Contrattualismo

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Ritratto di Jean-Jacques Rousseau

Il contrattualismo comprende quelle teorie politiche che vedono l'origine della società in un contratto tra governati e governanti, che implica obblighi precisi per ambedue le parti. In questa concezione il potere politico si fonda su un contratto sociale che pone fine allo stato di natura, segnando l'inizio dello stato sociale e politico.

Il contratto sociale è, secondo alcuni pensatori, alla base della nascita della società, ossia di quella di forma di vita in comune che sostituisce lo stato di natura, nel quale gli esseri umani vivono in una condizione di instabilità e insicurezza per la mancanza di regole riguardo a quelli che sono i loro diritti e doveri.

Accettando spontaneamente le leggi che vengono loro imposte, gli uomini perdono una parte della loro assoluta e pericolosa libertà per assicurarsi una maggiore tranquillità e sicurezza sociale.

Nel momento in cui i governanti violano il patto, il potere politico diventa illegittimo; di conseguenza il diritto di resistenza e ribellione viene legittimato.

Si considerano contrattualisti quei pensatori che muovono da tale sintassi del discorso. Lo stato di natura, benché sia solitamente considerato punto di partenza del discorso contrattualista, non ha una definizione universalmente accettata, poiché si considera essenzialmente come mera ipotesi logica.

Fra i maggiori contrattualisti vanno annoverati Thomas Hobbes, John Locke e Jean-Jacques Rousseau.

Origini della teoria contrattualista

La riflessione sulla posizione dell'individuo all'interno della società, ossia inteso come cittadino, costituisce il fondamento di qualunque teoria propriamente politica. Ogni teoria politica non può evitare di affrontare il problema della nascita del concetto stesso di “politico” e del suo stretto rapporto con le istanze che lo precedono e che costituiscono il criterio di orientamento dell'agire in società, che fondano gli scopi della stessa, che stabiliscono quindi i limiti, se ci sono, del potere sovraordinato nel suo rapporto con il cittadino.

Nell'antica Grecia

Già il pensiero greco aveva affrontato la difficoltà fondamentale di trovare un termine oggettivo di distinzione tra il politico e il “prepolitico”, tra la norma (nòmos) e la natura (physis). Alcuni considerarono l'universo normativo, inteso come il mondo della convivenza civile come una struttura complessa, determinata arbitrariamente dall'uomo, aleatoria nella sua essenza come l'opinione umana (doxa), frutto di convenzione e non imposta dalla natura.

Esempio paradigmatico della concezione dicotomica norma-natura, è la storia di Antigone, come ci viene narrata dal tragediografo Sofocle: il re Creonte ordina che Polinice, reo di avere attaccato militarmente la sua città, non abbia sepoltura. Antigone, sorella di Polinice, disobbedisce all'ordine del re, per adempiere ad un ordine superiore, quello divino, che impone agli umani di seppellire le spoglie dei parenti. Una concezione di questo tipo spinse alcuni sofisti (Trasimaco, Protagora) ad elaborare una teoria della genesi dello Stato di matrice individualistica: lo stato è una condizione primitiva nella quale ciascun individuo è pienamente libero di perseguire i propri fini senza alcuna limitazione ed è dunque caratterizzato dallo scontro perenne delle singole volontà, risolvendosi in quello che Thomas Hobbes definì il “bellum omnium contra omnes”. In tale situazione gli uomini, consci dell'aleatorietà della loro condizione addivennero ad un accordo (synthèke, omologhìa) di astensione reciproca dalla violenza.

Questa concezione della società civile come il prodotto di un accordo, il frutto di una convenzione tra gli uomini, trovò in Platone e in Aristotele due illustri avversari. Il filosofo ateniese considerava la società organizzata che assegnasse ad ognuno il suo posto e i suoi doveri, il solo luogo in cui la natura umana, con le attitudini e i valori diversi dei singoli, potesse trovare completa espressione. Sulla stessa linea di pensiero si attestava Aristotele che considerava lo Stato l'unico luogo in cui l'uomo, considerato “animale politico”, fosse in grado di manifestare la sua superiorità rispetto al resto del mondo animale mediante la repressione della ferinità, l'unico luogo nel quale poteva svelare la sua natura morale con la scoperta del giusto e dell'ingiusto. La creazione di uno Stato dunque, ossia la costituzione di una comunità politica attraverso l'opera legislatrice di un nomothètes è sì la conseguenza di un atto cosciente, ma ciò non vuol dire che sia un prodotto innaturale, bensì la manifestazione più compiuta della natura umana.

