La sanzione penale e il conflitto sociale (di Pio Marconi)

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Pierre-Joseph Proudhon e i suoi figli

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La prima fase del pensiero penale di Proudhon

Diversa da quella di Godwin e da quella di Stirner, è la posizione di Proudhon sul problema della pena. Non soltanto perché nella prima fase del suo pensiero lo scrittore francese sostiene la necessità di una espansione del sistema repressivo (egli parla della necessìtà di una « inquisizione generale ») e afferma, in contrasto con uno dei temi tipici della filosofia del progresso e dell'umanesimo penale, che le pene devono diventare più dure di pari passo con la crescita morale e con lo sviluppo della società. Ma anche perché, in una seconda fase, pur contestando alla società (così come fanno Godwin e Stirner) il diritto di punire, progetta un sistema di garanzie per l'osservanza del diritto fondato su sanzioni istituzionalizzate (non nel senso di irrogate da un'autorità specializzata ma di tassativamente determinate) e giuridicamente regolate per quel che riguarda la loro applicazione, svincolate soprattutto da valutazioni di tipo morale. Proudhon, nel secondo periodo della sua produzione, non propone insomma di sostituire alla pena- afflizione fisica il trattamento morale progettato da Godwin, né propone di sostituire l'autodifesa dipinta da Stirner, ma un sistema di sanzioni che retribuiscano la violazione senza pretendere di rappresentare una censura morale ufficialmente rivolta dalla società al trasgressore. L'interesse di Proudhon per il diritto e per la critica filosofica del diritto positivo è stato messo in risalto, oltre che da Sainte-Beuve, da una lunga serie di studiosi che si sono applicati al pensiero del filosofo francese. Nei primi Carnets è già possibile ritrovare la testimonianza di una attenzione ai problemi giuridici e a quelli filosofico-giuridici. Tra il 1844 e il 1845 Proudhon annota l'intenzione di provvedere alla sua « immatricolazione in Diritto », di leggere « Oudot, Buignet, Rossi, Ortolan », di preparare « questa tesi per il dottorato. Cosa c'è di buono nei codici o in uno dei codici », infine di « concorrere a una cattedra di diritto, alla fine del Corso ». I problemi giuridici e filosofico-giuridici sui quali lo scrittore lavora con più impegno sono soprattutto quelli della giustizia, del contratto, del diritto proprietario. Tuttavia negli scritti di Proudhon, oltre all'impegno della lettura degli scritti di Rossi e di Ortolan, è possibile trovare la testimonianza di una attenzione ai problemi filosofico-penali e alla critica, fra gli altri codici, del Code pénal.

In una prima fase, come si è già detto, Proudon aderisce in modo addirittura passionale a una concezione della pena come strumento di emenda e di intimidazione. La società, è la tesi dello scrittore, non può sottrarsi al dovere di punire e di affliggere dolorosamente il colpevole. «Guardate queste prigioni - egli scrive - questi carnefici, questi patiboli, queste segrete, queste torture! L'umanità non può sottrarsi a queste tendenze: l'organizzazione giudiziaria ci insegna il nostro dovere. Pene e supplizi per i colpevoli ». Con una trasposizione, consueta in Proudhon, della storia sacra nella storia profana, la condanna espressa da Paolo di Tarso nei confronti di « tutti i nemici del Vangelo », si deve tradurre nella minaccia per « i nemici dell'Eguaglianza, della confisca e della sentenza ».

