La Comune di Fiume (da anarcotico.net)

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Punto esclamativo.png In quest'articolo vengono presentati una serie di scritti sull'occupazione fiumana (1919) da parte di Gabriele D'Annunzio che furono pubblicati qualche anno fa su anarcotico.net, un sito web anarco-individualista oggi non più attivo. Gli scritti, recuperati da web.archive.org, sono stati opera di uno stesso autore e fonte di numerose critiche. Vengono qui su Anarcopedia riproposti in quanto non è nostra abitudine cancellare le opinioni altrui, ma essi non costituiscono una voce enciclopedica. Gli aspetti puramente storici e le prerogative libertarie dell'impresa di Fiume si possono invece trovare nella voce intitolata «Impresa di Fiume».

La Comune di Fiume (articolo pubblicato sulla rubrica «L'Individualista» di anarcotico.net)

Il 12 settembre 1919 Gabriele D'Annunzio e i suoi eroici ed invasati legionari, febbricitanti d'azione, calarono da Ronchi presso Fiume irredenta, occupandola e liberandola tra il tripudio della plebe giuliva ed emancipata. Iniziava l'impresa di Fiume, e aveva preso corpo uno degli eventi più fulgidi e allo stesso tempo più degni di memoria e di rimpianto del secolo scorso; la Comune di Fiume e il fiumanesimo apparivano sulla scena del mondo, come uno schiaffo morale ebbro di audacia sul volto del potere e sprezzante tutto ciò che è borghese, normale, conformista. Per un breve istante felicità e libertà, vita e morte sarebbero coincise, si sarebbero possedute.

I quotidiani cattolici italiani non tergiversarono nell'attaccare l'inverosimile e sublime tenzone: già il 19 settembre Il Momento di Torino parlò dell'«inconsiderato gesto di D'Annunzio» e L'Italia di Milano il 21 settembre definì «efferato bolscevismo nazionalista» l'immortale e grandioso spirito che animava i legionari di Ronchi. Quanto sono imbecilli e idioti questi cattolici, magari credevano di vilipendere, non sapevano di rivolgere a questi rivoltosi uno dei più amabili fra gli omaggi.

Giuseppe Giulietti, segretario della Federazione Italiana Lavoratori del Mare, era stato fin dall'inizio un entusiasta sostenitore della Causa di Fiume e si era reso protagonista di uno degli episodi sovversivi più clamorosi dell'impresa fiumana: il dirottamento su Fiume, avvenuto il 10 ottobre 1919, della nave mercantile "Persia", carica di armi destinate alle truppe antibolsceviche della Russia. L'azione venne rivendicata da Fiume nei seguenti termini:

«In difesa del proletariato russo abbiamo fatto del nostro meglio per impedire tale trasporto... I mezzi che dovevano servire a combattere la libertà e la redenzione del popolo russo serviranno per la libertà e la redenzione del popolo fiumano»

Il 15 ottobre 1919 Gabriele D'Annunzio scriveva al capitano Giulietti:

«La bandiera dei Lavoratori del Mare issata all'albero di maestra, quando la nave "Persia" stava per entrare nel porto di Fiume con il suo carico sospetto, confermò non soltanto la santità ma l'universalità della nostra causa. La federazione dopo averci arditamente mostrato il suo consenso e dato il suo aiuto, ci fornisce armi per la giustizia, armi per la libertà, togliendole a reazioni oscure contro un altro popolo, non confessate. Teniamo le armi e teniamo la nave. Adopreremo le armi, senza esitazione e senza misura, contro chiunque venga a minacciare la città che abbiamo per sempre liberata. D'accordo con te e con i tuoi compagni, consideriamo la nave come un pegno contro la malafede che di indugio in indugio tenta di sottrarsi alle promesse e ai patti. E confidiamo che la Federazione ci sostenga con tutta la sua potenza a impedire che il governo antinazionale distrugga a profitto di stranieri l'ordine commercial fiumano e continui a rovinare il traffico del porto e ad affamarne i lavoratori. Ringrazio te che all'improvviso ci hai portato il tuo ardore allegro, il tuo vigore costruttivo, la tua fede guerreggiante. E nuovamente ringrazio i quattro tuoi Arditi che mutarono la rotta della nave dolosa con un colpo maestro,rapido, preciso,irresistibile, nello stile dei Ronchi. Dalla carbonaia nera, come dal nostro cimitero carsico, balzò lo spirito. La causa di Fiume non è la causa del suolo: è la causa dell'anima, è la causa dell'immortalità. Questo gli sciocchi e i vigliacchi ignorano o disconoscono o falsano. Tutti i miei soldati lo sanno, lo hanno compreso e divinato. È bello che lo sappiano e l'abbiano compreso così vastamente i tuoi Lavoratori del Mare. Dall'indomabile Sinn Fein d'Irlanda alla bandiera rossa che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, tutte le insurrezioni dell spirito contro i divoratori di carne cruda sono per riaccendersi alle nostre faville che volano lontano. Il mio compito di lavoratore del Carnaro, caro compagno, consiste nel far prevalere e risplendere la bellezza ignuda e forte della conquista da me presentita. Arrivederci, capitano Giulietti. Certo, il buon sale marino preserva la federazione da ogni corrompimento. Siamo tranquilli. E, se tener duro è bene, assaltare è meglio.»

Lo storico e critico letterario Umberto Carpi provò la presenza in Fiume del fuoriuscito ungherese Miclos Sisa, ex commisario del popolo nel governo dei Consigli ungherese di Bela Kun [1], che in seguito diventerà cittadino sovietico servendo la causa dell'U.R.S.S. come funzionario presso varie ambasciate e consolati. Sisa partecipò sicuramente alle discussioni sul progetto di Costituzione della Carta del Carnaro, riconoscendo che questo conteneva ammirevoli elementi ed ebbe un ruolo di primo piano insieme al poeta internazionalista e rivoluzionario belga Leone Kochnitzky, alla progettazione della Lega di Fiume, cioè l'associazione che avrebbe dovuto raggruppare le forze sparse di tutti gli oppressi: popoli, nazioni e singole individualità che attraverso questo mezzo avrebbero potuto combattere e vincere l'imperialismo.