Nel Critone di Platone troviamo una delle esposizioni più chiare della dottrina contrattualistica che il mondo greco ci ha lasciato: le leggi della pòlis vengono personificate e si rivolgono a Socrate, recluso e condannato a morte. Esse sostengono che costui sarebbe reo di un triplice delitto qualora fuggisse dalla prigione: perché come cittadino era libero di scegliere un altro posto ove dimorare prima di sottoscrivere un patto di obbedienza alle leggi, sarebbe inoltre un delitto contravvenire ai precetti delle leggi perché queste sono state nei suoi confronti genitrici e nutrici. La permanenza nella città viene intesa dunque come comportamento concludente sufficiente ad esprimere un consenso implicito al patto originario con il quale fu fondata la convivenza civile.

La teoria del consenso implicito ebbe in verità un ruolo determinante nel pensiero politico successivo e servì come argomentazione per la difesa delle teorie assolutistiche nella conservazione dello status quo. Fu ripresa anche, come vedremo, da un pensatore liberale come Locke, interessato a superare con essa le aporie derivanti dalla sua posizione individualista.

Periodo Romano

Nel mondo romano il centralismo imperiale diede un contributo notevole alla stasi della riflessione politica e, sostanzialmente, coloro che se ne occuparono non fecero altro che rielaborare teorie precedenti sempre in un clima di diffuso conservatorismo. Così Seneca ripropose la teoria stoica della degenerazione dello sviluppo umano sostenendo che la nascita dello Stato fu imposta dalla necessità di arginare il ciclo distruttivo della violenza reciproca. Lattanzio sostenne nelle Divinae institutiones che se la "causa coeundi" dell'umanità fu il bisogno diffuso di protezione, compito e dovere dell'uomo era quello di prestare assistenza al proprio vicino, ed era per tale ragione, morale oltreché politica, che sarebbe stato massimamente esecrabile il comportamento di chi, volontariamente, si fosse allontanato dal consorzio sociale.

Medioevo

Giustiniano

Il pensiero politico medievale fu influenzato in maniera rilevante sia dai principi del diritto romano, conservati grazie all'immensa opera di catalogazione promossa da Giustiniano, sia dalla dottrina della Chiesa.

In un periodo come quello altomedievale, caratterizzato alla notevole instabilità dei centri di potere, la riflessione politica fisiologicamente riguardò soprattutto i limiti del potere sovrano alla luce del conflitto tra Chiesa e potere secolare. Sia il diritto romano sia i precetti del Cristianesimo erano in grado di ispirare concezioni divergenti della sovranità e dei suoi limiti. Nel primo caso, se da un lato vigeva (Digesto i, 4, I) il principio "quod principi placuit, legis habet vigorem", d'altra parte il potere del principe trovava origine nel consenso popolare espresso mediante la lex regia: "utpote, cum lege regia, quae de imperium eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem conferat".

Nella dottrina cristiana, al principio espresso con la formula “Date a Cesare quel che è di Cesare”, si contrapponeva la concezione agostiniana dell'origine dello Stato, per la quale l'affermazione del potere secolare era stata una necessaria conseguenza del peccato. S. Agostino certamente non parlò di contratto sociale né tantomeno di consenso popolare, tuttavia la sua teoria dell'origine peccaminosa dello Stato (in base alla quale dalla città di Dio si scende alla città dell'uomo) offrì alla Chiesa un potente argomento per giustificare la sua ingerenza nelle dinamiche del potere secolare.

