Gracchus Babeuf

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Gracchus Babeuf

François-Noël Babeuf, che dal 1794 si firmò Gracchus Babeuf (Saint-Quentin, Piccardia, Francia, 23 novembre 1760 - Vendôme, 27 maggio 1797), fu un rivoluzionario francese e uno dei capi comunisti durante la Rivoluzione del 1789. Ispiratore della congiura degli Uguali che avrebbe dovuto rovesciare il governo borghese del Direttorio, fu tradito, arrestato e ghigliottinato.

Biografia

Il padre, Claude Babeuf (1712-1780), aveva disertato dall'esercito francese nel 1738. Tornato in Francia nel 1755, beneficiando di un'amnistia decretata il 1° luglio 1752, aveva ottenuto un modesto impiego nelle esattorie reali. Dal matrimonio con una ragazza di vent'anni nacque, il 23 novembre 1760, il primogenito François-Noël.

Claude Babeuf perse il posto verso il 1775 e il giovane François-Noël trovò un lavoro di apprendista presso un commissaire à terrier, un intendente al catasto, poi, dal 1777, fu al servizio del signor de Braquemont, un proprietario terriero, e dal 1779 s'impiegò dal signor Hullin, cancelliere della comunità di Flixécourt, per tre lire al mese. « La situazione nella quale mi trovo non è delle più brillanti » - scriveva eufemisticamente al padre - « ma se penso alla vostra, trovo la mia anche troppo dolce ». Infatti il padre morì l'anno dopo lasciando la famiglia in miseria.

Il nostro François dovette così prendersi cura della famiglia e, dal 13 novembre 1782, anche della propria, avendo sposato Marie Anne Victoire Langlet (1757-1840), venticinquenne ex-cameriera della signora de Braquemont. Un anno dopo nacque Catherine Adélaïde-Sophie (1783-1787), poi Robert (1785-1842), detto Émile in onore di Jean-Jacques Rousseau. Seguiranno, dopo la morte prematura della primogenita, un'altra Catherine Adélaïde-Sophie (1788-1795), poi Jean-Baptiste-Claude (1790-1815), detto Camille in onore di Furio Camillo, personaggio dell'antichità romana, e infine Caïus Gracchus (1797-1814). In compenso, la sua posizione economica era molto migliorata, facendo l'agrimensore a Roye, sempre nella Piccardia, dalla fine del 1784.

Il suo lavoro di commisaire à terrier consisteva nel determinare i « diritti signorili », che nel regime feudale gravavano sulle spalle dei contadini a profitto dell'aristocrazia fondiaria. Proprio negli ultimi anni dell'Ancien Régime una consistente parte dei nobili, per reagire al costante impoverimento cui erano condotti dalla loro vita oziosa e dissipata e dalla crisi economica del regime, cercarono di far valere quei particolari « diritti » che in parte erano caduti in disuso e in parte venivano contestati dai contadini che li ritenevano illegittimi perché non fondati su nessun documento scritto. Una forma, quella dei nobili, della generale reazione feudale che si determinò in Francia al tramonto della monarchia. Come scrisse Babeuf nel 1795, « fu nella polvere degli archivi signorili che scoprii i misteri delle usurpazioni della casta nobiliare ».

Babeuf, non avendo potuto studiare regolarmente a causa dell'estrema povertà della famiglia, dal padre aveva imparato a leggere e a scrivere, insieme con un po' di aritmetica e di geometria, e si era dato e continuava a darsi da solo, con paziente tenacia, una cultura generale, con tutti i limiti che una formazione da autodidatta comportava. Non era un erudito, le sue conoscenze letterarie e storiche avevano numerose carenze, ma egli si esprimeva correttamente ed era capace di analizzare e giudicare fatti e persone.

La corrispondenza con l'Accademia di Arras

Nel novembre del 1785 partecipò a un concorso promosso dall'Accademia di Belle Lettere di Arras. Si trattava di illustrare i vantaggi e gli svantaggi dell'esistenza delle grandi proprietà fondiarie. Era un argomento sul quale l'agrimensore Babeuf poteva vantare una certa competenza, ma la sua memoria non fu accettata. Era giunta troppo tardi, come lo informò per lettera il segretario dell'Accademia, Dubois de Fosseux, che gli ricordò garbatamente, nel caso di sue future partecipazioni ai premi dell'Accademia, di sviluppare maggiormente le proprie argomentazioni.

Il premio fu assegnato a due concorrenti che avevano espresso valutazioni tra loro contrastanti, come risulta dall'estratto della seduta dell'Accademia che Dubois de Fosseux fece pervenire l'11 maggio 1786 a Babeuf. A commento del tema ci rimane la minuta di una lettera non spedita da Babeuf, probabilmente timoroso di esprimersi pubblicamente con tanta audacia, che lo mostra favorevole allo sfruttamento collettivo della terra, che ai suoi occhi avrebbe rappresentato la soluzione al cronico problema della mancanza di terra per tanti contadini.

Nella sua lettera, il segretario dell'Accademia gli comunicò anche le questioni che sarebbero stati proposte nei prossimi concorsi degli anni 1787 e 1788. Babeuf rispose il 21 maggio ripromettendosi di concorrere al premio il cui tema era: « È vantaggioso ridurre il numero delle strade nei territori dei villaggi della provincia di Artois, e dare a quelle che si conserverebbero una larghezza sufficiente per essere alberate? ». Allegava inoltre un piccolo saggio, l'abbozzo di un'opera sulla manutenzione degli archivi signorili e sulla redazione dei catasti, che aveva in mente di scrivere quanto prima, e che gli inviò il successivo 27 ottobre.

In quest'ultima lettera Babeuf confidò al suo corrispondente di essere « fautore di un sistema assai noto, che si alimenta dell'idea di felicità sociale, e che consiste nella pretesa che l'estensione della popolazione è la misura dell'aumento della ricchezza comune ». Dichiarava anche di apprezzare il filosofo Alexandre Tournon, « perfettamente modellato su Rousseau », ed esprimeva il suo ottimismo nell'avvenire di una filosofia che presto avrebbe esercitato « un glorioso ed eterno impero, fondato sulle rovine di quello dei pregiudizi fatali, del fanatismo crudele e della pericolosa superstizione ».

Era così nata tra i due una corrispondenza che si protrasse per quasi tre anni, durante la quale Dubois de Fosseux inviò anche alcuni testi letterari - in verità molto mediocri - prodotti dagli accademici di Arras, dal momento che, gli scriveva, « vedo che voi avete gusto per la letteratura ». Il 13 dicembre Babeuf scriveva a de Fosseux della sua dedizione a Rousseau e di aver deciso di istruire egli stesso i suoi figli, pur non seguendo il consiglio del filosofo di ritardare l'insegnamento della lettura ai bambini.

Il 15 marzo 1787 Dubois de Fosseux chiese a Babeuf di elencargli un certo numero di questioni che potevano essere argomento dei prossimi premi offerti dall'Accademia. Il 21 marzo Babeuf rispose suggerendogli tre temi: « Ë un uso abusivo lasciare annualmente a maggese il terzo delle terre di prima qualità o anche di tutti i tipi di terra coltivabile? », suggerendo l'uso più moderno della rotazione annuale delle colture in modo da aumentare la produzione agricola.

Il secondo tema proponeva di indicare « i mezzi per stabilire la più giusta determinazione della quantità, dei limiti, dei diritti e dei doveri di tutte le parti di Beni Immobili, di qualsiasi condizioni esse siano di fronte alle leggi », intravedendo così nell'eguaglianza dei beni posseduti la forma per « prevenire ogni sorta di processi tra i cittadini ».

Il terzo tema chiedeva « quale sarebbe lo stato del popolo le cui istituzioni sociali fossero tali da regnare indistintamente tra tutti i suoi individui la più perfetta eguaglianza; ove il suolo abitato non fosse di nessuno, ma appartenesse a tutti; ove tutto fosse in comune, anche i prodotti di ogni genere d'industria? Simili istituzioni sarebbero autorizzate dalla Legge naturale? Sarebbe possibile l'esistenza di una simile società e sarebbero anche praticabili i mezzi per osservare una ripartizione assolutamente uguale? ».