Giulietti organizzò un incontro con l'anarchico Malatesta e i socialisti rivoluzionari Bombacci, il quale godeva di notevoli simpatie tra i legionari fiumani dannunziani, a partire da Nino Daniele, che successivamente subirà a Torino un'aggressione da parte di squadristi fascisti, e Serrati. Si trattava di discutere del progetto rivoluzionario che D'annunzio e il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris - uno dei principali artefici della sublime, immaginifica e rinascimentale Carta del Carnaro, un uomo ancora oggi nel cuore dei rivoluzionari antiborghesi più ferventi e appassionati - vagheggiavano colmi d'entusiasmo: la Poesia al posto di comando, per finirla con ogni comando. L'incontro si svolse a Roma il 19 gennaio 1920. Malatesta e Bombacci furono pronti ad aderire ma Serrati rifiutò, dicendo di non sentirsela di fare la rivoluzione con D'Annunzio. Sarà sempre il socialista rivoluzionario massimalista Giacinto Menotti Serrati, sedicente "comunista unitario" ma in realtà elezionista, che nel gennaio 1921 a Livorno preferirà rompere con le varie componenti che daranno vita al Partito Comunista d'Italia piuttosto che liquidare Turati e i suoi fidi, che egli considerava fedeli alla linea del partito e diversi dagli altri riformisti europei, mai caduti come questi ultimi nella tentazione dello sciovinismo, dell'interventismo e dell'"union sacrèe". Intanto, oltre ai serratiani anche i fascisti di Mussolini ordivano trame di tradimento vigliacco, occultati nell'ombra come ragni e suggenti gli appoggi dei grandi gruppi finanziari, industriali e agrari, e agivano contro la causa di Fiume e la sua solatia Reggenza. Le sanguisughe indicevano sottoscrizioni per la causa di Fiume i cui proventi servivano invece per prezzolare gli squadristi dello Stato e del Capitale nella loro opera di persecuzione degli oppressi. Un libertario come D'Annunzio, profeta del proletariato dei Geniali, non avrebbe mai potuto tollerare siffatte fellonie. Dunque, una possibile rivoluzione, unica, originale ed irripetibile, abortì sul nascere e il Natale di sangue 1920 pose il suo sigillo di strage al periglioso e illuminato esempio di azione diretta che fu la fatica di Fiume: l'Esercito regolare del capitalismo italiano non ebbe pietà e schiantò l'incantato sogno.

Nel 1921 D'Annunzio e i suoi legionari presero nettamente le distanze dai feroci ed infami fascisti, che per darsi un'aura di rivoluzionarismo avevano accreditato una presunta loro vicinanza spirituale alla rivolta fiumana. Nel settembre 1922 sorse a Milano un Comitato sindacale dannunziano, annunciando un programma di assoluta indipendenza da qualsiasi partito, invocando la convocazione di una Costituente sindacale per realizzare l'unità operaia, contro gli speculatori e contro i fascisti. D'Annunzio veniva indicato dal Comitato come l'uomo più adatto a condurre a termine l'impresa, dalla quale poteva avere inizio un più vasto movimento politico contro la politica e il sempre atteso rinnovamento della vita nazionale. Ma ormai il generoso tentativo di mediazione di Giulietti era caduto: un tentativo di insurrezione attuato da D'Annunzio e dagli anarchici individualisti, chissà a quale immenso rogo purificatore avrebbe portato! Ma il fuoco della rivolta arde ancora nei petti di coloro che nonostante tutto non si arrendono alla normalizzazione borghese. I bagliori della notte sfolgoreranno e si consumeranno ancora! Noi non abbracceremo un cavallo per la via in lacrime ma porremo gli insegnamenti di Stirner e di Nietzsche al di sopra di tutto. Noi porremo il nostro IO divino al di sopra di tutto!

«Il fiumanesimo è la religone nuova del dopoguerra. È la fiamma superstite delle stragi e delle decomposizioni che hanno sgretolato la coscienza dei popoli in cerca di pace. È la tenace volontà che rinnova e continua la vita, esaltandola nel calore del coraggio e della libertà. Guai a chi resta immune di fiumanesimo! L'avvenire non è per lui» [...] (Mario Carli)
«Qualunque sforzo di liberazione non può che partire da Fiume, dove le nuove forme di vita non soltanto si disegnano ma si compiono; dove il cardo bolscevico si muta in rosa italiana: in rosa d'amore» (Gabriele D'Annunzio )

Gabriele D'Annunzio anarco-individualista (articolo pubblicato sulla rubrica «L'Individualista» di anarcotico.net)

Alceste De Ambris (1874-1934), il sindacalista rivoluzionario italiano che consacrò l'intera sua esistenza alla lotta senza esclusione di colpi e senza requie contro lo Stato borghese prima, contro il fascismo e le sue vigliacche e tiranniche consorterie poi, morendo in esilio, in Francia, così come decessi in esilio, vittime dell'ostracismo espresso e sanzionato dall'infida plebe, furono i migliori tra gli esseri umani che calcarono la nostra brulla terra, da Dante Alighieri a Napoleone I Bonaparte, da Nestor Makhno a Lucio Sergio Catilina, Alceste dunque scriveva a questo modo in un articolo emesso su "L'Internazionale", organo della Camera del Lavoro sindacalista rivoluzionaria di Parma, già una delle voci dell'interventismo rivoluzionario del 1914-1918 e poi del sindacalismo dannunziano, intitolato "D'Annunzio e il proletariato" e pubblicato il 3 dicembre 1922: «L'amico Tommaso Bruno, in un suo articolo "Chiarificazione" ha espresso con riguardosa franchezza le preoccupazioni che tormentano l'animo di molti lavoratori quando pensano a D'Annunzio. Molti fra i più sinceri militanti della causa proletaria, sono infatti divisi fra la speranza e il timore, e chiedono perciò "che si chiuda il ciclo malinconico di induzioni, indagini e ricerche sul pensiero dannunziano; pensiero che tutti forse interpretano in modo più rispondente alle proprie aspirazioni, ai propri sentimenti, che non ai sentimenti ed alle aspirazioni dell'uomo stesso, verso cui tanti sguardi si protendono».

Io comprendo questo stato d'animo pur senza condividerlo; ma credo che si possa trovare la certezza richiesta con tanta ansia anche senza pretendere da Gabriele D'Annunzio una definizione geometrica del suo pensiero, che repugna alla natura del pensiero stesso. Quello che noi abbiamo il diritto di chiederci è la direzione in cui costantemente si mantiene e si sviluppa, il pensiero dannunziano, fermandoci sulle espressioni veramente significative di esso e trascurando certi episodi cui dà rilievo il pettegolume della cronaca giornalistica.

Fanno ridere coloro i quali giudicano che si debba ritenere D'Annunzio, volta a volta, fascista, socialista, comunista, liberale, perché riceve Finzi, Baldesi, Cicerin, Orlando.