Le sanzioni sono, in questa fase del pensiero di Proudhon, soltanto afflittive. Lo scrittore si pronuncia contro ogni possibile sistema di incentivazione al dovere o di diritto premiale: attraverso la sollecitazione dell'interesse, egli afferma, non è possibile favorire il senso del dovere e la crescita morale dell'uomo. I dipendenti delle ferrovie, annota Proudhon, cointeressati al risparmio del combustibile, ne consumano un terzo di meno per ogni viaggio: «quindi - aggiunge lo scrittore - incuria, negligenza, mancanza d'ordine, spreco e forse furto ». La pratica dell'incentivazione è forse eccellente dal punto di vista economico, ma dal punto di vista morale « accusa l'uomo ». Il dovere finisce, in presenza di un sistema premiale, con l'essere rimpiazzato dall'interesse: « se ciò - conclude Proudhon - fosse possibile, vi sarebbe un arretramento della morale, un indebolimento della coscienza ». La pena trae innanzi tutta la sua giustificazione dall'esigenza di garantire la pace e la regolarità sociale: attraverso la sanzione afflittiva e istituzionalizzata si impediscse, secondo Proudhon, il ricorso dei cittadini alla vendetta privata e la guerra intestina. « La società punisce - scrive Proudhon - perché se essa non punisse la vendetta privata si incaricherebbe di questo compito, e lo scopo sarebbe superato, non vi sarebbe altro che tirannia, oppressione e delitto nella pena così come nel crimine ». Il bene della pace sociale può essere tutelato, secondo lo scrittore francese, anche con una appropriata commisurazione della pena al delitto: la pena deve essere severa, in modo tale da non indurre l\'offeso dal reato a cercare un\'ulteriore vendetta privata.

La filosofia proudhoniana della pena contrasta la tesi settecentesca di un progressivo addolcirsi delle sanzioni penali che andrebbe di pari passo con la crescita dell'umana intelligenza e della civiltà « Occorre -scrive Proudhon - che la pena divenga più severa mano a mano che la civiltà si sviluppa: poiché lo stesso crimine è molto più odioso presso l'uomo civilizzato che presso il selvaggio ». Il delinquente moderno è insomma un essere « vile, infame » e la pena nei suoi confronti deve essere severa: « sì è confusa la barbarie con la severità; cose diverse ».

La pena e la pena di morte (nella prima fase, Proudhon polemizza più volte a proposito della pena capitale con le tesi di Beccaria) devono inoltre svolgere un ruolo di educazione morale sia nei confronti del condannato sia nei confronti del resto del popolo. « Quanto all'applicazione delle pene stesse, essa deve essere pubblica e solenne ». La pena come spettacolo è presentata come una garanzia offerta al condannato di non essere « sacrificato come un animale immondo » e di godere del « beneficio di mostrare a tutti il suo pentimento ». L'educazione morale riguarda anche il popolo che assiste all'esecuzione del condannato. « Il prete mostra al suppliziato il cielo che ha perduto, e che il pentimento può restituirgli: io voglio che il giudice, in quel momento supremo gli faccia vedere un'ultima volta l'umanità che lo scaccia piangendo, che lo colpisce, ma che lo perdona » .

La somministrazione pubblica della pena non è solo occasione di perdono o di pentimento. Essa deve garantire anche la possibilità di un estremo rimprovero morale, di una sorta di sanzione morale aggiuntiva da applicare nel caso che il condannato non mostri l'intenzione di pentirsi. Il condannato sarà fischiato e riprovato, scrive Proudhon, quando il popolo lo troverà « insolente e cinico ». « E l'impressione piena d'orrore che riceverà, manifestata con un'esplosione di riprovazione, colpirà il colpevole incallito, e produrrà l'effetto che il supplizio stesso non poteva ottenere. La giustizia oltraggiata sino all'ultimo istante da uno scellerato frenetico, sarà vendicata dall'esecrazione popolare ».

La pena che serve a inibire l'esercizio privato della vendetta, è tuttavia carica, secondo Proudhon, di tutti gli impulsi vendicativi e di riprovazione che vengono suscitati nella vittima dall'offesa. La pena, disciplinata dalla legge, non perde insomma il carattere di atto passionale. « L'uomo, con la legge, affida il compito di vendicarlo alla società: di là i tribunali ». La vendetta deve essere inoltre proporzionata alle nuove sensibilità dell'uomo moderno per il quale « i tormenti della ragione sono più vivi di quelli della materia », per il quale la pena che aggredisce l'anima è a volte più grave di quella che incide sul corpo. Di fronte a un episodio giudiziario e a una condanna, Proudhon giunge a reclamare: « ogni lettura, visita, conversazione vietata. Ogni prete allontanato. Nessuna riconciliazione né con Dio né con gli uomini, La coscienza sia il carnefice del criminale » .

Il Panopticon foucaltiano, metafora ed incubo dell'ascolto-sorveglianza.