I soggetti proposti da Babeuf non furono presi in considerazione dall'Accademia. Nella lettera del 23 maggio 1787 egli informò Dubois de Fosseux di star scrivendo Cadastre perpétuel e di aver conosciuto a Parigi Jean-Pierre Audiffret « un dotto » geometra che aveva inventato il grafometro trigonometrico, uno strumento di misurazione delle aree. L'inventore era in realtà il matematico Tyot, di Lione, e il ricco Audiffret ne aveva acquistato il brevetto e ne aveva mostrato le applicazioni al pubblico degli Champs-Élysées.

Babeuf stava infatti lavorando a un progetto, consistente nello stabilire un « catasto perpetuo » per determinare con equità la ripartizione delle imposte. L'importanza che Babeuf attribuiva alla sua opera consisteva nel fatto che la frequente inesistenza di un catasto o il suo mancato aggiornamento rendevano del tutto imprecise le attribuzioni delle imposte, a tutto vantaggio dei grandi proprietari. Scopo dichiarato del catasto di Babeuf, come scriveva a Dubois de Fosseux il 3 giugno, era di ovviare al disordine esistente, mentre lo scopo non dichiarato era quello di costituire la base di una ripartizione egualitaria dei fondi agricoli.

La lettera dell'8 luglio 1787

Nelle sue lettere Dubois de Fosseux aveva accennato al recente scritto di un certo Claude Boniface Collignon, intitolato Avant-coureur du changement du monde entier. [1] Insieme con le notizie su quest'opera, Babeuf aveva conosciuto la proposta di un corrispondente dell'Accademia che proponeva di redigere un codice delle leggi francesi uniformandolo al codice prussiano di Federico II, che passava per essere un re illuminato.

La lettera di Babeuf dell'8 luglio 1787, che contiene i suoi commenti su queste due memorie, è importante per la conoscenza delle idee di Babeuf a quell'epoca. « L'apostolo del codice universale » - nota Babeuf - non fa che uniformare in tutte le regioni le diseguaglianze presenti nella società feudale: un nuovo codice « non impedirebbe ai miei figli di nascere poveri e diseredati, mentre quelli del mio vicino milionario, nel venire alla luce, abbonderebbero di tutto ». Non impedirebbe il disprezzo di cui il ricco gratifica il povero, l'ingiustizia per cui il primogenito eredita tutti i beni paterni e condanna il fratello alla povertà e la sorella al chiostro, non impedirebbe l'esistenza dei « sedicenti nobili e delle rivoltanti distinzioni in tutti gli ordini della società  ».

Babeuf comprende che le leggi non sono che la legittimazione e la difesa dell'ordine esistente: da una parte, i codici « servirono agli usurpatori come titoli legittimanti i loro saccheggi, e alle famiglie vinte come irrevocabili decreti di confisca delle loro spoglie », e dall'altra impedirono a queste ultime « di sollevarsi da tale sorta di avvilimento » e fecero in modo che « dalla classe vittoriosa fossero considerate costituenti una sorta di classe molto inferiore della specie umana ». Queste leggi non scendono dal cielo e non sono il prodotto di una necessità della natura, ma è stata proprio la classe vittoriosa a stabilire « nelle assemblee convocate per la redazione di siffatti codici gli articoli a suo piacimento ».

Molto migliori sono allora, secondo Babeuf, le tesi comuniste del « Riformatore del mondo intero », per quanto « sia un vero peccato che egli lasci un vuoto a proposito dei mezzi » con i quali costituire la nuova società. Per realizzare una tale rivoluzione « bisogna operare grandi mutamenti », rendendo realmente eguali tutti gli uomini: « Perché accordare maggiore considerazione a chi porta una spada, piuttosto che a quello che l'ha saputa forgiare? ». L'Avant-coureur, come Rousseau sostiene che gli uomini sono tutti eguali, e perciò « non devono possedere nulla in particolare, ma godere di tutto in comune », e « ci fa fare quattro buoni pasti al giorno, ci veste molto elegantemente e dà, a ognuno di noi padri di famiglia, incantevoli case da mille luigi », a differenza - dice Babeuf - di Rousseau, che invece ci manda « in mezzo ai boschi, a saziarci sotto una quercia, ad abbeverarci al primo ruscello ».

Scopriamo così che a quest'epoca Babeuf non ha ben compreso, se pure lo ha letto, il Discorso sull'origine della diseguaglianza di Rousseau, dal momento che egli ripete le critiche malevoli e soprattutto ingiustificate che Voltaire portò nel 1755 all'opera di Rousseau. La sua adesione al comunismo è però evidente, anche se non gli è chiaro il modo con il quale costruire una società perfettamente egualitaria.

Babeuf nella Rivoluzione francese

Il Catasto perpetuo

Il Cadastre perpétuel

La corrispondenza con Dubois de Fosseux s'interruppe definitivamente nell'aprile del 1788. Le notizie che giungevano da Parigi su una rivoluzione che dalla sala degli Stati Generali stava passando anche nei comitati popolari e nelle strade, spinsero a Babeuf a recarsi nella capitale. Il 17 luglio 1789, tre giorni dopo la presa della Bastiglia, egli era a Parigi per riprendere i rapporti con Jean-Pierre Audiffred in vista della pubblicazione del Cadastre perpétuel. Si divisero le spese di pubblicazione dell'opera, che apparve nel settembre di quell'anno. Benché fosse stato dedicato all'Assemblea Nazionale e malgrado gli sforzi di Audiffred di sollecitare l'attenzione degli specialisti sul libro, questo non fu letto e le proposte di Babeuf rimasero lettera morta.

Il Catasto perpetuo s'ispira al Projet d'un cadastre général du royaume di Tillet de Villars, pubblicato nel 1781 e lodato da Babeuf. Lo scritto di Babeuf è essenzialmente un'opera tecnica, già redatta nel 1787, della quale interessa piuttosto la prefazione che l'autore scrisse nel 1789, illustrando le sue idee politiche e sociali. Il suo intento è di « estinguere l'ineguaglianza distributiva » dei beni e degli oneri tuttora vigente nella popolazione, e la redazione della sua opera è stata intenzionalmente votata - dichiara Babeuf - « in favore dell'oppresso ». A questo scopo, egli propone una « rivendicazione assai moderata », per quanto « il popolo lavoratore » avrebbe tutto il diritto di « avanzarne altre tali da suscitare maggior scalpore ».

Babeuf propone che « non si vendano più i beni spirituali della Religione, che sia cioè permesso di nascere e morire senza l'obbligo di metter mano alla tasca per pagare le cerimonie in uso in queste circostanze »; che venga istituita una cassa nazionale per la sussistenza dei poveri; che la sanità sia gratuita, stipendiando con i fondi pubblici i medici e i farmacisti; che siano egualmente gratuite l'istruzione e l'amministrazione della giustizia.

Babeuf immagina la reazione che tali proposte susciterebbero nelle classi privilegiate: « A che titolo coloro che non posseggono nulla potrebbero esigere tanti vantaggi da coloro che posseggono tutto? », perché « su questa base la sorte degli uni non sarà preferibile a quella degli altri? ». Il « titolo » di queste rivendicazioni, risponde Babeuf, è quello che ha « ogni pupillo divenuto maggiorenne di rivendicare le spoglie che un tutore infedele ha avuto la vigliaccheria di sottrargli ». Il popolo ha raggiunto l'età della ragione dopo essere stato tenuto « in uno stato di perpetua adolescenza e di fatale inerzia » dai possidenti, questi « tutori indegni », che lo hanno strangolato con « macchinazioni grottesche e barbare » e lo hanno « nutrito di superstizioni, di pratiche minuziose, di idee ridicole ».

Due sono i principi fondamentali da stabilire in società: chi, pur avendo il necessario, non pone limiti alla propria ambizione di possesso, deve essere riguardato come lo spogliatore di quanto appartiene legittimamente ad altri; chi non ha abbastanza per vivere, ha il diritto di chiedere e ottenere quello che gli è ragionevolmente necessario. Ci sarà certamente qualcuno pronto a esclamare: « Bisogna rispettare la proprietà  ». Ma se, ragiona Babeuf, « su ventiquattro milioni di uomini se ne trovano quindici milioni che non hanno nessuna specie di proprietà perché gli altri nove milioni non hanno rispettato i loro diritti di assicurarsi i mezzi di sostentamento, bisognerà forse che quei quindici milioni si decidano a morire di fame per amore degli altri nove? ».