Anzitutto: quando mai è stato adottato il criterio d'interpretare il pensiero di un cittadino in base all'elenco degli uomini con i quali ha avuto contatto? E poi: è lecito credere che D'Annunzio possa subire influenze modificatrici delle sue direttive per il fatto di conversare qualche ora con un uomo politico? Se c'è al mondo una individualità spiccata, autonoma, libera fino alla più assoluta libertà spirituale, organicamente incapace di subire qualsiasi influenza esteriore-anche dei suoi più devoti e più vicini-quella è certamente l'individualità di D'Annunzio. Lo sa bene chi lo conosce, ed Egli stesso l'ha detto nella prefazione di quel suo libro "Contro uno e contro tutti" che gli italiani hanno il torto di non conoscere abbastanza:

«Intanto io preservo la mia azione, pur contro i miei stessi partigiani: chè in tutti i partigiani anche fidi è la smania nascosta o mal dissimulata di vincolare il capo. Sul camino di una mia casa vecchia era scritto: "Chi 'l tenerà legato?" Distrutta è la casa, ma sopravvive lo spirito indocile dell'elemento».

Così gli accaparramenti del nome e della personalità di D'Annunzio, tentati di continuo con le più audaci mistificazioni, che vogliono essere astute e sono soltanto gaglioffe, riescono sempre allo scopo contrario, ed hanno torto coloro che di tali conati inani s'impensieriscono.

Ma quali sono le direttive del pensiero dannunziano nel campo sociale e politico; che è quello di cui s'interessa il popolo lavoratore? Cominciamo con lo stabilire che voler incasellare D'Annunzio in un partito od in una scuola, appioppandogli qualsiasi tessera, sarebbe come voler costringere un'aquila a stare dentro una stia di galline. D'Annunzio è un tipo d'eccezione e come tale non può essere il partigiano di una dottrina quale che essa sia. Egli obbedisce ad una sua logica intima che supera i dettami della logica comune, armonizzando in una sintesi il cui processo sfugge spesso alla nostra comprensione di uomini medi, elementi fra loro in apparenza contrastanti. Per questo bisogna saperlo intendere lasciandoci guidare piuttosto dalla fede, che non dal freddo ragionamento. E sopra tutto non bisogna chiedere ad un uomo siffatto di piegarsi al consueto costume del partito politico e dell'organizzazione economica.

Ciò non vuol dire che nella espressione del pensiero di Gabriele D'Annunzio non si possa rintracciare una costante direttiva. Ogni qual volta la Sua arte toccò i temi che più ci interessano, si espresse sempre nel medesimo senso, anche quando il Poeta sembrava più lontano dall'anima del popolo. C'è un dramma intitolato La Gloria che i più hanno dimenticato. In quel dramma «che fu incompreso e vilipeso», Gabriele D'Annunzio esprimeva la sua luminosa visione di quella libertà politica che noi pure vorremmo vedere instaurata in Italia:

«Vi ricordate voi di quel suo discorso sul fiorire dei Comuni? E di quell'altro su le Repubbliche? Quando mai le virtù attive di un popolo, la varietà delle opere, la sapienza degli istituti, la prevalenza degli ottimi, il fervore della passione civica, l'impronta dell'uomo su la cosa, l'utensile fatto vivente, le pietre adunate da un decreto di gloria, la potenza pubblica espressa dall'edifizio, la città scolpita come un simulacro, tutta quella grande concordia discorde che costituiva lo stato libero, quando mai ebbero un dimostratore più efficace e più caldo?».

Ed anche, in quel dramma, era annunziato l'avvento dei lavoratori della terra nella rappresentazione del «rito romano dell'investitura agli uomini della gleba, il dominio della terra trasmesso agli inviati delle Federazioni rurali, sul Campidoglio riconsacrato nel segno del Vomere. La supremazia del contado oggi sarebbe giusta. Nel decadimento di tutte le classi, il contadino-forte, rude, sobrio, tenace, sano-non è oggi il migliore? Essendo il migliore, sarebbe giusto che egli regnasse».

Questo nel 1899, quando al lavoratore della terra era conteso ogni diritto, a cominciare dal diritto di sciopero. Chi non ricorda il Canto di Calendimaggio? E lo spirito che anima il poema Laus Vitae? Ivi non si canta soltanto l'eroismo glorioso, ma una umana uguaglianza ed una divina giustizia.

Ma se le parole del vecchio dramma suonano lontane nel tempo e se la poesia è così difficile ad essere compresa, vi sono di Gabriele D'Annunzio parole recenti e troppo chiare per aver bisogno di sforzo interpretativo: ad esempio, un brano del vietato discorso che Egli avrebbe dovuto pronunziare in Roma il 24 maggio 1919:

«Se il popolo italiano avesse l'ardire di trapassare, senza esitazioni e senza conciliazioni, da un regime rappresentativo bugiardo a una forma di rappresentanza sincera che rivelasse ed innalzasse i produttori veri della ricchezza nazionale contro i parassiti e gli inetti della odiosa casta politica non emendabile, le sette e sette vittorie dell'Alpe, del Carso e del Piave impallidirebbero davanti a questa meravigliosa vittoria civile. Ma non abbiamo noi fatta la guerra per giungere a questo? La nostra guerra non l'abbiamo noi guerreggiata per giungere ad un rinnovamento vittoriale? Non intendevamo che fosse questa la causa dell'Anima delle reclute del '99 e del '900, gli ultimogeniti della gran madre sanguinosa? La rivincita non è sognata e non è premiata se non dai vinti. Ma se tanto il popolo italiano volesse o potesse, per una volta i vincitori veri avrebbero la rivincita vera».

Ma tutte queste espressioni d'arte non avrebbero per noi se non un valore relativo, se non fossero state confermate dagli atti. Non ricorderò il gesto di Gabriele D'Annunzio alla Camera dei Deputati: nel 1900, quando passò all'estrema sinistra- durante l'ostruzionismo- per andare "verso la vita". Mi basterà di ricordare fatti assai più vicini, compiuti da lui quando aveva una enorme responsabilità, durante l'impresa di Fiume. Il senso più intimo e vero di questa impresa sfuggì a quasi tutti: a chi la vide e la esaltò come la conquista di alquanti chilometri quadrati di terreno e di un porto importante, ed a chi credette di doverla deprecare come l'estremo e più pericoloso conato di un imperialismo frenetico. A capire D'Annunzio e l'opera sua non rimasero in realtà che pochi giovani semplici, ingenui, cui la guerra aveva dischiuso l'anima all'eroismo che si prodiga per l'Idea pura, al sacrificio che non cerca compenso. Non li guidava il ragionamento gelido ma una fresca spontanea intuizione fatta di ardore e di fiducia. Essi non tentavano di analizzare D'Annunzio, e molto meno ancora di attribuirgli i loro pensieri o di vincolarlo ai loro interessi: sentivano d'istinto che Egli era lo spirito vivo della stirpe e lo seguivano con assoluta fede e con purità di cuore. Questa breve schiera vide D'Annunzio-il Comandante di Fiume-schierarsi apertamente a lato degli operai, quando questi fecero lo sciopero generale, nell'aprile del 1920, per ottenere il minimo di salario, ed esaltò il Comandante nella affermazione del nuovo diritto sociale consegnata nella Carta del Carnaro.