In questa fase, come si può notare, Proudon non distingue fra morale e diritto, il giudizio morale dalla condanna giuridica. La punizione afflittiva si innesta sulla riprovazione morale, e la condanna morale accompagna e segue quella giuridica. L'etica del Sistema viene trasferita, in questa fase, direttamente sul piano del diritto. La pena si giustifica e si modella su di una concezione dell'uomo nel quale si intrecciano, per Proudhon, impulsi buoni e impulsi malvagi.

L'idea rousseauiana di un'innocenza originaria dell'uomo, l'idea della responsabilità della società per le colpe dell'uomo, viene respinta, come si ricorderà, da Proudhon. Per l'autore del Sistema la tesi dell'innocenza originaria, rischia di interrompere la strada del progresso, di provocare la deificazione di un modello di società del futuro nel quale la naturale bontà dell'uomo venisse al suo trionfo

Per Proudhon l'uomo è « buono » ma porta nel suo seno « mille mostri » che può sconfiggere solo con il culto della « giustizia e della scienza ». Il dogma del peccato è la spontanea « confessione » di un fatto « tanto meraviglioso quanto indistruttibile », la capacità di compiere atti riprovevoli, « l'inclinazione al male della nostra specie ». L'alternarsi di bene e di male rappresenta infine una molla per il progresso « il perfezionamento morale dell'umanità, nello stesso modo che il benessere materiale, si realizza per merito di una serie di oscillazioni tra il vizio e la virtù, il merito e il demerito ». Anche se nel Sistema il problema penale viene affrontato solo marginalmente (con le osservazioni particolarmente acute tuttavia relative al problema della teodicea) si può osservare in quel testo una continua corrispondenza tra peccato e delitto, tra espiazione di tipo morale-religioso e punizione sociale. Le conseguenze che la società fa seguire al delitto (la punizione) corrispondono a una natura dell'animo umano nel quale vi è « un perpetuo compromesso tra opposte attrazioni » e a una morale che rappresenta un «sistema ad altalena ». Espiazione religiosa e condanna penale sono collocati infine su di una identica serie storica: « tutti i popoli - afferma Proudhon - ebbero costumi espiatori, sacrifici di pentimento, istituzioni repressive e pe-nali nate dall'orrore e dal rammarico del peccato ».

La seconda fase del pensiero penale di Proudhon

Se si leggono i Carnets dell'epoca successiva all'imprigionamento di Proudhon, o L'Idée générale de la Révolution au XIX siècle, si nota un radicale cambiamento di posizione per quel che riguarda il problema della pena. Proudhon non modifica la sua concezione della morale, ma formula una nuova tesi relativa al rapporto tra morale e diritto penale. Le posizioni formulate nel Sistema a proposito della perfettibilità morale dell'uomo, dei suo oscillare tra vizio e virtù, rimangono nella sostanza immutate. Quel che cambia è l'impostazione della questione dei rapporti tra sanzione morale e sanzione giuridica o sociale. Nei Carnets annotati in questa seconda fase si possono leggere dure contestazioni della organizzazione giudiziaria e dei giudici. I giudici che condannano non sono più i sacerdoti della censura morale ma vengono accusati di svolgere una attività violenta e ipocrita. Il giudice, scrive Proudhon, nell'Idée générale, è «senza titolo per giudicare» ed è destinato, insieme con i tribunali, a veder scomparire il suo ruolo: « la soppressione delle autorità giudiziarie non può sopportare rinvii ». «Né la ragione, né la società né la coscienza, scrive Proudhon sempre in questo periodo, autorizzano La pena che rappresenta una vera e propria « tirannide ». Le pene previste dai codici vengono condannate perché non ispirate alla giustizia ma alla pura vendetta. Nella pena si riconosce « la più iniqua e la più atroce, ultima vestigia dell'antico odio delle classi patrizie verso le classi servili ». La pena non è un diritto, aggiunge nei Carnets, essa è un puro atto di tirannia non legittimato da nulla. «Punire è una cosa che è consentita all\'uomo soltanto verso le bestie ». Applicata da un uomo nei confronti di un altro uomo, la pena è « un oltraggio che, per il foro interno e per il foro esterno, può sempre motivare la resistenza del prigioniero ». Anche la più estrema resistenza, l'uccisione del carceriere, è legittimata dall'iniquità della pena: « il prigioniero che uccide il suo guardiano usa la legittima difesa; e il giudice che vuole per questo punirlo di questa uccisione è un assassino ».