Babeuf calcola in sei milioni il numero delle famiglie francesi, e in settanta milioni di jugeri i terreni coltivabili. Una divisione egualitaria assegnerebbe a ciascuna famiglia un podere di undici arpenti: [2] « con una tale estensione di fondi ben coltivati, in quale onesta mediocrità non ci si sarebbe mantenuti? Quale candore, quale semplicità di costumi, quale invariabile ordine non avrebbe regnato tra il popolo che avesse adottato una forma così saggia, così perfettamente conforme alle Leggi generali tracciate dalla natura, e che la nostra sola specie si è permessa di infrangere? ». Babeuf aggiunge di non « pretendere di riformare il mondo al punto di voler esattamente ripristinare la primitiva eguaglianza ». Gli basta, per il momento, dimostrare che « gli sventurati » avrebbero tutto il diritto di chiederla, « se gli opulenti persistessero nel rifiutare soccorsi onorevoli », togliendoli dalla « rivoltante indigenza in cui li hanno ridotti i mali accumulati nei secoli precedenti ».

A Roye. La Petizione e il carcere

Intanto a Roye, il paese ove Babeuf viveva con la sua famiglia, il 19 luglio 1789 un'assemblea generale dei cittadini aveva deciso di non pagare più le tasse. L'iniziativa era stata caldeggiata soprattutto dagli albergatori e dagli osti di Roye. Di fronte alle minacce dell'ufficio delle imposte di Roye e della Direzione generale di Parigi, il 28 febbraio 1790 il sindaco di Roye convocò un'assemblea proponendo ai cittadini di ristabilire il pagamento delle imposte. La proposta fu respinta e il 3 marzo il Municipio invitò le corporazioni della cittadina a scegliere un delegato per discutere la questione. Il 7 marzo Babeuf, eletto rappresentante della cittadinanza, si presentò all'Hôtel de Ville, leggendo e depositando una sua memoria [3] che egli fece stampare otto giorni dopo, affiggendola sui muri di Roye.

Ricordando che le tasse devono essere pagate da chi è in grado di farlo e in proporzione di ciò che ha, egli propose l'abolizione delle imposte indirette [4] e delle gabelle,[5] con la conseguente chiusura degli uffici delle imposte e il pagamento delle sole imposte dirette alla ricevitoria del Comune, che avrebbe poi trasmesso al Tesoro statale la quota di sua competenza.

Il Municipio di Roye inviò la memoria di Babeuf al Comitato dei rapporti presso l'Assemblea Nazionale, perché si pronunciasse in merito, e il 5 aprile 1790 l'abbé Grégoire, allora presidente di quel Comitato, rispose che l'Assemblea Nazionale, quando decretò, il 7 ottobre 1789, che « tutte le contribuzioni e i pubblici tributi, qualunque sia la loro natura, saranno sopportati da tutti i cittadini in ragione e proporzione dei loro beni e delle loro facoltà  », aveva inteso pronunciarsi soltanto sulle imposte dirette e non su quelle che gravavano sui consumi. Certamente, Grégoire avrebbe avuto difficoltà a spiegare la sua tesi in presenza di quel « qualunque sia la loro natura », ma l'Assemblea Nazionale, lo scorso 23 marzo 1790, aveva decretato il ristabilimento delle barriere doganali per l'imposta sul tabacco, la continuazione della riscossione delle imposte indirette e degli arretrati. Pertanto, le pretese di Babeuf e dei cittadini di Roye dovevano essere respinte.

Babeuf non si perse d'animo e già a metà aprile fece stampare dall'amico tipografo Devin un opuscolo di 38 pagine, intitolato Pétition sur les impôts, distribuendolo tra i comuni del circondario perché fosse firmato dai cittadini e inviato all'Assemblea Nazionale. Ben 800 comuni della Piccardia e dell'Artois aderirono all'iniziativa. Nella Petizione Babeuf ribadiva i principi espressi nella sua memoria e accusava i deputati aristocratici di aver fatto approvare il decreto « liberticida » del 23 marzo, al quale pertanto non bisognava obbedire « in virtù del diritto di resistenza all'oppressione del popolo che è il solo vero sovrano ». Rivolgendosi poi a tutti i deputati dell'Assemblea, egli ricordava loro che essi non sono al di sopra del popolo, « che rifiuta di obbedire solo alle cattive leggi ».

Quando le petizioni cominciarono a pervenire all'Assemblea Nazionale, il Comitato delle ricerche [6] si attivò, minacciando di prigione autore e firmatari della Petizione, definita un « libello incendiario ». Babeuf scrisse il 10 maggio al Comitato, rivendicando « il diritto di parola, la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni », il principio della sovranità popolare, il diritto alle resistenza all'oppressione, tutti principi garantiti dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. E concludeva: « mai l'inquieta tirannide spinse le precauzioni al punto di chiudere decisamente la bocca alle proteste, e mai ancora la rigida inquisizione sulla stampa [...] fu esercitata con maggiore arbitrio di quanto abbiate fatto voi [...]. Se è così, Signori, che si agisce in un paese che si dice libero, non so più che fare [...]. Inviate i sicari, fatemi condannare come incendiario; sarò contento di morire per la buona causa ».

E infatti il 21 maggio la Corte delle imposte lo fece arrestare e tradurre in prigione a Parigi. Da qui Babeuf scrisse a James Rutledge, giornalista irlandese residente in Francia, iscritto al club dei Cordiglieri, e al signore de Lauraguais, un nobile che faceva professione di liberalismo, chiedendo la loro assistenza legale. Grazie al loro intervento, e soprattutto a quello di Marat, che aveva letto e apprezzato la sua Petizione scrivendone sul suo Ami du Peuple,[7] Babeuf fu liberato l'8 luglio. Dopo più di un mese di soggiorno obbligato a Parigi, il 20 agosto poté tornare a Roye, acclamato dalla cittadinanza.

L'attività giornalistica. La denuncia della natura di classe della società

Nell'estate del 1789, quando si trovava a Parigi, Babeuf si era impiegato nel Courrier de l'Europe, un giornale franco-inglese, inviando a Londra corrispondenze sulla situazione politica francese. Il 1° ottobre 1790 apparve un giornale da lui fondato, Le Correspondant picard, diffuso nei dipartimenti della Somme, dell'Oise e dell'Aisne, che uscirà però irregolarmente fino a cessare le pubblicazioni nell'estate del 1791. Il suo intento era di presentare e discutere le leggi approvate dall'Assemblea Nazionale, proponendo la loro modifica qualora « non ricevano il consenso generale e sulle quali si facciano sentire le proteste ». A questo scopo, Babeuf invitò i lettori a scrivergli per discutere insieme su questioni di interesse generale e « sui mezzi per far valere i loro giusti reclami ».

Dalla fine d'ottobre, l'Assemblea discusse le condizioni del censo necessarie per essere cittadini elettori ed eleggibili. Fu stabilito a grande maggioranza di distinguere i « cittadini attivi » dai « cittadini passivi ». Questi ultimi, i più poveri, non possedendo nulla non avevano il diritto, secondo la definizione dell'abate Sieyès, « di prendere parte attiva alla formazione dei pubblici poteri ». Tra i cittadini attivi, quelli che pagavano una tassa equivalente ad almeno tre giornate di lavoro (pari, in moneta, a uno scudo, circa 5 franchi), potevano eleggere in ragione dell'uno per cento gli elettori di secondo grado tra coloro che pagavano un contributo equivalente ad almeno dieci giornate di lavoro (pari, in moneta, a una doppia o pistole, circa 10 franchi). Questi ultimi, infine, eleggevano i deputati, i giudici, i membri delle Assemblee di dipartimento e di distretto, scelti tra coloro che pagassero una contribuzione diretta di almeno un marco d'argento (circa 52 franchi) e fossero proprietari terrieri.

L'ordine delle patacche

In definitiva, su 26 milioni di Francesi e circa sette milioni di maschi maggiorenni, tre milioni erano i cittadini passivi e quattro milioni gli attivi, 40.000 gli elettori di secondo grado e poche migliaia, i più ricchi, quelli destinati a occupare i posti di maggiore responsabilità politica e amministrativa. Contro questo stato di cose Babeuf prese posizione con l'articolo Umilissimo indirizzo ai membri dell'ordine delle Patacche, ai rispettabili cittadini dell'ordine del Marco con l'adesione dei membri degli ordini della Doppia e dello Scudo, apparso in novembre nel Correspondant picard.