Un principio costante nella teoria del governo dei popoli germanici è quello della bilateralità, per il quale i re, al momento dell'assunzione del potere, ossia durante la cerimonia di incoronazione, erano tenuti a prestare un giuramento coram populo, con quale solennemente si impegnavano a garantire a tutti giustizia, sicurezza e buon governo, in cambio della fedeltà dei sudditi. Ciò consente a noi di considerare non incondizionata quella fedeltà ma strettamente legata alla condotta del re che era sì titolare del potere sovrano, ma non per questo era autorizzato a legiferare arbitrariamente, dovendo sempre e comunque la legge positiva operare in uno spazio limitato stabilito da principi di diritto naturale, di origine consuetudinaria, dei quali il popolo si considerava depositario.

Pactum dei Franchi e Magna Charta degli anglosassoni

Il pactum diffuso tra i Franchi e gli altri popoli teutonici, non è certamente un contratto sociale, ossia non ha la funzione di giustificare l'origine del consorzio civile, ma risponde ad esigenze meramente pratiche di obiettiva definizione dei limiti della sovranità. Esso è un contratto di governo. L'uso di tali accordi tra sovrano e sudditi, il cui primo esempio storico ci è dato dai Visigoti in Spagna negli Atti del Quarto concilio di Toledo del 633, per arrivare fino al XIII secolo con la Magna Charta di Giovanni Senzaterra, ci consente di affermare che il concetto assolutistico (hobbesiano) della solutio legibus del sovrano è ancora di là da venire e costituirà una delle conseguenze di un cambiamento generale degli assetti della società, dovuto all'accentramento del potere da parte del principe mediante la conquista del monopolio degli eserciti, e la simultanea perdita di potere contrattuale della nobiltà feudale, e con la conseguente affermazione del diritto pubblico come strumento regolativo dei rapporti tra i poteri: “l'assimilazione dei diritti pubblici a quelli privati, e la natura reciproca del vincolo fra governanti e governante, esistevano nel sistema feudale molto più chiaramente che in qualunque altro; e questi due elementi erano necessari alla teoria del contratto. Essa non avrebbe potuto sorgere se non in un'età in cui i diritti pubblici erano concepiti induttivamente, cioè inferiti dai diritti particolari dei signori che comandavano, e in un'età dominata dall'idea del diritto privato; infatti la teoria del contratto presume l'esistenza di diritti privati e obblighi giuridici privati anteriori a tutti i diritti pubblici e alla stessa esistenza dello Stato”.

Tardo medioevo e rinascimento

Nel periodo della Lotta per le investiture, abbiamo già visto che la Chiesa aveva affermato il proprio diritto di veto nell'elezione dei re, ricorrendo alla teoria agostiniana del peccato come causa prima della nascita del potere secolare, indicando nel Pontefice l'unica autorità in grado vagliare la giustizia o l'ingiustizia di un monarca; i concetti di giustizia ed ingiustizia nella gestione del potere e l'adozione della teoria contrattuale dell'origine dello Stato spinsero Manegoldo da Lautenbach ad elaborare la prima versione democratica del contrattualismo. Egli sosteneva che, poiché il sovrano possiede una grande quantità di poteri sul resto degli uomini, è necessario che sia il migliore tra loro, perché solo in quel caso potrà governare il suo popolo con equità; nel caso in cui colui che è stato scelto (eligitur) al popolo per tutelare la giustizia nello Stato, imponga invece ai suoi sudditi un'odiosa tirannia, questi avrebbero tutto il diritto di ribellarsi ad esso e di violare il patto di obbedienza che avevano contratto, giacché il sovrano per primo, con la sua condotta iniqua, si era reso inadempiente ai suoi supremi doveri come il guardiano di porci che, assunto per pascere i maiali, cominci a macellare e distruggere il gregge ... Certamente lo spirito democratico di Manegoldo non può essere considerato rappresentativo della sua epoca, giacché in altri autori a lui contemporanei il ruolo che il primo assegnava al popolo era invece attribuito ai principi elettori o al clero (Paul Von Bernried) che effettivamente possedevano diritti elettorali; tuttavia il suo pensiero ripropone di nuovo il concetto di bilateralità nell'assunzione del potere secolare, vera chiave di volta della teoria politica medievale, e la conseguente concezione di una sovranità sub lege e non praeter legem, dove la lex coincideva con l'equità e questa con i diritti portati da usi secolari e dei quali il popolo voleva rimanere comunque geloso custode, donde l'affermarsi, tra gli scrittori dell'epoca, del topos della resistenza al tiranno.