«(...) Il proletariato italiano, che ha già commesso un primo errore scambiando la rivoluzionaria impresa di Fiume per un tentativo reazionario, in base a false informazioni ed a tendenziose induzioni, vorrà ancora una volta misconoscere e rinunziare all'immenso valore spirituale che D'Annunzio potrebbe recargli, mantenendosi sospettoso-od almeno incerto-perché il Comandante non crede di dover sciupare il suo tempo a rettificare corbellerie di giornalisti faciloni o a controbattere speculazioni dei politicanti poco scrupolosi?».

Nino Bixio, scrivendo alla moglie il suo stato d'animo nel trovarsi accanto a Garibaldi, diceva: «Io mi trovo nella poesia». Non facciamo accostamenti per numerose ragioni, ma possiamo dire che vicino a D'Annunzio giovani e anziani, colti o non colti, spiriti semplici o anime complicate, tutti si trovavano, vicini a Lui, nella poesia; oggi quella poesia rimane a trasfigurare molti degli aspetti umani della vita del Poeta, ma rimane soprattutto un materiale che non può essere letto che nella sua concretezza effettiva, per quello che dice, non per quello che chiosatori interessati vogliono fargli dire. D'Annunzio ha sbalordito tre o quattro generazioni e ora sconta questa vendemmia orgiastica: i sopravvenienti non sanno perdonare a chi ha fatto man bassa di tutto durante un lungo cammino.

Gabriele D'Annunzio troppo spesso ha giocato a nascondersi, ad apparire quello che non era, e ha spesso annunziato questo suo gioco delizioso di luci ed ombre: «Ho abbacinato i miei fedeli perché vacillassero, ho deluso i miei partigiani perché mi tradissero», ha detto nelle Cento e cento e cento e cento pagine del Libro Segreto di Gabriele D'Annunzio tentato di morire (1935), ma era questa un'affermazione che corrispondeva a considerazioni retrospettive in un momento di ripresa orgogliosa della sua personalità di artista solitario, nè riusciva ad annullare con essa le vibrazioni commosse e immediate che lo assalirono numerosissime di fronte ad un problema presentatosi alla sua fantasia di poeta, o alla sua mente di uomo.La grandezza inalterabile e cristallina della sua eccelsa Individualità gli consentiva di operare quei suoi funambolici acrobatismi politico-cerebrali.

Caro, dolcissimo, soavissimo, pertinace Comandante, che davvero la matrigna e dolente terra possa esserti lieve e ti avvolga in un benigno e febbrile abbraccio: sempre ti idolatreremo, o D'Annunzio, non defletteremo mai nella lotta contro gli speculatori e i loro servi, le canaglie fasciste, come tu li nomavi e vituperavi saviamente e con ciò onoreremo la tua feconda e nivea memoria, il tuo incorrotto ed incontaminato Spirito, che soltanto le Alte Idealità movean a pugnare. Per la Santa Causa dell'Anima, per la Purezza e la Rivoluzione Spirituale, noi ci eterneremo a te devoti, o Soggetto senza limiti.

La via degli infami, dei traditori, dei vili e degli schifosi che venne aperta ed inaugurata da Enrico De Marinis, il deputato socialista che seguì affranto e a capo chino il corteo funebre in suffragio di Umberto I di Savoia Re d'Italia, giustiziato dal santo Gaetano Bresci, officiante umbratile e misterioso della Religione del Nulla, è lastricata dai suoi numerosi e medagliettati e solenni e sporchi e luridi e lordi epigoni.

Nostro compito è quello di schiantarla, di disossarla, quella laida via, con un necessario e necessitante botto. Sapremo ben valere. Noi rifiutiamo la orrida e mistificante realtà borghese e plutocratica odierna. Patologicamente ma sacrosantamente.

Che il grido di battaglia lanciato dalla Lega di Fiume e ripreso dai feniani irlandesi e dagli indipendentisti egiziani, dai nazionalisti indiani e dai comunisti ungheresi, dai socialisti belgi e dagli avventurieri americani, dai senzapatria giapponesi e da quegli anarchici italiani, volontari e legionari fiumani dannunziani, indifferenti e superiori all'ortodossia malatestiana e alle reprimende pretesche e beghine e bigotte e baciapile di Luigi Fabbri, quegli individualisti immacolati tratteggiati così supremamente da Umberto Foscanelli, possa divenire anche la nostra prece e la nostra invettiva insieme.

Giovanni Giolitti, nelle sue Memorie della mia vita, Garzanti Editore, Milano 1945, ricorda così un episodio del 1915: «In un comizio tenuto al Teatro Costanzi a Roma, vicino a casa mia, il D'Annunzio incitò il pubblico ad ammazzarmi; e difatti la folla, uscendo dal teatro, si diresse tumultuosamente verso casa mia. Gli agenti di polizia la lasciarono passare, ma uno squadrone di cavalleria e un plotone di carabinieri l'arrestò e non permise che arrivassero a me».

Davvero ancora oggi, è un immenso cruccio che continuamente rimugino e non sono in grado di rimuovere, un lutto (mancato) che non sono nelle condizioni di elaborare, il fatto che una revolverata liberatrice non sia seguita agli allettanti auspicii e proponimenti del Vate. Noi non obliamo invece a quel comando risolutore e sempiternamente rispetteremo la consegna: agli ordini, o Comandante, Gabriele D'Annunzio, Ernesto Che Guevara italico, ultimo italiano figlio delle Muse!

«D'Annunzio non si è contentato di chiudersi nel mondo dei suoi sogni, e ha tentato violentemente di uscirne, trasferendo la celebrazione dell'attività individuale dal chiuso della poesia nel campo aperto e discorde della vita sociale» (Luigi Russo).
«Forse bisognerà dimenticare l'epiteto di poeta della lussuria che non gli risponde a pieno. D'Annunzio si è valso della lussuria per una sorta di conoscenza e una sorta di ascesi. Quel che per altri è piacere, per lui è sacrificio e conoscimento. In nessuno degli scritti ascetici, che sono stati forse la sua più forte passione letteraria, si troverà contemplata e indagata la morte come nei suoi libri erotici: la carne non è se non uno spirito devoto alla morte. In questo senso nessuno è stato più carnale di Gabriele D'Annunzio, devoto costante alla morte. Non solo egli s'è visto più volte e s'è descritto morto... egli ha temuto la morte. La sua devozione nasce, come nei primitivi, dall'orrore del suo Dio o demone. Che egli l'abbia cercata, la morte, che ne sia stato tentato, non significa che non la tema... Egli sente come la morte sia l'esperienza maggiore; più grande dell'amore; più decisiva dell'arte; più pericolosa dell'eroismo tragico. Ma essa è anche l'unica esperienza che non consenta ritorni. Egli vorrebbe arricchire la sua vita con la morte» (Pietro Bargellini).