Sotto il vecchio regime si riconoscevano tre ordini, scrive Babeuf, la nobiltà, il clero e il terzo stato. Quest'ultimo non contava nulla, pur avendo i suoi rappresentanti. Ora invece « non esiste un solo ordine, come si vorrebbe far credere al volgo », ma quattro: « l'ordine delle patacche, quello dello scudo, quello della doppia e quello del marco ». La patacca, in francese patard, è una moneta di scarsissimo valore, circa 5 centesimi di franco, d'uso comune tra i poveri, i braccianti e gli operai, i cittadini che l'Assemblea Nazionali qualifica di passivi, cioè senza diritti politici. Lo scudo, in francese écu, e la doppia, pistole, pari a cinque e dieci franchi, sono d'uso tra gli artigiani e i contadini più agiati, i commercianti, il ceto medio, che sono cittadini attivi. Il marco d'argento circola invece tra l'aristocrazia del nome e della ricchezza, e questi sono, nel presente sistema elettorale, i cittadini che pretendono di rappresentare l'intera nazione. [8]

Scrivendo a nome dei cittadini dell'« ordine delle patacche », Babeuf rileva come essi siano privati di fatto di quella libertà ed eguaglianza che pure la Dichiarazione dei diritti, votata l'anno prima, proclama esistere per tutti i cittadini. Solo chi concorre alla formazione delle leggi è veramente libero - sostiene Babeuf - mentre coloro che sono privati di tale diritto « sono degli schiavi e coloro che dettano loro legge sono dei despoti ». Pertanto, la classe più povera ha tutto il diritto di rifiutarsi di ottemperare ai doveri che le si vorrebbe imporre, il servizio militare e ogni tipo di pubblica contribuzione, insomma di mettere le sue « braccia al servizio di chi non appartenga all'ordine delle patacche ».

Babeuf conclude l'articolo scrivendo che l'« ordine dello scudo » e l'« ordine della doppia » aderiscono alle dichiarazioni e alle proteste dei poveri. Egli vede dunque la necessità di un'alleanza politica tra il proletariato e la piccola borghesia contro la grande borghesia e l'aristocrazia che in quel momento storico sono alla guida della Francia e cercano d'incanalare la Rivoluzione in un alveo conservatore, mantenendo i tradizionali privilegi di classe.

Intanto, Babeuf aveva deciso di entrare al Consiglio municipale di Roye. Pagata la contribuzione di 10 franchi necessaria per essere candidato, venne eletto il 14 novembre 1790 e sedette in quel Consiglio dove contava molti nemici, primo fra tutti il sindaco Longuecamp, un aristocratico. Questi chiese l'annullamento dell'elezione di Babeuf col pretesto del suo precedente arresto. L'iniziativa fu appoggiata dal procuratore generale del dipartimento Tattegrain, e Babeuf, dopo un mese, dovette lasciare il Consiglio. Anche il suo tentativo di essere eletto, il successivo 14 gennaio, giudice di pace, fu impedito da Longuecamp, suo concorrente all'incarico, che fece intervenire la guardia nazionale per impedire a Babeuf di votare.

Babeuf non smise d'impegnarsi a rivendicare i diritti dei cittadini contro gli antichi privilegi rimasti in vigore malgrado la Rivoluzione. [9] Rivendicò il diritto della municipalità a utilizzare il legno degli alberi di un appezzamento di proprietà dei frati celestini di Amiens, sul quale la città di Roye vantava il diritto di pascolo, e fu tra coloro che costrinsero con la forza il sindaco a firmare l'apposito decreto. Longuecamp lo denunciò come capo dell'agitazione popolare e Babeuf fu ancora arrestato, ma non si trovò nessuno disposto a testimoniare a suo carico, e il tribunale fu costretto a rilasciarlo. Analogamente, si schierò a favore dei cittadini di Davencourt contro le pretese feudali della « castellana » del luogo, la contessa de La Myre. Erano avvenuti dei disordini, a seguito dei quali alcuni contadini erano stati arrestati e avevano chiesto a Babeuf di difenderli. Bebeuf vide questo episodio nell'ottica di una più vasta operazione conservatrice, con la quale la nobiltà e la grande proprietà terriera cercavano di conservare i loro privilegi, sfruttando perfino, se il caso, a loro vantaggio, iniziative rivoluzionarie come il decreto di vendita dei beni dei nobili emigrati, come aveva fatto la stessa contessa de La Myre.

Le lettere all'abbé Coupé. Eguaglianza reale e riforma agraria

Due lettere, del 20 agosto e del 10 settembre 1791, inviate a Jacques Coupé,[10] consentono di conoscere il credo politico e sociale di Babeuf in questo periodo. Egli insiste sulla necessità che la Costituzione garantisca l'effettiva, concreta, e non formale, eguaglianza dei cittadini. Sotto questa luce egli critica anche i democratici Pétion e Robespierre che, malgrado la loro « magistrale inflessibilità  », non si avvedono della « conseguenza capitale » del principio dell'« eguaglianza dei diritti: a tutti eguale educazione e sussistenza assicurata », che vuol dire piena eguaglianza intellettuale attraverso un'istruzione garantita a tutti - il « pane spirituale » - e la garanzia del « pane materiale » con la « messa in comune di tutte le risorse infinitamente moltiplicate e accresciute attraverso un'organizzazione sapientemente combinata e del lavoro generale saggiamente diretto ».

Una Costituzione che enumerasse tutte le libertà garantire ai cittadini, che fosse scritta con assoluta chiarezza e semplicità, « senza ambiguità, senza possibilità di commenti o interpretazioni » da parte di gente in cerca di cavilli, godrebbe del rispetto della grande maggioranza dei cittadini che avrebbe successo sulle mene di una minoranza che non vuole la vera eguaglianza. Invece « oggi il popolo è come il bue », che si sottomette perché ignora la propria forza.

Bisognerà anche che ogni cittadino sia un soldato, per difendere le vere libertà. Oggi l'esercito regolare e permanente, guidato da ufficiali nobili, è « una superfluità e un pericolo per la libertà  ». Per il momento, dopo averlo ridotto di numero, occorrerebbe introdurvi la regola della « nomina di tutti i capi a maggioranza di voti, e l'eguaglianza nella paga per tutti i gradi », impiegandolo, in tempo di pace, a lavori utili, « anziché lasciarlo marcire in un ozio funesto ».

Fondamento della rigenerazione sociale è la riforma agraria, « questa legge che i ricchi temono » e alla quale, però, nemmeno pensa « il gran numero dei diseredati, cioè i quarantanove cinquantesimi del genere umano ». Sulla riforma agraria vi è un pregiudizio ancora più radicato di quello che esiste sulla monarchia, rileva il repubblicano Babeuf. Si pensa comunemente che una seria riforma sarebbe un attentato alla proprietà e ne deriverebbe il disfacimento della società, oppure che dopo un po' tutto tornerebbe come prima, con i molti che hanno poco o nulla e i pochi che posseggono quasi tutto.

Secondo Babeuf, « la terra non dev'essere alienabile; ognuno, nascendo, ha diritto di avere la sua parte sufficiente, come avviene per l'aria e l'acqua; morendo, deve lasciarne eredi la società intera, e non quelli che gli sono più vicini, perché proprio quest'ultimo sistema di alienazione ha dato tutto agli uni e niente agli altri ». L'inalienabilità della terra impedirebbe la possibilità di ristabilire col tempo le vecchie diseguaglianze, ognuno sarebbe sicuro « del suo patrimonio » e vivrebbe tranquillo per l'avvenire suo e dei suoi figli. L'artigianato e l'industria non scomparirebbero, perché evidentemente « non tutti potrebbero essere contadini » e si continuerebbero i necessari scambi di servizi, mantenendo ciascuno nella terra « un patrimonio inalienabile, in ogni tempo e circostanza un fondo, una risorsa inattaccabile contro i bisogni ».

Legge agraria significa eguaglianza reale. Da qui discendono diritti e libertà. Nessuna divisione di classe tra i cittadini; diritto di ammissione di tutti a tutti i posti; diritto di voto per tutti, diritto di esprimere le proprie opinioni e di sorvegliare l'attività dell'Assemblea legislativa; libertà di riunione; diritto di tutti i cittadini di portare le armi, al solo scopo di distruggere lo spirito di corpo delle forze armate tradizionali e di combattere i nemici esterni.