L'affermarsi della filosofia scolastica contribuì in maniera decisiva allo sviluppo della riflessione politica in senso speculativo e maggiormente orientata all'indagine sulle origini dello Stato rispetto alla teoria del buon governo che aveva impegnato gli scrittori politici altomedievali. Il problema centrale era quello di riuscire a conciliare la dottrina di Aristotele, la cui opera, riscoperta da poco, aveva acquisito un'immensa autorità, con quella contrattualista affermatasi nei secoli precedenti e risalente alla teoria della lex regia. Come abbiamo visto il filosofo greco considerava l'uomo un animale sociale e quindi lo Stato un fenomeno meramente naturale, generatosi per aggregazione di unità più elementari, gli individui, le famiglie: "Essi [gli uomini] quindi, anche se non hanno bisogno di aiuto reciproco, desiderano non di meno di vivere insieme: non solo, ma pure l'interesse comune li raccoglie, in rapporto alla parte di benessere che ciascuno ne trae. Ed è proprio questo il fine di tutti in comune e di ciascuno in particolare: ma essi si riuniscono anche per il semplice scopo di vivere e per questo stringono la comunità statale."

L'accordo tra lo spontaneismo aristotelico e il volontarismo contrattualista fu trovato nella considerazione che la Natura, intesa anche come volontà divina, fosse la causa impulsiva dell'aggregazione sociale ma che, per l'epifania dello Stato, fosse necessario l'accordo tra gli uomini: attraverso questo compromesso essi perdevano la loro libertà ferina, resa tale dalle conseguenze del peccato originale, e stabilivano al di sopra di loro e per volontà di Dio, un organo sovrano con plenitudo potestatis per stabilire l'ordine e al fine di garantire la sostenibilità del consorzio.

Sia in Giovanni da Parigi (Tractatus de potestate regia et papali), sia in Guglielmo di Ockham (Dialogus inter magistrum et discipulum), sia in Nicolò Cusano (De concordantia catholica) troviamo l'elemento spontaneistico dell'aggregazione e quello volontaristico della sottomissione, rinveniamo inoltre il ruolo della Natura come limite al potere sovrano e l'inferenza per cui il soggetto costituito (il sovrano) non può assumere nei confronti del soggetto costituente (il popolo) poteri ulteriori rispetto a quelli trasmessi mediante accordo, senza con ciò corrompersi in tirannia, potendo dunque pretendere l'obbedienza solo per quelle cose “quae ad utilitatem communem proficiunt”.

Età Barocca

Le guerre di religione che scoppiarono in Europa nel XVI secolo influenzarono profondamente il pensiero dell'epoca ed indirizzarono la riflessione politica sulla polemica antiassolutistica e sulle ragioni della resistenza nei confronti degli oppressori della libertà di coscienza religiosa. Da molti autori in effetti è stato indagato il rapporto esistente tra l'individualismo politico ed il cristianesimo protestante e, quantunque gli sviluppi storici possano individuare in epoche posteriori la realizzazione politica di questo connubio, specialmente negli assetti governativi sorti nelle comunità protestanti del New England, non possiamo ignorare la produzione letteraria della comunità ugonotta francese della seconda metà del XVI secolo e l'influenza che ebbe sul pensiero contrattualista successivo.

Tra questi scritti politici il più noto e quello che ebbe maggiore risonanza e fu considerato la summa del pensiero politico degli ugonotti è il Vindiciae contra tyrannos del 1579: in questa opera, che raccoglie e riordina gli argomenti della produzione libellistica precedente, si pongono quattro domande:

  • se i sudditi debbano obbedire ai sovrani qualora pongano dei comandi contrari alla legge divina;
  • se è legittimo resistere ad un principe che vìoli la legge divina;
  • se è legittimo resistere ad un potere oppressivo;
  • se i prìncipi debbano soccorrere i sudditi di altri Stati perseguitati per la loro fede o soggetti alla condotta tirannica di un altro sovrano.