Dalla contestazione della pena, in un passo dei Carnets, sembra derivare una sorta di apologia del trasgressore. Il codice penale, scrive Proudhon, è il codice del « crimine organizzato dai forti contro i deboli, dalla gente onesta contro la gente disonesta, dai conservatori contro gli innovatori ». Sembra leggere un passo dell'Unico, e veder riproposte le idee di quello Stirner che aveva certo rifiutato la tesi proudhoniana della proprietà come furto non vedendo nel furto altro che un normale comportamento egoistico, ma che aveva anche istituito un paragone tra il proletario, il vagabondo intellettuale e l'egoista. Proletario, vagabondo intellettuale, egoista si affacciano insomma nel sistema di Proudhon attraverso i riferimenti a un diritto che colpisce il povero, il disonesto, l'innovatore. Ma il rapporto con Stirner può essere istituito solo per quel che riguarda la collocazione sullo stesso piano di diverse figure di trasgressori. Proudhon infatti sembra giustificare, nel passo citato, le trasgressini solo in polemica con un sistema di norme che definisce il crimine, ma non esclude che le trasgressioni possano incontrare la sanzione stabilita da un altro diritto e non esclude (anche qui a differenza di Stirner) il giudizio del tribunale, privato e non sociale, della morale. La pena, aggiunge ancora Proudhon, presuppone un dovere e ogni dovere corrisponde a un diritto. Ma nelle concezioni contrattualistiche che, con formule diverse, prevedono regole non esplicitamente sottoscritte dai contraenti o norme che riguardano anche coloro che al patto sociale non abbiano contribuito, manca una piena giustificazione del dovere. « Bene! Dove sono, nel vostro contratto,i miei diritti e i miei doveri? Che cosa ho promesso ai miei concittadini? Che cosa essi hanno promesso a me? Mostratelo: senza di ciò la vostra penalità è eccesso di potere ».

La polemica con Rousseau e con la sua concezione del contratto sociale, lascia intravvedere tuttavia come Proudhon non sfugga al problema del controllo giuridico della trasgressione penale. La norma penale non sottoscritta insieme con il contratto, è ingiusta. Ma può esistere un'altra regola capace di obbligare e dalla quale può anche discendere un sistema particolare di sanzioni penali, « Là dove non c'è stipulazione non possono esserci infrazioni, né, di conseguenza, colpevoli », ma tutto questo non esclude una sanzione penale stipulata, da applicare a colui che trasgredisce una particolare norma pattiziamente riconosciuta. La contestazione della norma penale e della punizione non stipulata non esclude inoltre, secondo Proudhon, l'esistenza di un giudizio morale che definisce il vizio e la virtù, l'azione buona e quella malvagia. Nelle stesse pagine nelle quali Proudhon condanna i sistemi penali si può leggere l'affermazione secondo la quale la popolazione carceraria è composta, nella maggioranza dei casi, da persone che non sembrano senza macchia. Ma il giudizio morale sulla bontà o sulla malvagità dell'azione non può essere, secondo Proudhon, delegato alla società o a un corpo istituzionalizzato. Esso appartiene solo all'individuo: « la giustizia è un atto della coscienza, essenzialmente volontario: ora, la coscienza non può essere giudicata, condannata o assolta che da essa stessa ». La pratica della pena, prosegue Proudhon, può trovare una giustificazione solo nel fatto, nell'esigenza di difendere la società. Essa è insomma una forma di autodifesa, indipendente da giustificazioni extrasociali, fondata sull'interesse alla sopravvivenza di un corpo sociale. «Che la società si difenda - scrive Proudhon - quando essa è attaccata, è nel suo diritto. Che essa si vendichi, a rischio di rappresaglie, può essere nel suo interesse ». Il diritto alla difesa, scrive ancora Proudhon, è simile al diritto di guerra, a un sistema di norme che disciplinano i rapporti tra nemici, a regole che non possono essere definite di giustizia ("sarebbe profanare questo nome santo" piuttosto di contrappeso. La norma che dovrebbe regolare la riparazione è, nel progetto proudhouiano, il risultato di una stipulazione ispirata a sua volta a un elementare principio di reciprocità. L'organo che dovrebbe stabilire il suo ammontare e infliggerla non è un corpo specializzato (cioè un corpo di giudici, corpo che, come si è detto, è destinato per Proudhon all'estinzione) ma una sorta di istituto arbitrale sempre variabile, composto da pari delle parti che contendono e non da funzionari dello stato. Il giudizio penale che viene prospettato è una sorta di arbitrato retto da regole più vicine a quelle del procedimento civile (o a quello penale accusatorio) che a quelle del rito penale di tipo inquisitorio.

