Maggioranze e minoranze (di Errico Malatesta)

Da Anarcopedia.
Versione del 28 set 2019 alle 14:40 di K2 (discussione | contributi) (Sostituzione testo - "perchè" con "perché")
Jump to navigation Jump to search

Maggioranze e minoranze è un articolo di Errico Malatesta, un ulteriore risposta sotto forma di lettera, pubblicata su l'«Agitazione» del 14 marzo 1897 e falsamente datata da Londra (dove voleva lasciare intendere di essere in esilio).

Maggioranze e minoranze

Errico Malatesta

Carissimi compagni,

Mi rallegro della prossima pubblicazione del giornale «L'Agitazione», e vi auguro di cuore il più completo successo. Il vostro giornale compare in un momento in cui grande ne è la necessità, ed io spero che esso potrà essere un organo serio di discussione e di propaganda, ed un mezzo efficace per raccogliere e ricongiungere le sparse file del nostro partito. Potete contare sul mio concorso per tutto ciò che le forze mie, deboli purtroppo, mi permetteranno.

Per questa volta, tanto per isgombrarmi il terreno alla futura collaborazione, vi scriverò sopra alcuni punti che, se in certo modo mi riguardano personalmente, non sono senza portata sulla propaganda generale.

L'amico nostro Merlino, che come sapete, si perde ora nell'inane tentativo di voler conciliare l'anarchia col parlamentarismo, in una sua lettera al «Messaggero» volendo sostenere che «il parlamentarismo non è destinato a sparire interamente e qualche cosa ne rimarrà anche nella società che noi vagheggiamo», ricorda uno scritto da me inviato alla Conferenza anarchica di Chicago del 1893, in cui io sostenevo che «per talune cose il parere della maggioranza dovrà necessariamente prevalere a quello della minoranza».

La cosa è vera, nè le mie idee sono oggi diverse da quelle espresse nello scritto di cui si tratta. Ma Merlino, riportando una mia frase staccata per sostenere una tesi diversa da quella che sostenevo io, lascia nell'ombra e nell'equivoco quello che io veramente intendevo.

Ecco: v'erano a quell'epoca molti anarchici, e ve n'è ancora un poco, che scambiando la forma colla sostanza e badando più alle parole che alle cose, si erano formati una specie di «rituale del vero anarchico» che inceppava la loro azione, e li trascinava a sostenere cose assurde e grottesche.

Così essi, partendo dal principio che la maggioranza non ha il diritto d'imporre la sua volontà alla minoranza, ne conchiudevano che nulla si dovesse mai fare se non approvato all'unanimità dei concorrenti. Confondendo il voto politico, che serve a nominarsi dei padroni con il voto quando è mezzo per esprimere in modo spiccio la propria opinione, ritenevano anti-anarchica ogni specie di votazione. Così, si convocava un comizio per protestare contro una violenza governativa o padronale, o per mostrare la simpatia popolare per un dato avvenimento; la gente veniva, ascoltava i discorsi dei promotori, ascoltava quelli dei contraddittori, e poi se ne andava senza esprimere la propria opinione, perché il solo mezzo per esprimerla era la votazione sui vari ordini del giorno... e votare non era anarchico. Un circolo voleva fare un manifesto: v'erano diverse redazioni proposte che dividevano i pareri dei soci; si discuteva a non finire, ma non si riusciva mai a sapere l'opinione predominante, perché era proibito il votare, e quindi o il manifesto non si pubblicava, o alcuni pubblicavano per conto loro quello che preferivano; il circolo si scindeva quando non v'era in realtà nessun dissenso reale e si trattava solo di una questione di stile. E una conseguenza di questi usi, che dicevano essere garanzie di libertà, era che solo alcuni, meglio dotati di facoltà oratorie, facevano e disfacevano, mentre quelli che non sapevano o non osavano parlare in pubblico, e che sono sempre la grande maggioranza, non contavano proprio nulla. Mentre poi l'altra conseguenza più grave e veramente mortale per il movimento anarchico, era che gli anarchici non si credevano legati dalla solidarietà operaia, ed in tempo di sciopero andavano a lavorare, perché lo sciopero era stato votato a maggioranza e contro il loro parere. E giungevano fino a non osare di biasimare dei farabutti, sedicenti anarchici, che domandavano e ricevevano denari dai padroni – potrei citare i nomi occorrendo – per combattere uno sciopero in nome dell'anarchia.