Nelle Vindicae troviamo due patti (nell'opera incontriamo sovente i termini pactum e foedus), uno fra Dio, il re e il popolo ed il secondo fra il re e il popolo solamente. Il primo ovviamente non può essere considerato un contratto sociale né di governo ma, non rivestendo una significativa rilevanza dal punto di vista politico, ha lo scopo di agganciare la riflessione politica alla tradizione biblica, nella quale si vogliono trovare le radici storiche anche del secondo patto, quello tra il sovrano e il popolo che trova la sua prima testimonianza storica nel patto concluso dal re Gioas con il popolo d'Israele (II, RE, 11). Bisogna considerare che, sebbene l'opera adombri una visione contrattualistica del rapporto governante-governati, tuttavia l'accordo primigenio non è visto come l'incontro di volontà autonome, piuttosto come la realizzazione fenomenica di una necessità universale, significata dalla presenza di Dio come termine di legittimazione del secondo patto; lo schema contrattualistico rimane comunque lo strumento più adatto per giustificare la resistenza al governo oppressivo, il diritto alla quale, nelle Vindiciae, spetta non già all'intero popolo, bensì ai magistrati o alle assemblee, quindi a dei poteri intermedi.

Gli strumenti concettuali dei monarcomachi cattolici della fine del XVI secolo sono gli stessi della libellistica protestante considerando il fatto che autori come Rousseau e Juan de Mariana adoperassero il tipo contrattuale non nella soluzione del passaggio dallo stato ferino a quello civile, aderendo così al tema spontaneistico di Aristotele, bensì riscoprendo la logica del sinallagma nella gestione del potere, disciplinata nei princìpi da un contratto di governo espresso o tacito per cui attraverso la legge si priva il sovrano della facoltà di esercitare il suo ruolo ad libitum, riponendo nel popolo il vaglio della critica ed il diritto di riappropriarsi della potestas a suo tempo delegata nell'ipotesi della degenerazione tirannica.

Un pensatore di notevole rilievo sia per l'influenza che ebbe su John Locke sia perché introdusse in Inghilterra la riflessione contrattualistica continentale fu Richard Hooker. Nella sua opera The Laws of Ecclesiastical Polity egli, nell'analisi delle origini della società, distingue un primo momento di aggregazione naturale da una successiva sistemazione artificiale della società: "Due sono i fondamenti che sorreggono le società: il primo è costituito da un'inclinazione naturale per cui tutti gli uomini desiderano la vita sociale e la compagnia, il secondo è rappresentato da una disposizione su cui si è convenuto espressamente o segretamente relativa alla modalità della loro unione nella convivenza." Notiamo dunque che egli distingue nettamente un primo momento di aggregazione degli individui, rappresentato dal contratto sociale, da un secondo momento, in sé non naturalisticamente determinato come il primo, in cui gli uomini, resisi consci della insostenibilità di una convivenza anarchica, addivennero ad un secondo accordo, il cosiddetto contratto di governo, attraverso il quale posero sopra di sé le istituzioni. I termini di questo secondo patto essendo noti a poche persone e via via, col passare del tempo, a nessuno, vengono quindi espressi dalla costituzione stessa dello Stato, mediante le leggi, che descrivono espressamente gli assetti istituzionali, o attraverso l'autorizzazione implicita in antiche consuetudini. La soluzione che egli dà al problema del consenso intergenerazionale, per il quale si trovano ad essere vincolati ad un patto anche i discendenti di coloro che lo approvarono, stempera notevolmente la carica individualistica della teoria di Hoocker, dal momento che questi pose come soggetti attivi del pactum societatis le corporazioni in vece dei singoli ed affermò l'immortalità delle prime e con essa la vigenza onnipresente degli accordi da esse compiuti.