In quel caso - scrive Proudhon - riducendosi l'istruttoria a una semplice convocazione di testimoni, tra il querelante e l'accusato, tra il litigante e la controparte non ci sarà bisogno di altro intermediario che non siano gli amici dei quali essi invocheranno l'arbitrato. «Dal momento in cui, secondo il principio democratico, il giudice deve essere l'eletto del giudicabile, lo stato si trova escluso dai giudici.»

Sanzione e società conflittuale

Proudhon, per trarre alcune somme, non contrappone alla pena l'alternativa del trattamento (terapia senza rimprovero o rimprovero morale senza coercizione) né quella stirneríana dell'autodifesa. Egli non fa derivare dalla sua critica della sanzione penale una concezione favorevole alla terapia, a una cura indeterminata nelle modalità e nella durata. La sua critica del diritto di punire affidato allo stato lo porta invece a proporre un diverso sistema di sanzioni che sarebbe riduttivo dedefinire soltanto come riparative. L'aspetto riparativo è quello più evidente, ma esso simboleggia plausibilmente un sistema di sanzioni radicalmente laico (senza rimproveri religiosi o morali) e insieme tassativamente determinato. Proudhon cerca di sfrondare la sanzione penale da ogni elemento etico. Non ammette nemmeno una valutazione morale che coesista, nella reazione sociale al delitto con giudizi di carattere diverso. Il giudizio morale viene affidato alla coscienza dell'individuo mentre alla collettività ' rimane il dovere puro di di rispondere al torto.

Il carattere non valutativo (dal punto di vista morale) della sanzione progettata da Proudhon risalta ancora di più se si pensa al modello di sanzione al quale egli si rifà: quello civile. Proudhon mostra, in quei rapidi passi, di cogliere l'ambiguità della pena (tra diritto ed etica) e di volerla risolvere modellandola su quelle sanzioni prive di rimprovero che sono proprie delle norme di diritto privato.

Simbolo della Croce Nera Anarchica

La portata dell'operazione compiuta da Proudhon si può cogliere meglio se paragonata a un'altra simile, ma di segno opposto, proposta da Jhering sedici anni dopo la comparsa dell'Idée. Jhering giustifica infatti la distinzione tra pena e sanzione civile (tutte e due reazioni ad azioni che si pongono in contrasto con le condizioni di esistenza della società giuridicamente tutelata) in termini funzionali, spiegando cioè la differenza tra i due tipi di sanzione in base ai diversi interessi della società e alle diverse possibilità di tutela dai due tipi di illecito. Questa spiegazione porta Jhering a prospettare l'estensione della pena come strumento di moralizzazione anche dei rapporti contrattuali; già troppo a lungo - egli scrive - la nostra legislazione è stata oziosamente a guardare come la scorrettezza, la disonestà e l'inganno si siano insediate sempre più sfacciatamente nei rapporti contrattuali, [... ]. Probabilmente dovremo fare ancora molta esperienza [...] per liberarci dal pregiudizio dottrinale, secondo cui l'ambito contrattuale sarebbe la palestra ideale per l'íllecito civile, preclusa per definizione alla pena.