Senza una riforma agraria, « libertà, eguaglianza, diritti dell'uomo saranno sempre parole ridondanti e vuote di significato ». Per questo motivo gli aristocratici si oppongono, perché sanno che « una volta posta una mano profana su quello che chiamano il sacro diritto della proprietà , la mancanza di rispetto non conoscerà più limiti ». I loro interessi e i loro timori sono esattamente opposti a quelli dei difensori degli affamati. Lo scopo della società è quello di procurare ai suoi membri la maggiore felicità possibile. E allora a che servono le leggi, « se non riescono a trarre dagli abissi della miseria questa enorme massa d'indigenti, questa moltitudine che compone la stragrande maggioranza della società? ».

Incarichi pubblici

Nel settembre del 1792 Babeuf venne eletto al Consiglio generale del dipartimento della Somme, che aveva sede nel capoluogo Amiens. Non gli riuscì, invece, di far parte del direttorio del Consiglio. Rivoluzionario intransigente, chiese sanzioni contro gli attori del teatro di Amiens che, a suo avviso, rappresentavano pièces controrivoluzionarie. Gli attori protestarono al direttorio, che non diede corso alla sua richiesta.

Da aprile la Francia era in guerra contro l'Impero austriaco, al quale si unì anche la Prussia. Una guerra voluta dalla maggioranza dell'Assemblea legislativa e dalla stessa corte, che manteneva segreti contatti con i nemici e metteva tutte le sue speranze in una grave sconfitta della Francia tale da porre fine alla Rivoluzione. Le simpatie reazionarie di tanti generali e ufficiali francesi confortavano un simile progetto. Le difficoltà dell'assedio di Lilla e la ritirata del generale La Bourdonnais, che favoriva l'avanzata dei prussiani, fecero pensare a Babeuf, ma non solo a lui, che si trattasse di un tradimento avvenuto con la complicità di membri del direttorio della Somme.

La relazione di Babeuf, che accusava il direttorio di tradimento, fu insabbiata dal Consiglio generale, e Babeuf si rivolse allora al ministro degli Interni Roland, che non rispose. Il Consiglio decise di trasferirlo all'amministrazione del vicino distretto di Montdidier, il cui procuratore-sindaco era il suo vecchio nemico Longuecamp. Babeuf si attivò con il consueto zelo. Fece bruciare pubblicamente tutti gli emblemi monarchici e i ritratti dei reali che ornavano il Municipio e il tribunale, e reclamò il sequestro dei beni del duca di Liancourt, del marchese di Nelle, del conte d'Herlier, della contessa de La Myre e di altri nobili, procurandosi così, e con sua soddisfazione, l'appellativo di maratista. [11]

Finalmente, Longuecamp trovò il modo di sbarazzarsi di Babeuf. Un curato del luogo aveva acquistato dei beni nazionali, rivendendoli poi a un grande proprietario terriero di Montdidier. Subito pentito, il curato voleva rivenderli a un piccolo contadino rimasto senza terra per essere stato costretto a cedere il suo podere proprio a quel proprietario. Il curato chiese a Babeuf di modificare l'atto di vendita sostituendo al nome dello speculatore dei beni nazionali quello del fittavolo. Ingenuamente, Babeuf accettò. Era un gesto di « patriottismo rivoluzionario » col quale Babeuf non guadagnava nulla, ma era anche un falso, e Longuecamp colse al volo l'occasione per far destituire Babeuf e incriminarlo. Per evitare la prigione, Babeuf fuggì a Parigi.

Senza un soldo, con la famiglia rimasta a Montdidier priva di sostegno, si arrangiò come poté. Nel febbraio del 1793 trovò ospitalità da Claude Fournier, un tipo equivoco convertito al sanculottismo, in favore del quale, da molti anni in lite giudiziaria per certi suoi affari a Santo Domingo, scrisse e presentò una petizione alla Convenzione nazionale. Poi, in aprile, Babeuf si arruolò tra i volontari olandesi che combattevano al fianco della Repubblica francese: nella caserma di rue de Babylon egli poteva alloggiare, mangiare e guadagnare 25 soldi al giorno da spedire alla moglie.

Non era certo questa una vita adatta a lui. Scrisse una lettera a Sylvain Maréchal, scrittore e redattore delle Révolutions de Paris, giornale vicino ai sanculotti, offrendosi come operaio tipografo. Maréchal rimase favorevolmente impressionato e in maggio gli fece procurare non già un lavoro da tipografo, ma un impiego di segretario alla Commissione delle sussistenze di Parigi. Babeuf poté così chiamare a Parigi la propria famiglia.

In questo periodo, alla Rivoluzione veniva impresso un indirizzo democratico grazie al crescente influsso nella Convenzione della sinistra rappresentata dai Montagnardi - deputati provenienti dal circolo dei Giacobini radicali e in parte da quello dei Cordiglieri - guidati da Robespierre e all'inverso calo di consensi nei confronti della destra rappresentata dai Girondini. Le difficoltà della guerra, il tradimento del generale Dumouriez, il crescente carovita, provocarono alla fine di maggio l'insurrezione delle sezioni rivoluzionarie di Parigi che portò il 2 giugno all'arresto dei deputati girondini. Il successo dei Montagnardi era stato favorito dalle loro prese di posizione a favore dell'elemento popolare rappresentato dai sanculotti.

Il 24 aprile 1793 Robespierre aveva proposto di modificare la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789 sulla proprietà, definendola « il diritto che ogni cittadino ha di godere di quella parte dei beni che gli è assicurata dalla legge », stabilendone così il carattere sociale, perciò non inviolabile in quanto non più « diritto naturale ». [12] Il 4 maggio era stato stabilito un maximum ai prezzi delle merci di prima necessità.

Scrivendo il 7 maggio ad Anaxagoras Chaumette, giornalista delle Révolutions de Paris e simpatizzante dei sanculotti, Babeuf gli esprimeva ammirazione per aver favorito il decreto della Comune di Parigi che stabiliva lo « stato d'insurrezione finché non saranno assicurate le sussistenze ». Analoga ammirazione manifestava per l'iniziativa di Robespierre, il « nostro legislatore », il « nostro Licurgo » che aveva avanzato il principio secondo il quale « il diritto di proprietà non può pregiudicare l'esistenza dei nostri simili, che la società è obbligata a provvedere alla sussistenza di tutti i suoi membri, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a coloro che non sono in grado di lavorare ». [13] Era entusiasta, Babeuf, convinto che la Rivoluzione stesse portando ai « giorni di una felicità generale ignota a tutte le età e a tutte le nazioni ».

Intanto, il processo montato a Montdidier contro Babeuf si era concluso con la sua condanna in contumacia niente meno che a vent'anni di carcere e la richiesta, rivolta a Parigi, di arrestarlo. Così fu fatto il 14 novembre, ma contemporaneamente da Parigi furono richieste per due volte informazioni sui presunti crimini commessi da Babeuf, che a loro risultava irreprensibile « per civismo e probità  ». Non ottennero risposta dal procuratore di Montdidier e Babeuf fu scarcerato. Si mosse allora il ministro degli Interni in persona, che ordinò un nuovo arresto, e Babeuf si consegnò spontaneamente alla polizia parigina che lo fece trasferire a Montdidier.

Fu un semplice collega della Commissione delle sussistenze a tirarlo fuori dai guai. Questo Thibaudeau raccolse una serie di testimonianze favorevoli a Babeuf e inviò il dossier alla Commissione di legislazione che l'esaminò e l'inviò alla Cassazione. Il 9 giugno 1794 la corte annullò la sentenza contro Babeuf, perché il distretto di Montdidier e il tribunale della Somme non avrebbero potuto istruire il giudizio senza la preventiva autorizzazione della Convenzione. Rimesso in libertà il 18 luglio, Babeuf riprese il suo posto alla Commissione delle sussistenze di Parigi.

Il Tribuno del popolo

Il 27 luglio (nel calendario rivoluzionario, il 9 termidoro) 1794 Robespierre e i suoi più stretti seguaci del Comitato di salute pubblica furono arrestati e ghigliottinati il giorno dopo. Babeuf ne fu soddisfatto: rimasto deluso da Robespierre dopo la repressione del movimento sanculotto nei precedenti mesi di marzo e aprile, egli credette che il trionfo dei termidoriani aprisse la strada alla realizzazione della democrazia popolare e di un'autentica eguaglianza sociale. Non era così: il 9 termidoro era la vittoria della borghesia che intendeva farla finita con la Rivoluzione.