A metà strada tra individualismo e corporativismo si pone il pensiero di Althusius il quale fonda sul consenso qualsiasi forma di associazione umana e non solamente lo Stato. Nella sua Politica methodice digesta individua cinque tipi di associazioni: la famiglia, la confraternita, la comunità locale, la provincia e lo Stato. Ciascuna consociatio nasce dall'accordo costituito tra le associazioni di dimensioni minori le quali trasferiscono solamente quella parte di potere necessaria al funzionamento dell'associazione più vasta conservando il diritto di svincolarsi da uno Stato per legarsi ad un altro, realizzandosi così un sistema federale o di decentramento politico-amministrativo. Se è vero che la logica della societas è dominante nell'apparato teorico di Althusius, donde si potrebbe sostenere la natura contrattualistica del suo sistema, tuttavia non bisogna dimenticare che la struttura degli accordi esponenziali estromette l'individuo come soggetto attivo e sotto un diverso punto di vista, ossia considerando le funzioni delle istituzioni più che il momento della loro costituzione giuridica, egli crea uno Stato corporativo in cui ogni diritto è pubblico e non privato.

Nel XVII secolo vediamo quindi l'affermazione pressoché definitiva del contrattualismo che, riuscendo a convivere con la concezione aristotelica della natura sociale dell'uomo, comincia a svolgere la sua funzione di limite teorico del potere sovrano, considerato originariamente limitato dal pactum, e si pone, in alcuni casi, come valido strumento argomentativo nella lotta alla tirannia per mezzo del diritto alla resistenza anche armata (monarcomachi) o attraverso la proposta dell'istituzione di poteri di controllo sull'operato del re. Il pensiero contrattualista tuttavia non riesce ancora ad emanciparsi dalla dicotomia sovrano-popolo, governante-governati, donde permane un ineliminabile scarto tra chi detiene il potere e chi lo subisce perché ab ovo lo trasferì con l'accordo, riservando a sé, come clausola salvatoria, il diritto di reagire all'esercizio abusivo del governo.

Come avevamo precedentemente accennato, nella prima metà del XVII secolo le comunità puritane che si stabilirono nel New England, in fuga dal clima persecutorio presente in Inghilterra, svolsero un ruolo di certo rilievo nell'affermazione della teoria del contratto sociale. Basti pensare che i coloni attuarono storicamente, nella varie dichiarazioni di fondazione delle comunità, prima fra tutte quella dei Pilgrim Fathers nel 1620, quel contratto originario, quel patto costitutivo, che fino ad allora era rimasto un'ipotesi interpretativa, un'argomento di significato euristico se non addirittura una fictio juris. Per i teorici puritani la prima e vera ragione della nascita di un consorzio tra gli uomini risiede nella difesa della parola di Dio e nella sua adorazione pubblica, che porta ad un patto sacro tra i fedeli per l'edificazione della Chiesa congregazionista. Il sorgere della comunità politica è un'istanza di secondo piano o meglio strumentale rispetto alla fondazione della comunità di fede, il governo civile vedendo la sua unica giustificazione nella difesa della Chiesa, come braccio secolare. I teorici americani affermano dunque la matrice volontaristica e consensuale dell'atto costitutivo, avvalendosi, come avevano già fatto gli Ugonotti, della tradizione biblica ossia dei patti dell'Antico Testamento.

Roger Williams nella sua opera The Bloudy Tenent of Persecution anticipa la teoria di Locke dell'amministrazione fiduciaria del potere sostenendo che i "governi, in quanto costituiti e stabiliti dal popolo, non hanno un potere e una durata maggiori di quanto è stato affidato loro dal potere civile, ovvero dal popolo, che ha espresso il suo consenso ed accordo" sostenendo che ecceda dai suoi poteri quel ministro o magistrato che eserciti in qualunque materia a lui non espressamente affidata dall'autorità popolare. In Inghilterra l'affermarsi della teoria del contratto si ebbe principalmente tra i sostenitori del parlamentarismo o della monarchia cosiddetta mista nella quale al potere del sovrano doveva contrapporsi il ruolo di controllo del Parlamento, che era chiamato a legiferare insieme al sovrano in materia di imposizione fiscale. L'ala più radicale della sinistra Parlamentare era rappresentata dai Levellers che dapprima appoggiarono il Long Parliament ed in seguito, resisi consapevoli che anche un governo parlamentare potesse rivelarsi oppressivo, incentrarono la loro lotta politica nella conquista di una carta fondamentale che potesse ancorare su basi certe i diritti naturali dei cittadini. Il ritorno al tema di un documento fondamentale, di un accordo scritto che recepisse materialmente il consenso dei cittadini, come il The Agreement of the People del 1647, che doveva essere fatto circolare nelle campagne e doveva ottenere la firma del maggior numero di persone, rispondeva all'esigenza di ancorare ad un contenuto minimo il tema dei diritti naturali, con il fine di costituire un limite ultimo alla sfera di azione della sovranità, fosse anche questa passata nelle mani del Parlamento.

