana, 2007
  • Colpa e sensi di colpa, a cura di Luca Bertolino, con nota introduttiva di Judith Buber Agassi: Apogeo, 2008
  • Storie e leggende chassidiche, a cura di Andreina Lavagetto, cronologia di Massimiliano De Villa, Milano: Mondadori, 2009
    • Le storie di Rabbi Nachman (tr. di Maria Luisa Milazzo rivista da Andreina Lavagetto)
    • La leggenda del Baalschem (tr. Andreina Lavagetto)
    • La mia via al chassidismo: ricordi (tr. Andreina Lavagetto)
    • I racconti dei chassidim (tr. Gabriella Bemporad)
    • Esposizione del chassidismo (tr. Elena Broseghini)
  • Discorsi sull'educazione, a cura di Anna Aluffi Pentini, Roma: Armando, 2009
  • Il messaggio del chassidismo, a cura di Francesco Ferrari, Firenze: Giuntina, 2012
  • Il chassidismo e l'uomo occidentale, a cura di Francesco Ferrari, Genova: Il Melangolo, 2012
  • Religione come presenza, a cura di Francesco Ferrari, Brescia: Morcelliana, 2012
  • Niccolò Cusano e Jakob Böhme. Per la storia del problema dell'individuazione, a cura di Francesco Ferrari, Genova: Il Melangolo, 2013
  • Rinascimento ebraico. Scritti sull'ebraismo e sul sionismo (1899-1923), a cura di Andreina Lavagetto, Milano: Mondadori, 2013
  • L'insegnamento del Tao. Scritti tra Oriente e Occidente, a cura di Francesco Ferrari, Genova: Il Melangolo, 2013
  • In relazione con Dio. L'insegnamento del Baal Shem Tov, a cura di Francesco Ferrari, Firenze: Giuntina, 2013
  • La questione ebraica. I testi integrali di una polemica pubblica con Gerhard Kittel, a cura di Gianfranco Bonola, Bologna: EDB, 2014
  • La parola che viene detta, a cura di Daniele Vinci e Nunzio Bombaci, Cagliari: PFTS, 2015
  • Israele e i popoli, a cura di Stefano Franchini, Brescia: Morcelliana, 2015
  • Sapienza e opera delle donne, a cura di Martino Doni, Treviso: Antilla, 2015
  • Umanesimo ebraico, a cura di Francesco Ferrari, Genova: Il Melangolo, 2015

Voci correlate