Deciso a continuare la propria battaglia politica, Babeuf tornò al giornalismo. Con l'appoggio finanziario del termidoriano Armand Guffroy, deputato alla Convenzione e proprietario di una tipografia, il 3 settembre apparve il suo nuovo giornale, il Journal de la liberté de la presse. [14] I primi articoli riflettono le sue illusioni sulla reazione termidoriana: « Abbiamo sì fatto una rivoluzione, cinque anni fa », ma in seguito « abbiamo lasciato fare la controrivoluzione », quando furono limitate la libertà d'opinione e di stampa. Il 10 termidoro « segna il nuovo termine dopo il quale siamo all'opera per rinascere alla libertà  ». [15]

Il movimento sanculotto si era organizzato nella società detta Club elettorale, che chiedeva il ristabilimento dei comitati rivoluzionari eletti dal popolo, insieme con l'elezione dei funzionari pubblici e l'illimitata libertà di stampa. Una petizione in tal senso, presentata il 1° ottobre dal Club elettorale alla Convenzione Nazionale, fu respinta. Il giornale di Babeuf, uscito il 5 ottobre con il nuovo titolo di Le Tribun du peuple - mentre lui stesso dichiarava di assumere il nome di Gracchus [16] in onore dei due famosi tribuni della Repubblica romana. [17] - appoggiava senza riserve le mozioni del Club, e iniziò una campagna contro la Convenzione e il suo segretario, André Dumont, già fedelissimo di Robespierre, e contro Louis Fréron e François-Louis Bourdon, già terroristi e ora apertamente reazionari. L'illusione che Babeuf si era fatta dei termidoriani stava svanendo: il 13 ottobre scrisse dell'« usurpazione della libertà e di tutti i diritti » e di un « governo di ferro che, usurpando tutto, non usa neppure l'accortezza degli altri tiranni » di fare almeno « godere il popolo di un benessere momentaneo ». Nell'articolo fu pubblicata anche una lettera di Albertine Marat, la sorella del defunto « amico del popolo », che accusava Fréron di essersi finto seguace di Marat per puro opportunismo politico.

Anche Simone Evrard, la compagna di Marat, sosteneva Babeuf, che però perse il sostegno di Guffroy, che gli negò i fondi per pubblicare il giornale e licenziò la moglie e il figlio dalla tipografia. Il Club elettorale subentrò allora a Guffroy finanziando Le Tribun du peuple, ma il governo e la Convenzione, dominata dai termidoriani, aveva deciso di farla finita con la Costituzione democratica del 1793 che assicurava l'assoluta libertà di stampa e perfino il diritto a « resistere all'oppressione » e all'insurrezione come « il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri » quando il governo violasse i diritti dei popolo. [18]

Così, mentre i Girondini venivano reintegrati nella Convenzione dalla quale erano stati esclusi il 31 maggio 1793, il 24 ottobre 1794 Babeuf e i più attivi elementi del Club elettorale furono arrestati. Rilasciato il 18 dicembre, Babeuf riprese subito la pubblicazione del Tribun du peuple, denunciando il tradimento dei principi costituzionali: « La nostra costituzione è uno scheletro informe; la si copre arditamente e impunemente di motti e sarcasmi ingiuriosi [...] Tutto il mio sangue ribolle di fronte a questi orribili complotti [...] ». E annunciava la volontà di resistere: « Gli uomini liberi sapranno preservare l'opera del Popolo. Si tengano pronti, è tempo. Non spaventiamoci del numero dei lacchè della tirannide ».

Il 21 dicembre scrisse nel Tribun du peuple che nella politica francese e nella Convenzione erano attivi sostanzialmente due partiti: il partito patrizio, che vuole che nella Repubblica vi sia « un piccolo numero di privilegiati e di signori colmi di superfluità e di delizie » e la maggioranza « ridotta alla situazione di iloti e di schiavi », e il partito plebeo, che vuole per tutti « non soltanto l'eguaglianza dei diritti, l'eguaglianza sulla carta, ma anche l'onesta agiatezza, la sufficienza legalmente garantita ». Il primo partito « vuole il male per un vergognoso tornaconto personale », il secondo « vuole il bene per la sola attrattiva della gloria », ma attualmente la vittoria arride al partito patrizio. Babeuf è convinto che il prevalere dell'uno o dell'altro partito sia una questione di tattica parlamentare e che il partito popolare, « grazie all'ascendente possente della ragione e della verità  », finirà per trionfare: « non occorre che tattica e un po' di coraggio ai delegati popolari ».

Intanto la Convenzione termidoriana, che il 19 novembre aveva chiuso il Club dei Giacobini, il 24 dicembre aveva decretato l'abolizione del maximum dei prezzi. Il 28 gennaio 1795 Babeuf proclamò dal suo giornale il diritto e il dovere del popolo d'insorgere, come del resto previsto dalla Costituzione del 1793, formalmente ancora in vigore. Era necessaria l'insurrezione perché la Convenzione aveva « tutto usurpato », aveva popolato di « vili fautori » gl'impieghi pubblici, aveva preposto agli organi civili e militari « la feccia della Nazione ». L'insurrezione non significava « torrenti di sangue e mucchi di cadaveri »: bastava che il popolo francese prendesse l'iniziativa di esprimere un « progetto d'indirizzo ai suoi delegati » contro « lo stato doloroso della Nazione », esponendo quanto fosse necessario per stabilire diritti e felicità comune, cioè le cose per le quali era stata fatta la rivoluzione.

Nuovo arresto. Corrispondenza con Charles Germain

La Convenzione non lo lasciò impunito. Il 7 febbraio Babeuf venne arrestato nella casa di rue Saint-Honoré dove affittava una stanza e condotto in carcere. Il giorno dopo il convenzionale Jean-Baptiste Mathieu poteva annunciare che Babeuf, « violatore delle leggi e falsario fin nel nome usurpato di Gracchus » era nell'impossibilità di chiamare i cittadini alla rivolta, aggiungendo la menzogna che egli aveva cercato di corrompere gli agenti venuti ad arrestarlo. Lebois, redattore del nuovo Ami du peuple, che aveva protestato contro questa « pugnalata ai fianchi della libertà  », venne arrestato a sua volta.

Babeuf fu trasferito nel carcere dei Baudets di Arras. In un altro carcere di questa città era detenuto dal 15 gennaio 1795 per il suo « estremismo » politico un sottufficiale, Charles Germain, che seppe di Babeuf e iniziò con lui una corrispondenza. Germain divenne subito amico e discepolo di Babeuf che prese a chiamarlo « generale », perché era sua intenzione destinarlo a svolgere propaganda presso i soldati.

Nella sua lettera a Germain del 28 luglio 1795 Babeuf espone la sua critica della presente organizzazione sociale e la sua visione di una nuova società. Il commercio - dove per commercio Babeuf intende il complesso del sistema economico capitalistico, dalla produzione alla distribuzione - « deve arrecare nutrimento a tutti i suoi agenti, dal primo operaio che produce e appresta le materie prime, fino al capo di manifattura che dirige i grandi esercizi e al commerciante che fa circolare i manufatti nei più diversi luoghi ».

Così dovrebbe fare, ma così non fa o fa in modo ineguale. Su cento persone che abitano le città o i villaggi, novantanove sono mal vestite e sono operai. Sono senza camicia o senza scarpe quasi tutti coloro che tessono e filano lana e seta, e quelli che trattano il cuoio e fabbricano le scarpe. Analogamente, ha la casa spoglia l'operaio edile e chi fabbrica mobili. Invece, a non mancare di niente sono, oltre ai proprietari terrieri, « tutti coloro che di fatto non mettono le mani in pasta », cioè dei pochi che s'impadroniscono del frutto del lavoro di una moltitudine di braccia, dei pochi che si mettono d'accordo tra loro « per ridurre senza tregua il salario del lavoratore » e poi s'accordano « con i distributori di quanto hanno accumulato, i mercanti loro complici, per fissare la quota di tutte le cose », in modo che tale quota sia solo alla loro portata, alla portata di coloro che posseggono il denaro, l'oro e l'argento.

Coloro che fanno il lavoro creatore delle merci, il lavoro essenziale, traggono un vantaggio incomparabilmente minore di quelli che arrivano per ultimi, i mercanti, che fanno il lavoro più subalterno, il lavoro di distribuzione. « Speculatori e mercanti fanno lega per tenere alla propria mercé il vero produttore », per potergli dire: « lavora molto e mangia poco, o non avrai più lavoro e non mangerai affatto. Ecco la legge barbara dettata dai capitali ». E per ottenere profitti elevati si può ricorrere all'incetta « fraudolenta » dei prodotti e persino alla « scelleratezza » di distruggerne la maggior parte.