Tra i teorici del consenso popolare che si affermarono nel XVI secolo ebbe per un certo periodo seguito la teoria del rapporto popolo-sovrano fondata sull'istituto dell'amministrazione fiduciaria, una versione certamente più audace rispetto a quella tipicamente contrattualistica, in quanto prevedeva per i governati il diritto, esercitabile ad libitum, di revocare la fiducia nei confronti dei governanti, per l'amministrazione della cosa pubblica. Questo punto di vista fu espresso chiaramente da Milton, ministro degli esteri di Oliver Cromwell, nella sua opera The Tenure of Kings and Magistrates dove egli sostiene che, dato che il potere del sovrano deriva direttamente dal popolo, questo “tutte le volte che lo giudicherà come la cosa migliore, potrà sceglierlo o rigettarlo, mantenerlo o deporlo anche quando non si tratti di un tiranno, semplicemente per la libertà e il diritto di uomini liberi di essere governati come sembra loro meglio”.

Principali contrattualisti

Hobbes

Per Hobbes lo «stato di natura» è quello caratterizzato dalla perenne «guerra di tutti contro tutti». Per evitare quindi questo stato di continuo pericolo per tutti e tutte, Hobbes suggerisce la stipula di un contratto che vincoli ognuno alla stessa maniera, anche se fosse stato esclusivamente stipulato dalla maggioranza o addirittura se la sottoscrizione fosse coatta.

Il contratto hobbesiano legittima l'assolutismo più radicale, poiché i cittadini con il contratto hanno ceduto una parte dei loro diritti ad un sovrano o ad un'istituzione, la sola libertà che spetta al singolo individuo è quella di agire secondo leggi; inoltre secondo Hobbes solo un'autorità assoluta può assolvere bene al suo compito autoritario (Hobbes simpatizza per la monarchia) e di dominio sulle individualità che hanno stipulato, o "subito", il contratto.

Locke

Per Locke la natura e i contenuti stessi del patto tra sudditi e sovrano sono profondamente diversi da quelli teorizzati da Hobbes. Lo stato di natura, inteso come la condizione iniziale dell'uomo secondo Locke non si manifesta come un "bellum omnium contra omnes" ma come una condizione che può invece portare a una convivenza sociale.

Locke infatti sostiene la doppia natura pattizia, come nella più autentica tradizione del giusnaturalismo: Pactum Societatis e Pactum Subjectionis. In Hobbes, invece, i due patti erano unificati nel patto d'unione secondo il quale i sudditi, emancipandosi dallo stato di natura alienavano tutti i diritti al sovrano, tranne uno: il diritto alla vita.

Rousseau

Nel suo Contratto sociale (1762), Jean-Jacques Rousseau parte dal principio che l'essere umano è nato libero (il "buon selvaggio") ed è diventato schiavo a causa della convivenza sociale. La società per Rousseau è una necessità venutasi a creare quando l'essere umano ha compreso di non poter più vivere isolato dagli altri. Il Patto, il Contratto sociale, ha lo scopo di unire e difendere ogni individuo, senza che questo debba perdere la propria libertà sottomettendosi ad una qualche autorità.

Il contratto sociale attribuisce sovranità e autorità (autorevolezza) inalienabile a tutto il corpo sociale, di conseguenza la sua idea è democratica; e poiché la sovranità è indivisibile, la democrazia per il quale propende è quella diretta: i governanti non sono padroni e nemmeno rappresentanti del popolo. Essi sono dei "commissari" che non decidono in nome del popolo, ma solo ed esclusivamente con la ratifica popolare.

Rousseau è di conseguenza ostile all'idea dello Stato moderno che si andava consolidando, immaginando al suo posto una società formata dalla federazione di piccole comunità.


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