Il fallito complotto anarfuturista del 1920 (articolo pubblicato sulla rubrica «L'Individualista» di anarcotico.net)

Il Trattato di Rapallo [2], finalmente suggellato il 12 novembre 1920, risolveva la questione adriatica con un vile compromesso che accontentava i maggiorenti delle borghesie italiana e jugoslava e poneva sostanzialmente termine alla clamorosa avventura fiumana. Di primo acchito e in un momento di profondo sconforto e di dolente incertezza, D'Annunzio dichiarò di preferire la morte alla resa. Fedele al motto che aveva coniato per i suoi baldi legionari - Mori citius quam deserere - per qualche settimana egli si cullò nella visione di una Fine Eroica e Gloriosa. «Per Fiume, per le Isole, per la Dalmazia, noi otterremo tutto quello che è giusto», declamò il Comandante il 5 dicembre 1920, alla notizia dei disordini di Zara. E proseguiva: «Ma, se questo non potessimo ottenere, se non potessimo superare con un balzo prodigioso l'iniquità degli uomini e l'avversità delle sorti, io vi dico sul mio onore che tra l'Italia e Fiume, tra l'Italia e le Isole, tra l'Italia e la Dalmazia resterà per sempre il mio corpo sanguinante».

Tre settimane dopo, durante i tragici giorni del Natale di Sangue, durante il bombardamento di Fiume dal mare, una cannonata dell'"Andrea Doria" poco mancò di realizzare questo orrendo ed infame proposito, risolvendo d'un tratto ogni controversia e liberando d'ogni molestia il Governo del Re e della Borghesia con l'eliminazione del più impavido ed eroico individuo generato nel Secolo Diciannovesimo tra le italiche genti.

«Per loro sfortuna - disse in quel frangente D'Annunzio rivolto ai potenti d'Italia - la testa di ferro è stata soltanto incisa». Ma l'amaritudine in quegli istanti lo dominava: "Non vale la pena di gettare la propria vita in servigio di un popolo che non si cura di distogliere neppure per un attimo dalle gozzoviglie natalizie la sua lorda ingordigia, mentre il suo degno Governo fa assassinare con fredda determinazione una gente di sublimi virtù come la fiumana». Ma all'ultimo, retoricamente D'Annunzio si domandava, facendo vibrare qualche corda nei cuori non del tutto induriti dal volgare cinismo della politica giolittiana: «Ci sono di là dall'Adriatico italiani che, incapaci di sollevarsi e di compiere infine giustizia, sentano almeno la vergogna?».

C'erano, questi italiani. E non erano tutti legionari. Anche tra gli anarchici di tendenza individualista molti avevano continuato a sperare che la miccia di Fiume non si sarebbe spenta. Nel giugno 1920 Randolfo Vella, corrispondente di Umanità Nova, aveva visitato la Reggenza del Carnaro, compiendo quella celeberrima e fragorosa intervista al Vate nel quale costui aveva pronunciato il suo famoso auspicio per l'instaurazione del "comunismo senza dittatura" e pubblicando un resoconto di intonazione favorevole sulle cose che aveva veduto e le accoglienze che aveva ricevute. Nella succitata intervista stampata da Umanità Nova il 9 giugno 1920, all'ingenuo malatestiano Vella che gli aveva chiesto, stupito: "Lei è per il comunismo?", D'Annunzio aveva replicato impassibile e senza scomporsi, con aristocratico distacco: «Nessuna meraviglia, poiché tutta la mia cultura è anarchica, e poiché è radicata in me la convinzione che, dopo quest'ultima guerra, la storia scioglierà un novello volo verso un audacissimo lido. È mia intenzione di fare di questa città un'isola spirituale dalla quale possa irradiare un'azione eminentemente comunista verso tutte le nazioni oppresse. Io ho bisogno di non essere calunniato da voi sovversivi; poi vedrete che la mia opera non è nazionalista».

Con la consueta supponenza arrogante e settaria, l'organo che sarebbe poi diventato l'attuale bollettino rivoltante e nauseabondo della F.A.I., per mezzo di una nota redazionale chiosava, quello stesso giorno e a commento dell'intervista, che sarebbe stato meglio se D'Annunzio fosse andato "a far dei versi". Notazione ineccepibile, sempre che coloro che l'avessero fatta fossero stati poi in grado di fare quella Rivoluzione di cui si accusava il Poeta di essere incapace di attuare, perso nelle sue "fisime medievali". Ma in ogni momento, e quindi anche in quello, i malatestiani dimostrarono di non smentirsi mai; e in un certo qual modo, la coerenza della loro costante miopia va pertanto riconosciuta.

Frattanto, quegli italiani che sentirono la vergogna del bombardamento di Fiume e che cercarono di «sollevarsi e compiere infine giustizia», così come aveva invocato il Comandante, si fecero vivi in quel di Milano, dove la sorveglianza esercitata nei confronti dei sovversivi era svolta con modalità oltremodo ossessionanti. Così il 28 dicembre 1920, informato del fatto che la sera prima una decina di persone aveva tenuto un misterioso e carbonaro convegno dietro le scuole dei bastioni di Porta Volta, il questore preparò un'imboscata che, col favore di una nebbia fittissima, riuscì alla perfezione. Il quotidiano radicale di Milano Il Secolo nel suo numero del 31 dicembre 1920 in questa guisa ricostruiva la vicenda:

«Gli agenti si appostarono dietro le piante, circondarono la scuola, vigilarono senza essere visti tutti gli accessi. Mano mano che delle persone spuntavano agli ingressi della trappola tesa, venivano acciuffate. Un camion era pronto, a una certa distanza, a raccogliere gli arrestati. L'operazione di sorpresa riuscì benissimo, in silenzio, animandosi soltanto allorchè comparve l'anarchico Annunzio Filippi, fratello di quel Bruno Filippi che morì sfracellato dalla bomba da lui deposta dentro un ammezzato della Galleria Vittorio Emanuele. Avendo il Filippi scorto gli agenti nell'ombra, si diede alla fuga. Per riuscire meglio estrasse una rivoltella carica, come fu visto poi, di sette colpi. Il Filippi riuscì a percorrere un breve tratto di corsa; ma vedendo che da ogni albero sbucavano guardie pronte a sbarrargli il passo si fermò, abbassando l'arma. Fu preso. Nelle tasche aveva una scatola di zinco contenente materie esplosive. L'arrestato possedeva anche otto detonatori».