Proudhon sembra condividere quella che Jhering chiamerà la necessità di superare il «pregiudizio dottrinale » della, distinzione tra conseguenze dell'illecito civile e conseguenze dell'illecito penale, ma la posizione dell'anarchico francese è indirizzata, a differenza di Jhering, a proporre un sistema di sanzioni indipendenti dal rimprovero e dalla censura morale, costruite sull'esempio di quelle sanzioni attraverso le quali le società moderne restaurano alcune offese alle norme di diritto privato. L'arbitrato, la dipendenza della norma dalla stipulazione non fanno ostacolo - va inoltre osservato - a una determinazione normativa della sanzione, non aprono la porta a un sistema di reazioni indeterminate e indiscriminate. In un celebre saggio, Stammier, la cui interpretazione dell'anarchismo come filosofia che rifiuta integralmente il diritto sta forse all'origine delle fortunate definizioni kelseniane sull'anarchia, riduce la posizione di Proudhon alla contrapposizione di un libero sistema di scambi all'ordine giuridico. Ma, come ha osservato Gurvitch, la concezione proudhoniana della stipulazione non è la contrapposizione delle volontà alla regola, essa può essere infatti anche interpretata come momento di un processo di riconoscimento di una norma. Il diritto riconosciuto attraverso la stipulazione non nasce infatti, per Proudhon, esclusivamente dalla volontà, esso non è soluzione arbitraria di casi particolari, non è diritto libero ma è dotato di una sua regolarità e uniformità perché il patto riconosce - è sempre Gurvitch a osservarlo - principi anteriori alla stipulazione. La stipulazione porta insomma alla dignità del diritto positivo, un diritto latente che le sta alle spalle. In questa concezione del diritto è possibile riconoscere inequivocabili elementi di giusnaturalismo. Prima della stipulazione e alla base della stipulazione sta infatti per Proudhon una regola di giustizia non rigida ed eterna, mutabile di pari passo con la nascita di "nuovi rapporti",ma che si pone come elemento di misura esterna del diritto positivo, come punto di riferimento rigido (anche se mutevole nel corso del processo sociale): « noi non giungeremo mai - scrive Proudhon - alla fine del Diritto, perché non cesseremo mai di creare tra di noi dei nuovi rapporti [...]. Il progresso della Giustizia [...] è una condizione dalla quale non ci è dato uscire ». La stipulazione sembra tuttavia rappresentare per Proudhon un temperamento delle possibili conseguenze assolutistiche che derivano da una concezione della regola di giustizia come anteriore alla norma positiva. Il processo di riconoscimento della regola non viene infatti affidato dallo scrittore a un'istituzione formale, alla volontà dello stato, ma viene attribuito alla volontà dei contraenti il patto. Alle origini della posizione di Proudhon sulla pena sta sicuramente il suo complesso rapporto con il pensiero di Rousseau e in particolare la sua critica a due tesi cruciali del ginevrino: la concezione del contratto, il capovolgimento della questione della teodicea. Proudhon critica l'ipotesi di un contratto sociale totalitario che si imponga all'individuo anche al di fuori di un'esplicita sottoscrizione, stabilendo norme di comportamento e sanzioni non previste tassativamente a momento del patto.

Pur differendo dalle concezioni individualistiche dell'anarchismo o per l'omaggio che egli fa alla società e all'ordine, Proudhon non divinizza la società, non riduce, secondo il modello comtiano, il diritto al dovere nei confronti della totalità, ma cerca di costruire un modello di ordine e di società nella quale, lo ricordava Piovani, è sempre fatta salva « la molteplicità degli individui socialmente conviventi ». Dal contratto totalizzante lo allontana la sua diffidenza verso le riforme «Paternalistiche », verso le panacee calate dall'alto e non realizzate attraverso il conflitto e il concorso degli uomini. Al fondo della sua filosofia sta quindi la fede « nell'autonomia degli uomini e nella ricostruzione dal basso del tessuto sociale »

Dall'impostazione totalizzante del contratto propria di Rousseau, Proudhon si distacca insomma con una concezione dell'ordine non fondata sulla devoluzione dell'io alla comunità ma sulla definizione di garanzie giuridiche (vere garanzie - per Proudhon - in quanto riconosciute da un accordo indipendente dalla volontà statale) che tutelino la « molteplicità » degli individui.