L'attuale stato sociale è dunque, nel suo complesso, « un abuso mostruoso, e ogni abuso dev'essere distrutto, afferma la giustizia eterna », distrutto per essere sostituito da una diversa e rigenerata organizzazione sociale, nella quale « tutti siano insieme produttori e consumatori nella proporzione in cui tutti i bisogni siano soddisfatti, in cui nessuno soffra né miseria, né fatica. Tutto dev'essere equilibrio e compensazione, nulla deve costituire motivo di mettersi avanti, di farsi valere, di voler dominare. Non ci dev'essere né alto né basso, né primo né ultimo ». Tutti gli sforzi dei componenti la società devono essere indirizzati fraternamente al bene comune. Il popolo non sarà più un gregge da tosare, non ci saranno più « padroni, tiranni, ambiziosi [...] sfruttatori e sfruttati ».

La società immaginata da Babeuf è quella in cui i produttori, cioè « gli agricoltori e gli operai, gli artigiani, gli artisti e i dotti » lavoreranno per « il magazzino comune e ciascuno di essi vi invierà il prodotto in natura del suo lavoro individuale », mentre gli « agenti di distribuzione », diversamente dagli attuali commercianti che operano nel proprio esclusivo interesse, lavoreranno nell'interesse della « grande famiglia » del popolo intero, facendo « rifluire verso ogni cittadino la sua parte eguale e varia della massa intera dei prodotti di tutta l'associazione ».

Ogni industria perderà il suo carattere privato venendo esercitata a profitto della « grande famiglia » di tutti i cittadini e l'associazione dei lavoratori garantirà che non si produca né troppo né troppo poco e determinerà il numero necessario degli addetti a ciascun specifico lavoro, in modo che tutto sia adeguato ai bisogni presenti e previsti dell'intera comunità. Sparirà la concorrenza, ciascuno scambierà il prodotto del suo lavoro con tutti gli oggetti reali che gli sono necessari, mentre la società si prenderà cura di tutti coloro che non possono lavorare, i bambini, i vecchi e i malati.

Certamente, il commercio estero non sarà possibile, finché nelle altre nazioni esisterà ancora la « vecchia bottega » della produzione e del commercio privato. Fortunatamente, in Francia si è in grado di produrre tutto il necessario e « noi » - osserva Babeuf - potremo intanto offrire all'ammirazione degli altri popoli « la nostra virtù sociale ».

Babeuf è consapevole della difficoltà dell'impresa d'instaurare il nuovo modello sociale, sia che venga tentato con un'insurrezione immediata, sia con un lento proselitismo generalizzato fra la popolazione. Nel primo caso il popolo, ignaro delle nuove idee, vedrebbe negli insorti solo « dei briganti, degli incendiari, degli scellerati », e verrebbe altresì istigato dagli « abituali ingannatori della moltitudine » che corroborerebbero « l'indignazione pubblica con le imposture della calunnia ».

Bisognerà invece condurre un'opera di proselitismo laddove « le disposizioni degli animi ci siano generalmente favorevoli. Una volta stabiliti « in questa famiglia », organizzati in un territorio di simpatizzanti, « non faticheremo a farvi gustare le nostre dottrine » fino a suscitare l'entusiasmo e l'adesione degli abitanti dei territori vicini. Si creerebbe così una « Vandea plebea »[19] che s'ingrandirebbe progressivamente e dove si potrà organizzare, « senza troppa precipitazione e con tutta l'opportuna prudenza, l'amministrazione provvisoria in conformità alla legge dell'eguaglianza ».

Con una lettera indirizzata il 4 settembre ai « patrioti di Arras », Babeuf prese posizione contro la nuova Costituzione approvata dalla Convenzione termidoriana. Abolito il suffragio universale con la reintroduzione del censo, istituite due Camere, la Camera dei Cinquecento e la Camera degli Anziani per il potere legislativo, formate da deputati termidoriani praticamente inamovibili che sceglievano un Direttorio di cinque membri ai quali era affidato il potere esecutivo, la nuova Costituzione sanciva la fine della Rivoluzione [20] e il trionfo politico della borghesia. Per Babeuf, quella Costituzione, sedicente repubblicana, è una « nefandezza » e una « mostruosità  » che mette i cittadini « sotto la dipendenza dei ricchi e delle persone istruite ». [21]

Il Manifesto dei plebei

Il 10 settembre 1795 Babeuf e Germain furono trasferiti nella prigione del Plessis, a Parigi, dove conobbero un giovane detenuto italiano, Filippo Buonarroti, un ammiratore del giornale di Babeuf. Un'amnistia li fece uscire dal carcere: Buonarroti il 9 ottobre, Babeuf il 18 e Germain il 26.

Babeuf riprese la pubblicazione del Tribuno del popolo. I suoi articoli contro il governo del Direttorio e i suoi sostenitori provocano gli attacchi della stampa termidoriana che lo accusa di anarchismo e persino di essere monarchico. Il Courrier de Paris invita a vigilare sugli « amici del popolo » e sui « nuovi tribuni », La Sentinelle tratta Babeuf da « abile impostore che, come Marat e Robespierre, si spaccia per terrorista per meglio servire la monarchia ».

Il 6 novembre Babeuf scrive per sollecitare la popolazione alla vigilanza, a non farsi addormentare né conquistare dai nuovi padroni della Francia, come Tallien, come il corrotto Barras, come l'eterno voltagabbana Fouché, già suo amico, che gli offrì denaro e migliaia di abbonamenti al Tribun du peuple purché passasse dalla parte del governo.

Il 30 novembre pubblica il Manifesto dei plebei. La Rivoluzione del 1789 - scrive - fu la rivolta dei poveri contro i ricchi per conquistare la vera eguaglianza, l'eguaglianza di fatto e non a parole. Questa non si è realizzata e « l'accumularsi dell'oppressione » rende più che mai urgente « lo scuotimento possente del popolo contro i suoi spogliatori ». Alla radice dell'ineguaglianza è il diritto di proprietà. Questo diritto non è altro che la legge del più forte, che va abrogata, se si vuole realizzare l'eguaglianza di fatto.

L'eguaglianza di fatto non è una chimera. La realizzò - scrive Babeuf - il legislatore spartano Licurgo ripartendo egualmente oneri e benefici, garantendo a tutti la sufficienza e a nessuno il superfluo. Le persone più stimabili condivisero il grande principio dell'eguaglianza. Non tanto Gesù, come si pensa, perché la sua massima « ama il fratello tuo come te stesso » non dice esplicitamente che « la prima di tutte le leggi è che nessun uomo può legittimamente pretendere che qualcuno dei suoi simili sia meno felice di lui ».

Dissero meglio Rousseau scrivendo Perché lo stato sociale sia perfezionato, bisogna che ciascuno abbia abbastanza, e Diderot,[22] quando affermò che sulla forma migliore di governo non avrete fatto nulla finché non avrete distrutto i germi della cupidigia e dell'ambizione. Persino Tallien, Fouché e l'oscuro deputato Jean-Baptiste Harmand, quando erano ancora dei rivoluzionari, avevano esaltato la vera eguaglianza. Anche Robespierre, nella sua Dichiarazione dei diritti, aveva scritto che lo scopo della società è la felicità comune e che gli individui nascono uguali in diritti e in bisogni, mentre Saint-Just, in un discorso del 1794, affermò che gli infelici sono le energie della terra, hanno il diritto di parlare da padroni ai governi che li trascurano. Sembra che Babeuf, citando Robespierre e Saint-Just, volesse ingraziarsi i Giacobini, ora perseguitati dal Direttorio, perché si unissero al suo progetto rivoluzionario.

Bisogna dunque che i sanculotti, i nullatenenti, questi moderni plebei, facciano come gli antichi che, per lottare contro i patrizi, si ritirarono nel « Monte Sacro », e organizzino la « Vandea plebea ». Verrà spiegato che il fine della società è la felicità comune; che la terra è di tutti; che « l'alienabilità è un infame attentato populicida »; che l'eredità familiare è un « orrore »; che tutto ciò che un membro della società possiede al di sopra della sufficienza dei suoi bisogni è il risultato di un furto; che « la superiorità dei talenti » è solo un'opinione utilizzata dai cospiratori contro l'eguaglianza; che l'attuale educazione, patrimonio esclusivo di una parte dei membri della società, è una mostruosità; che occorre assicurare a ciascuno e alla sua posterità la sufficienza e nient'altro che la sufficienza; che l'unico mezzo per arrivarvi è stabilire l'amministrazione comune, sopprimendo la proprietà privata.