La retata terminò verso la mezzanotte. Il bilancio fu di trenta arrestati. Solo uno dei presenti, oltre ad Annunzio Filippi [3], risultò in possesso di un'arma: il legionario fiumano Cesare Cerati. Delle trenta persone arrestate dodici furono rilasciate il giorno dopo, avendo potuto provare la propria assoluta estraneità al convegno. I diciotto trattenuti vennero classificati politicamente dal vicecommissario Rizzo, che aveva diretto l'operazione o meglio la spedizione punitiva, in quattro gruppi: anarchici, arditi di guerra, legionari fiumani, sindacalisti dannunziani.

A parte Cerati, che aveva passato la trentina, erano tutti molto giovani: il più anziano aveva ventiquattro anni, il più giovane diciassette. Tra essi, oltre a Filippi e Cerati, c'erano gli anarchici Aurelio Tromba, fornaio, Ettore Aguggini, meccanico, Antonio Pietropaolo, studente. A piede libero, per complicità, venne denunciato il capitano Mario Carli, scrittore futurista, volontario tra gli Arditi durante la Grande Guerra, da poco lasciatosi alle spalle la Repubblica dei Sindacati di Fiume e trasferitosi a Milano dove dirigeva il periodico dannunziano fondato proprio a Fiume nel corso del 1920 dal titolo La Testa di Ferro, e i cui legami con anarchici individualisti come Renzo Novatore e Auro D'Arcola alias Tintino Persio Rasi erano profondi e notori; sulle colonne del suo giornale si era svolto un interessante dibattito sul tema delle relazioni tra futurismo ed anarchismo, a cui aveva partecipato anche Carlo Molaschi, seppure in posizione critica, già sul crinale di essere infettato dalla cancrena malatestiana-organizzatrice. Il periodico di Mario Carli si era pericolosamente esposto in quei giorni con una feroce campagna contro il Trattato di Rapallo, esortando gli italiani ad imporre con qualsiasi mezzo allo schifoso governo di riconoscere la Reggenza del Carnaro ed invitandoli a sbarazzarsi in un sol colpo della monarchia, del sistema parlamentare e del papato, che con il loro penetrante fetore ammorbavano l'italo suol dove, come diceva l'Alighieri, "dolce risuona il Sì".

Secondo le dichiarazioni rese alla stampa, la questura aveva accertato che lo scopo della riunione era di organizzare un attentato contro le centrali elettriche di Via Gadio e di Viale Elvezia: piombato nel buio il capoluogo lombardo, altri attentati sarebbero seguiti, secondo un preciso piano insurrezionalistico. La trama fu giudicata da molti organi borghesi come sterile e puerile, "Il Popolo d'Italia", ad ogni buon conto, si affrettò a denunciare questi accordi - tra anarchici e dannunziani - che non possono avere alcun valore politico"; se infatti una salda alleanza si fosse concretata tra queste componenti sovversive, tristi giorni si sarebbero profilati per i mondani e reazionari piani fascisti. Sull'organo dei Fasci si leggeva il 4 gennaio 1921: «Non si concilia la teoria della diserzione coll'adempimento del dovere di Patria; non si mettono nello stesso seguito la Nazione e l'antinazione. Non si fanno certe unioni contro-natura". Il moralistico ed utilitaristico messaggio contenuto in queste parole richiama senza dubbio alla mente espressioni analoghe che nel campo dell'Anarchismo Ufficiale venivano sentenziate dai capoccia a giustificazione della propria perversa ignavia e della propria sciocca pedanteria settaria e legalitaria, allora come oggi, da sempre. Gli individualisti, dal canto loro, non rinunciarono alle distinzioni: "Per la storia, ci teniamo a far rilevare un fatto: i dannunziani non vanno confusi con i fascisti poiché un abisso li divide».

Il 5 gennaio 1921 il questore, secondo una prassi divenuta ormai abituale, chiedeva al procuratore del re sei giorni di proroga per le indagini. Scaduti i sei giorni della proroga, la pratica passava al giudice istruttore. Tranne Cerati, Tromba e Filippi, tutti gli arrestati venivano rimessi in libertà. L'intero caso si sgonfiava e le cose prendevano una piega diversa, fermo restando l'insolita intesa creatasi che ricordava alcuni complotti anarrepubblicani che avevano avuto luogo a Roma nel 1919. Dei tre inquisiti non si parlò più fino all'estate, quando fu celebrato il processo.

Il 21 luglio 1921 i tre imputati comparvero davanti alla Corte d'Assise di Milano dopo quasi sette mesi di carcere preventivo, insieme a Mario Carli e ad un altro futurista, imputati a piede libero, di complotto contro la sicurezza dello Stato. Essi avevano, secondo l'atto d'accusa ripreso da Il Secolo del 21 luglio medesimo, «concertato e stabilito di commettere il fatto diretto a far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i poteri dello Stato, incitando con la stampa la cittadinanza a prendere le armi contro i detti poteri per la questione di Fiume, radunando persone a convegno a Milano le sere del 27 e 28 dicembre 1920, munendosi di armi da fuoco e di un ordigno esplosivo e stampando un supplemento straordinario del periodico La Testa di Ferro, con un vibrato appello alla sommossa a mano armata».