Oltre alla diversa impostazione e al problema del contratto, va considerata la critica, formulata nel Sistema, dell'ipotesí rousseauiana dell'innocenza originale dell'uomo e della responsabilità della società per l'esistenza del male. Proudhon, nella sua critica, mette in guardia dai rischi che possono derivare da tale ipotesi: quello soprattutto che essa possa legittimare l'esistenza di un sistema perfetto, compiutamente riformato, perfettamente ordinato, privo di contraddizioni. Un sistema che egli considera da un lato irrealizzabile (per l'ineliminabilità del male nell'uomo), dall'altro strumento di coercizione della molteplicità da parte della totalità rigenerata. La tesi proudhoniana dell'uomo buono e malvagio insieme, corre insomma parallela alla concezione di una società nella quale il conflitto è sempre previsto e nella quale il risarcimento dell'ordine, la risposta al torto, non deve essere occasione di prevaricazione di una parte della società su di un'altra.

Il modello offerto da Proudhon per la soluzione dei conflitti ricalcato, come si è visto, sul sistema giuridico degli scambi, sul contratto privato, sull'universo del diritto civile. Alla luce della storia del moderno diritto privato (e non solo in quei paesi nei quali ha prevalso la pubblicizzazione della economia ma anche in quelli nei quali la gestione dell'economia è ispirata a una ideologia di tipo liberistico), si potrebbe osservare l'illusorietà della prospettiva indicata dal pensatore francese. La regolamentazione dello scambio tende oggi a sfuggire alla dimensione dell'incontro delle volontà per collocarsi in quella dell'autorità. Non si è certamente realizzato il sogno jheringiano di una censura penale dell'infrazione nel campo del diritto privato ma sono state ugualmente sviluppate le regole pubbliche di imperio o di incentivazione-dissuasione nel mondo privato della produzione e degli scambi. Alla luce della moderna storia sociale si potrebbe ancora osservare che lo scambio si mostra sempre più intessuto di momenti autoritativi (monopolio, egemonia, scelte dello stato, politica economica) contraddicendo all'ipotesi di un sistema concorrenziale puro.

Sembra insomma che la storia del diritto e quella della società abbiano dato ragione alle critiche rivolte da Marx a Proudhon. In particolare all'accusa di aver confuso l'ideologia economica e le sue categorie con i rapporti sociali reali, e a quella di non aver riconosciuto la storicità e la transitorietà delle categorie sociali. Ma occorre riflettere anche sull'uso che, oltre Marx, è stato fatto delle contestazioni rivolte a Proudhon.

Il signor Proudhon - osservava Marx - soprattutto perché manca di conoscenza storica, non ha compreso che gli uomini nel mentre sviluppano le loro forze produttive, vale a dire mentre vivono, sviluppano determinati rapporti reciproci e che la natura di quei rapporti deve cambiare necessariamente con il mutamento e lo sviluppo delle forze produttive.

Questa affermazione è stata spesso la radice occulta della giustificazione di nuovi sistemi di controllo sociale che affiancandosi magari al mai soppresso strumento giuri ico ella punizione, tendessero alla massimizzazíone dell'ordine e dell'uniformità attraverso l'uso della scienza sociale piuttosto che della norma giuridica, attraverso l'introduzione di terapie rigenerative orientate all'osservanza verso li nuovi rapporti o verso quei rapporti che i titolari dell'autorità affermavano essere nuovi e giusti. Nei confronti di questi usi della contestazione di Marx a Proudhon c'è da domandarsi quale novità rappresenti la sostituzione al garantismo penale borghese (Jhering scriveva che « se Beccaria [...] non avesse elevato la sua voce contro l\'intemperanza delle pene, avrebbe dovuto farlo Adam Smith ») di altre tecniche di controllo sociale orientate verso la medicina dell'anima e l'emenda, che nella storia penale si sono sempre presentate come complemento del garantismo. E c'è da sottolineare la originalità del progetto proudhoniano che prefigura un modello di società nella quale conflitto, antagonismo, male, non siano destinati a scomparire, e nel quale quindi la trasgressione non vada considerata devianza rispetto alla normalità sociale dei nuovi rapporti, non vada esorcizzata con le due alternative dell'esclusione o della riforma, ma susciti una reazione determinata, non totale, autonoma in primo luogo rispetto ai giudizi morali, capace quindi di non soffocare le tensioni innovative che eventualmente possono aver stimolato la trasgressione e di lasciar emergere i conflitti dei quali essa può essere espressione.

Note

  1. Tratto da: Pio Marconi, Libertà Selvaggia - Stato e punizione nel pensiero Libertario, edizioni Marsiglio, 1979

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