Il Manifesto dei plebei termina con un appello: « Il Monte Sacro o la Vandea plebea si formino in un sol punto o in ciascuno degli 86 dipartimenti! Si cospiri contro l'oppressione, sia in grande, sia in piccolo, segretamente o allo scoperto, in centomila conciliaboli o in uno solo, poco importa, purché si cospiri, e i rimorsi e le angosce accompagnino in ogni momento gli oppressori [...] Cambiamo, dopo mille anni, queste leggi incivili ».

La congiura degli Uguali

La congiura degli Uguali fu il primo tentativo storico di introdurre realmente il comunismo nella società. Il 30 marzo 1796 (10 germinale anno IV) fu istituito un "Comitato insurrezionale" che si fondava su un nucleo dirigente, appoggiandosi anche ad un nutrito numero di militanti e ad una folta schiera di simpatizzanti.

La congiura, che comprendeva tra gli altri Filippo Buonarroti, Sylvain Maréchal, Jacques Roux e Jean Varlet, venne però scoperta. Il processo a Babeuf e agli altri cominciò il 20 febbraio 1797 a Vendôme. Babeuf ed altri 30 furono giustiziati il 27 maggio 1797 a Vendome, altri, come Filippo Buonarroti furono esiliati; Varlet invece riuscì a sfuggire alla cattura e pubblicò "Explosion", uno dei primi proclami anarchici, il quale dichiarava che «Governo e rivoluzione sono incompatibili».

Estratto del Manifesto degli Eguali (scritto da Sylvain Maréchal): «È giunto il momento di fondare la Repubblica degli Eguali, questo grande ospizio aperto a tutti gli uomini. I giorni della restituzione generale sono arrivati. Famiglie sofferenti, venite a sedervi alla tavola comune eretta dalla natura per tutti i suoi bambini».

Scritti di Babeuf

  • Correspondance de Babeuf avec l'Académie d'Arras, 1785-1788
  • Mémoire sur les chemins de la province d'Artois, 1786
  • L'Archiviste terriste, ou traité méthodique de l'arrangement des archives seigneuriales et de la confection et perpétuation successive des inventaires, des titres et des terriers d'icelles, des plans domaniaux, féodaux et censuels, 1786
  • Mémoire peut-être important pour les Propriétaires des Terres et des Seigneuries, ou idées sur la manutentions des Fiefs, 1786
  • Cadastre perpétuel, 1789
  • Réclamation de la ville de Roye relative au remplacement de l'impôt des Aides et à l'exécution des décrets de l'Assemblée nationale, lesquels prononcent que tous les impôts doivent être répartis sur chaque citoyen en proportion de ses facultés, 1790
  • Pétition sur les impôts adressée par les habitants de... en... à l'Assemblée Nationale, dans laquelle il est démontré que les aides, la gabelle, les droits d'entrée aux villes, etc, ne doivent et ne peuvent plus subsister, même provisoirement, chez les Français devenus libres, 1790
  • Journal de la Conféderation, 3 luglio 1790
  • Le Correspondant picard, 40 numeri, 1790-1791
  • Les Jacobins Jannot, 1794
  • Le système de dépopulation, ou les crimes de Carrier, 1794
  • Journal de la liberté de la presse, 22 numeri, 3 settembre-1° ottobre 1794
  • Le Tribun du peuple, 20 numeri, 5 ottobre 1794-24 aprile 1796

Note

  1. Il titolo completo è L'Avant-coureur du changement du monde entier par l'aisance, la bonne éducation et la prospérité générale de tous les hommes, ou Prospectus d'un mémoire patriotique sur les causes de la grande misère qui existe partout et sur les moyens de l'extirper radicalement, ossia Il Precursore del cambiamento del mondo intero con la naturalezza, la buona educazione e la prosperità generale di tutti gli uomini, o Prospetto di una memoria patriottica sulle cause della grande miseria che esiste ovunque e sui mezzi di estirparla radicalmente.
  2. Equivalenti a circa quattro ettari di terreno.
  3. Intitolata Réclamation de la ville de Roye relative au remplacement de l'impôt des Aides et à l'exécution des décrets de l'Assemblée nationale, lesquels prononcent que tous les impôts doivent être répartis sur chaque citoyen en proportion de ses facultés.
  4. Le « aides », che gravavano sulle bevande.
  5. Le « fermes », cioè le tasse date in appalto, come la tassa sul sale e i dazi applicati sulle merci in transito alle frontiere di ogni provincia e comune.
  6. La commissione dell'Assemblea incaricata d'indagare e imprigionare gli accusati di crimini politici, deferendoli poi all'Assemblea Nazionale.
  7. Marat aveva scritto nel n° 155 del suo giornale: « L'amico del Popolo reclama in favore dell'oppresso Babeuf, prigioniero della Conciergerie, la generosa assistenza che i Distretti hanno fornito ai pretesi incendiari delle barriere, in virtù degli sforzi e dell'illimitata devozione di questo Martire della buona causa ». In quei giorni vennero incendiate diverse barriere daziarie e uffici delle finanze, che provocarono il 1° luglio 1790 un apposito decreto di repressione da parte dell'Assemblea Nazionale. I distretti, o sezioni o quartieri, erano le 48 unità amministrative di Parigi, in ciascuna delle quali era attivo un comitato rivoluzionario.
  8. Il requisito del marco d'argento fu soppresso nel 1791.
  9. Pressata dalle rivolte contadine, il 4 agosto 1789 l'Assemblea Nazionale aveva abolito le decime ecclesiastiche ma obbligato i contadini a riscattare in denaro gran parte dei diritti feudali precedentemente pagati in natura. Tutti i diritti feudali saranno aboliti dalla Convenzione robespierrista il 17 luglio 1793.
  10. Jacques Michel Coupé (1737-1809), parroco di Sermaize, il 5 settembre 1791, appoggiato anche da Babeuf, fu eletto dal distretto di Noyon, in Piccardia, deputato dell'Assemblea Legislativa.
  11. Seguace del rivoluzionario radicale Jean-Paul Marat.
  12. Principio recepito nell'art. 19 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1793, preambolo dell'Atto costituzionale approvato il 24 giugno 1793, in cui era scritto che « Nessuno può essere privato della benchè minima parte della sua proprietà, senza il suo consenso, tranne quando la necessità pubblica legalmente constatata lo esige, e sotto la condizione di una giusta e preventiva indennità  ».
  13. Principio recepito nell'art. 21 della Dichiarazione del 1793: « I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini svantaggiati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che non sono in età di poter lavorare».
  14. Giornale della libertà di stampa.
  15. Journal de la liberté de la presse, 2, 5 settembre 1794.
  16. Il 24 marzo 1793 era stato decretato il diritto di ogni cittadino a chiamarsi come voleva. Tale decreto fu soppresso dalla Convenzione termidoriana il 23 agosto 1794.
  17. In precedenza Babeuf, oltre ad aver chiamato Camille uno dei suoi figli, si era anche dato il soprannome di Camille, ma ora lo ripudiava in quanto quel Furio Camillo fu in realtà un « devoto avvocato della casta senatoria e patrizia, e avvocato finto e insidioso dei plebei ».
  18. Dichiarazione del 1793, art. 33: « La resistenza all'oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell'uomo »; art. 34: « Vi è oppressione contro il corpo sociale quando uno solo dei suoi membri è oppresso. Vi è oppressione contro ogni membro quando il corpo sociale è oppresso »; art. 35: « Quando il Governo viola i diritti dei popolo, l'insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte dei popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri ».
  19. La Vandea storica fu l'insurrezione controrivoluzionaria della popolazione di quella regione, guidata dai preti e dai nobili reazionari, che volevano restaurarvi la monarchia assoluta e il feudalesimo. Quando Babeuf scriveva, la rivolta, iniziata nel 1793, era ancora in corso.
  20. Secondo le parole stesse di uno degli estensori del progetto costituzionale, il deputato Pierre-Charles-Louis Baudin.
  21. Nullatenenti, disoccupati, analfabeti e semi-analfabeti - la grande maggioranza della popolazione - non avevano diritto di voto. Naturalmente, le donne continuavano a essere prive di diritti.
  22. In realtà Morelly, nel suo Codice della natura, che al tempo di Babeuf era però attribuito a Diderot.

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