Il dibattimento ridusse il complotto alle giuste proporzioni. Cerati disse che lo scopo della riunione era quello di preparare delle dimostrazioni per indurre il governo a togliere il blocco di Fiume. Annunzio Filippi, la cui rivoltella era pure guasta, dichiarò di non sapere che la scatola era una bomba e che gliela aveva affidata uno sconosciuto e che non gli sarebbe stato difficile liberarsene prima della cattura. Tromba, che l'anno prima era stato assolto in istruttoria dall'accusa di complicità nell'attentato compiuto da Bruno Filippi al Caffè Biffi, asserì di essere stato arrestato mentre curiosava in Piazza Lega Lombarda. Carli, il più lucido e puntuale di tutti nel corso del processo, spiegò che in quelle settimane il suo giornale si era proposto di "riunire tutti i partiti rivoluzionari per purificare l'Italia e liberarla dal giogo della democrazia, Antitesi dell'Eroico". Filippo Tommaso Marinetti e Alceste De Ambris, citati come testimoni, giustificarono infiammati e virili come sempre i propositi degli imputati. Il secondo tentò di leggere un messaggio di solidarietà agli imputati vergato da D'Annunzio, ma il Pubblico Ministero si oppose e il Presidente della Corte glielo impedì. Scritta a Gardone Riviera il 20 luglio 1921, la lettera del Comandante ricordava come, mentre a Fiume ferveva una battaglia disperata, «l'eroismo solitario di Pochi» si fosse alzato «contro la sommessione di tutto il pavido regno». Egli così seguitava: «Tra quei pochi erano questi giovani legionari che, lontani dalla battaglia, non potendo accorrere, tentarono di riscuotere intorno a loro il popolo ingannato ed addormentato, cercarono di gridare la verità sanguinosa contro la congiura del silenzio. Questi accusati, soli contro l'incuranza di tutti, soli contro l'insensibilità di tutti, soli con il loro dolore e il loro furore, vollero gettare il loro grido, vollero testimoniare la loro devozione a quei fratelli che laggiù cadevano sorridendo verso le stelle annunziatrici del Figliuol d'uomo. Cadendo, morendo, erano essi i più forti. E questi giovani, che non hanno altra colpa se non di avere passato il limite in generoso delirio, questi giovani che per la Causa Santa e Bella hanno sofferto senza un lamento la prigionia e l'oppressione, oggi sono anch'essi i più forti». D'Annunzio non aveva torto a sperare nella clemenza dei "buoni giudici", che infatti assolsero tutti gli imputati dal reato più grave, la congiura. Cerati subì una lieve condanna per porto abusivo di rivoltella. Ma Annunzio Filippi, degno epigono del compianto congiunto, pagò per tutti buscandosi due anni di reclusione e uno di vigilanza speciale per la bomba.

Il complotto anarchico-fiumano di dicembre non fu però esclusivamente una montatura. Esso dava il polso di una situazione che da potenzialmente rivoluzionaria si stava normalizzando, ma nella quale gli elementi rivoluzionari non disposti ad accettare passivamente questo indirizzo si muovevano disperatamente in tutte le direzioni, allo scopo di mettere in crisi il sistema autoritario e repressivo del carcerario capitalismo italiano. E per fermare i pescecani della borghesia e del fascismo, talvolta le autentiche forze rivoluzionarie, come i futuristi, i dannunziani, gli anarchici individualisti delle più svariate tendenze, accantonavano le divergenze ideologiche e si univano stirnerianamente, al fine di agire.

Rimane la testimonianza di una fede e di un sacrificio, la cui memoria deve essere di sprone anche per un oggi, cupo e brumoso come esso ci appare, immancabilmente, e nel quale ci è toccata la malasorte di vivere.

Fiume meglio del '68 (articolo pubblicato sulla rubrica «L'Individualista» di anarcotico.net)

Insisto nel dire che l'impresa fiumana è stata, ha rappresentato l'evento più febbrile, glorioso, gioioso e dionisiacamente fulgido della Storia d'Italia del Novecento, senz'altro fu quello con maggiori valenze ed implicazioni rivoluzionarie. E se non esso, quale?

L'epopea degli individualisti d'inizio secolo si è affermata come un'esperienza e una sperimentazione quasi privata, comunque per pochi intimi. I fenomeni politici eversivi ed irrazionalisti dell'età giolittiana, più in generale, e nei quali la saga precedente trova luogo in prima evidenza, furono senz'altro meravigliosi ed affascinanti per una sorta di trascinamento esteticamente e letterariamente fondato, ma sostanzialmente impotenti ed inesplosi da un punto di vista politico e sociale, in un'epoca in cui questa visuale era ancora generatrice di senso.

Qualcuno può ancora sostenere che le due conflagrazioni interimperialistiche mondiali abbiano anche solo per un fuggevole ed umbratile istante restituito come vivida e fervida l'immagine che il mito della guerra rivoluzionaria tentava di darne, nel momento del loro dispiegarsi e successivamente nell'ambito delle sempre arbitrarie ricostruzioni storiografiche?

Il biennio rosso 1919-1920, l'occupazione delle fabbriche del settembre 1920, il 1968: c'è chi odiernamente, col senno di poi di cui ovviamente e soprattutto noi facciamo man bassa e di cui sono piene le fosse, non la nostra, però, che purtroppo non è stata ancora predisposta ma per la quale ci sarà e ci vorrà tempo, c'è chi, dicevo, può indiscutibilmente affermare che questi testè citati fatti abbiano messo in pericolo il potere borghese, il suo sistema di dominio e di riproduzione del dominio, al di là di scarne e scarse e flebili ripercussioni psicologiche presso le pavide classi dominanti?

La Resistenza Italiana 1943-1945, che molti si ostinano, magari inconsapevoli nell'usare tale espressione, a valutare trotzkysticamente come una "Rivoluzione tradita" o perlomeno più prosaicamente a nomare come un'occasione perduta o mancata - per fare che, poi? La Rivoluzione Socialista, le riforme di struttura, l'attuazione del "riformismo rivoluzionario" di Riccardo Lombardi, forse? - cosa fu quest'evento se non una guerra di liberazione nazionale culminata in una insurrezione nazionale, per immacolare il patrio suol? Tentativo di rivoluzione sociale essa fu per pochi indomiti, assolutamente slegati tra loro e contrastati dai partiti della sinistra storica ed ufficiale italiana, P.C.I. togliattiano in testa, impegnati quest'ultimi, al di là dei proclami per le masse ingenue ed irretite, nella pura e semplice restaurazione della democrazia parlamentare borghese; i partiti della Sinistra non esitarono perfino ad eliminare fisicamente i rivoluzionari dissidenti: si veda come momento esemplare di questa repressione l'omicidio da parte dei togliattiani a Milano del segretario generale del Partito Comunista Integrale "Stella Rossa", ossia Temistocle Vaccarella, nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1944, ben documentato dallo studioso Arturo Peregalli. Inoltre, guerra popolare non fu per nessuno, se non nella mente di qualche visionario, perché il buon popolo (italico, ma potrebbe essere di qualsiasi altra parte del globo, le masse infatti fanno universalmente schifo e ribrezzo) attese nella sua stragrande maggioranza l'evolversi delle cose, e appena gli fu consentito dalla contemporaneamente superba e volgare democrazia, consegnò un potere pluridecennale nelle mani dei nuovi moderati e conservatori sociali, i "fascisti di ritorno" democristiani, o meglio "demo-sagrestanti", come li definiva Enzo Martucci, più subdoli, più pervasivi, più allucinati dei precedenti. Quella battaglia, furono le stesse sinistre ciellenistiche che la propalarono come quinta guerra d'indipendenza nazionale italiana o peggio come Secondo Risorgimento Nazionale Italiano, con la classe operaia di fabbrica a dirigerla, nelle loro fantasie, in quanto "classe nazionale", non ultima, codesta, per idiozia delle espressioni che le intramontabili menti di Giorgio Amendola e Pietro Secchia hanno consegnato alla (loro) Storia - di Secchia rimane memorabile anche l'articolo intitolato "Il sinistrismo maschera della Gestapo" nel quale denunciava come provocatori e nemici del popolo tutti coloro che si trovavano alla sinistra del P.C.I. e ne richiedeva implicitamente la neutralizzazione, al fine della liberazione nazionale - salvo poi, dopo il 25 aprile 1945, abbandonare quasi senza colpo ferire alla borghesia il potere, in nome della Causa Santa dell'Ideologia della Ricostruzione.