Contro queste e simili aberrazioni era diretto lo scritto che io mandai a Chicago.

Io sostenevo che non ci sarebbe vita sociale possibile se davvero non si dovesse fare mai nulla insieme se non quando tutti sono unanimemente d'accordo. Che le idee e le opinioni sono in continua evoluzione e si differenziano per gradazioni insensibili, mentre le realizzazioni pratiche cambiano a salti bruschi; e che, se arrivasse un giorno in cui tutti fossero perfettamente d'accordo sui vantaggi di una data cosa, ciò significherebbe che in quella data cosa ogni progresso possibile è esaurito. Così, per esempio, se si trattasse di fare una ferrovia, vi sarebbero certamente mille opinioni diverse sul tracciato della linea, sul materiale, sul tipo di macchine e di vagoni, sul posto delle stazioni, ecc., e queste opinioni andrebbero cambiando di giorno in giorno: ma se la ferrovia si vuol fare bisogna pure scegliere fra le opinioni esistenti, nè si potrebbe ogni giorno modificare il tracciato, traslocare le stazioni e cambiare le macchine. E poichè di scegliere si tratta è meglio che siano contenti i più che i meno, salvo naturalmente a dare ai meno tutta la libertà e tutti i mezzi possibili per propagare e sperimentare le loro idee e cercare di diventare la maggioranza.

Dunque in tutte quelle cose che non ammettono parecchie soluzioni contemporanee, o nelle quali le differenze d'opinione non sono di tale importanza che valga la pena di dividersi ed agire ogni frazione a modo suo, o in cui il dovere di solidarietà impone l'unione, è ragionevole, giusto, necessario che la minoranza ceda alla maggioranza. Ma questo cedere della minoranza deve essere effetto della libera volontà, determinata dalla coscienza della necessità; non deve essere un principio, una legge, che s'applica per conseguenza in tutti i casi, anche quando la necessità realmente non c'è. Ed in questo consiste la differenza tra l'anarchia e una forma di governo qualunque. Tutta la vita sociale è piena di queste necessità in cui uno deve cedere le proprie preferenze per non offendere i diritti degli altri. Entro in un caffè, trovo occupato il posto che piace a me e vado tranquillamente a sedermi in un altro, dove magari c'è una corrente d'aria che mi fa male. Vedo delle persone che parlano in modo da far capire che non vogliono essere ascoltate, ed io mi tengo lontano, magari con incomodo mio, per non incomodar loro. Ma questo io lo fo perché me lo impongono il mio istinto d'uomo sociale, la mia abitudine di vivere in mezzo agli uomini ed il mio interesse a non farmi trattar male se io facessi altrimenti; quelli che io incomoderei, mi farebbero presto sentire in un modo o in un altro il danno che v'è ad essere uno zotico. Non voglio che dei legislatori vengano a prescrivermi qual'è il modo col quale io debbo comportarmi in un caffè, nè credo che essi varrebbero ad insegnarmi quell'educazione che io non avessi saputo apprendere dalla società in mezzo a cui vivo.

Come fa il Merlino a cavare da questo che un resto di parlamentarismo vi dovrà essere anche nella società che noi vagheggiamo?

Il parlamentarismo è una forma di governo nella quale gli eletti del popolo, riuniti in corpo legislativo fanno, a maggioranza di voti, le leggi che a loro piace e le impongono al popolo con tutti i mezzi coercitivi di cui possono disporre.

È un avanzo di questa bella roba, che Merlino vorrebbe conservata anche in Anarchia?

Oppure, poichè in Parlamento si parla, e si discute e si delibera, e questo si farà sempre in qualsiasi società possibile, Merlino chiama questo un avanzo di parlamentarismo?

Ma ciò sarebbe davvero giuocar sulle parole, e Merlino è capace di altri e ben più seri procedimenti di discussione.

Non si ricorda il Merlino quando polemizzando insieme contro quegli anarchici che sono avversi ad ogni congresso perché appunto ritengono i congressi una forma di parlamentarismo, noi sostenevamo che l'essenza del parlamentarismo sta nel fatto che i parlamenti fanno ed impongono leggi, mentre un congresso anarchico non fa che discutere e proporre delle risoluzioni, che non hanno valore esecutivo se non dopo l'approvazione dei mandanti e solo per coloro che le approvano? O che le parole hanno cambiato di significato ora che Merlino ha cambiato d'idee?

Pubblico dominio Il testo di questa pagina è nel pubblico dominio.