Il 1968, al di là dei suoi introduttivi mesi iniziali caratterizzati da un fiero spontaneismo e da una vivace insubordinazione, vide quasi subito il prevalere incontrastato nel movimento rivoluzionario di burocratici partitini marxisti-leninisti scatenatisi in ferali e diuturne e dilanianti ed indefesse lotte intestine tra loro- non era Novatore ad avere affermato che con Marx lo Spirito era sceso a livello degli intestini?- e anche nel 1969 la contestazione operaia non sfuggì mai realmente dalla supervisione e dalle fauci grottesche delle Centrali sclerotizzate della Triplice Sindacale Confederale, la famigerata C.G.I.L.-C.I.S.L.-U.I.L., rafforzantesi vieppiù presso i lavoratori in nome della inconsistente e superflua ed ectoplasmatica parola d'ordine dell'unità sindacale.

Infine, non credo che esistano tra noi anarchici - ma non è detto - imbecilli inneggianti alle virtù purificatrici di Tangentopoli (1992), ovvero alla cosiddetta rivoluzione giudiziaria italiana. Gli ultimi dieci anni, da un punto di vista prettamente antropologico, sono stati i peggiori della Storia dell'Umanità; essi sono trascorsi come un vento gelido e rigido, come un tifone inarrestabile, portando scompiglio e devastazione, nelle nostre cosienze, nella nostra insensibilità sociale, nel tessuto connettivo delle nostre barbare e moderne società occidentali. Questo ultimo decennio ha decretato e sancito l'ineluttabile ed improcrastinabile involuzione della specie umana, la sua adesione ormai inestirpabile poiché emotiva al ruolo di Spettatrice apatica e abulica di uno Spettacolo, che non è mai stato così lugubre, così colmo di Vuoto, così irrovesciabile, così mesto e fanaticamente cieco.

Forse alla Comune di Fiume può essere avvicinato solamente il movimento del 1977, che non per nulla o proprio per nulla fu antipolitico, esistenzialistico, camusianamente assurdo, ribelle senza una causa, profetico ed effonditore di allegre geremiadi, intruso in un Paese che del grigiore e della mediocritas borghese ha sempre fatto il proprio flabello e il proprio orpello, sovversivo, sovvertitore o meglio, nietzscheanamente, trasvalutatore di tutti i valori, violento, furioso, tetragono, cieco, disperato, dolce, propenso alle ofelimità; esso espresse un Amore così puro, intenso ed immacolato che non potè, non può e non potrà essere recepito dalla plebe, dalla gente comune imbelle, banale e spiritualmente imberbe, un sentimento che nasce da cupa, ambigua, inconcepibile ed inafferrabile desolazione.

Anche nel 1977 si tentò una operazione di normalizzazione, soprattutto da parte di Lotta Continua, il cui quotidiano era diretto da Enrico Deaglio e in cui un posto di primo piano spettava al sionista Gad Lerner, e allora si cercò di fermare la Poesia con "tentativi di sintesi", "discorsi complessivi", "trasformazione della rottura generazionale in rottura sociale", per determinare "l'organizzazione socialista della società e del lavoro"; ma il movimento trascese i tranelli degli incancreniti, mefitici e burocratizzati gruppuscoli extraparlamentari, il cui scopo precipuo era di convertire la sovversione in un aggiornato intergruppi. Morte e trasfigurazione, gioiosità dionisiaca e cupio dissolvi, lento e agonico e agonistico e mistico desiderio di Estinzione e di Rivolta: questi, in modo precario ed improvvisato, i punti in comune, di contatto e di non ritorno tra queste due fantomatiche assenti attuazioni umane, che sono state, ad opera di italiani "antinazionali", ma proprio nel significato meno di lato e più etimologico del termine, cioè di individui operanti contro il perenne ed atavico senso comune delle genti della penisola, e al di là di isolate declamazioni, rispettivamente la suprema Comune di Fiume e il meno ambizioso ma non meno estasiante movimento del 1977. Altro il mio limitato occhio non vede: contemplo il deserto del reale, nel quale non vi è alcuna traversata da compiere. Tutto il resto è silenzio.

«Su tutte le cose sta il cielo Caso, il cielo Incolpevolezza, il cielo Accidente. Per caso: questa è la più vecchia nobiltà del mondo che io restituii a tutte le cose, liberandole dal giacere in schiavitù sotto il Fine. Sopra esse ed in esse non vuole nessuna eterna Volontà; e in luogo di tale Volontà posi la pazzia, quando insegnai: una cosa è per sempre impossibile, la razionalità. L'eterno ragno-ragione e l'eterna ragnatela di ragione non esistono affatto» (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte Terza, 1883-85).
«L'umanità non ha alcun fine, alcuna idea, alcun piano, così come non hanno un fine la specie delle farfalle o delle orchidee» (Oswald Spengler, Il Tramonto dell'Occidente, Volume Primo, 1923).
«La storia del genere umano, l'incalzare degli eventi, il cambiamento dei tempi, le forme della vita umana, così diverse col variare dei luoghi e dei tempi, tutto ciò non è che la forma accidentale del fenomeno dell'idea; nessuna di tali determinazioni particolari appartiene all'idea, che sola costituisce l'oggettità adeguata della volontà; fanno tutte parte del solo fenomeno soggetto alla conoscenza dell'individuo; tali determinazioni sono all'idea così estranee, inessenziali ed indifferenti, come alle nubi le figure che vi appaiono, al ruscello la forma dei gorghi e delle schiume, e al ghiaccio le sue arborescenze» (Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, "Libro Terzo, Il mondo come rappresentazione. L'idea platonica: l'oggetto dell'arte", Paragrafo 35, 1818)

Note

  1. Biografia di Bela Kun
  2. I trattati di Rapallo
  3. Annunzio Filippi, fratello del più celebre Bruno, anarco-individualista italiano.


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