Il secondo dopoguerra in Italia: corpi di polizia e repressione della lotta antifascista

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Simbolo antifascista.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, nonostante le minimizzazioni della storiografia ufficiale, molti fascisti furono riciclati nel cosiddetto "ambito democratico". Alcuni di loro finsero di ripudiare il fascismo, ma di fatto continuarono ad utilizzarne gli stessi metodi, altri invece agirono in maniera più oscura e/o provocatoria, spesso in combutta con la criminalità comune, la mafia, la camorra, i corpi di polizia e i servizi segreti di moltissimi paesi.

In entrambi i casi lo scopo fu, sempre e comunque, quello di fare gli interessi del padronato reazionario ovvero di impedire che la lotta partigiana sfociasse nella rivoluzione sociale.

L'immediato secondo dopoguerra: il "pericolo rosso"

La situazione italiana del secondo dopoguerra per anni ricordò sotto molti aspetti quella del primo dopoguerra, in cui, pur di sbarrare la strada al "pericolo rosso", si lasciò mano libera ai fascisti, permettendo loro di infiltrarsi all'interno dello Stato grazie alle mancate epurazioni degli stessi dagli apparati istituzionali più importanti, soprattutto da quelli preposti alla repressione.

Dopo il 1945 furono arruolati in Europa molti ex nazifascisti da parte dell'OSS, divenuto poi CIA nel 1947. Dopo la caduta del fascismo fu prioritario contrastare con ogni metodo il presunto "pericolo comunista" e a tale fine pesantissime furono le intrusioni nella vita politica e sociale italiana dei servizi segreti, prima anglo-statunitensi (a questo proposito è importantissimo tutto quel che si è venuto a sapere rispetto ai tragici fatti della Brigata Osoppo) e poi esclusivamente statunitensi. In sostanza, lasciando perdere le strumentali collocazioni politiche, si volle impedire che le rivendicazioni e le rivolte delle classi sociali meno abbienti giungessero a risultati concreti.

Il PCI d'altronde lavorò non poco per spegnere i sogni rivoluzionari di molti partigiani ancora attivi politicamente per e riallinearli alle direttive del partito, rivoluzionario a parole ma per niente nei fatti, espellendo ed ostracizzando anche quelle fazioni che non accettavano gli "ordini". Emblematici i casi di Lotta Comunista (Genova), formazione fuoriuscita dalla dissoluzione dei Gruppi Anarchici di Azione Proletaria, dei Gruppi Leninisti della Sinistra Comunista e di altre formazioni di matrice internazionalista, bordighista e trotskijsta.

Tutte queste "manovre" permisero il reale inserimento di molti ex fascisti nella vita pubblica, tuttavia, anche se molti furono ben introdotti negli apparati dello Stato (militari, politici e sociali), era da escludere la presa totale del potere sia per gli equilibri internazionali vigenti allora sia per il forte antifascismo della società italiana, ben saldo anche nei partiti avversi alla sinistra in genere e al PCI in particolare, che in quel periodo era docilmente piegato alle direttive di Mosca.

A parte gli equilibri di natura internazionale, il "pericolo comunista", e quindi l'utilizzo di qualunque mezzo pur di impedire l'ascesa al potere dei comunisti, fu la scusante attraverso cui fu possibile reprimere le rivendicazioni sociali delle classi meno abbienti.

Il riciclaggio dei fascisti

Il governo post-bellico sembrò preoccuparsi più della pacificazione generale attraverso la promulgazione di un'amnistia per i reati fascisti, redatta dall'allora ministro dell'interno, nonché comunista, Palmiro Togliatti (D.P.R. 22 giugno 1946, n. 4), che del riconoscimento dei diritti dei partigiani e delle famiglie dei caduti.

Le conseguenze che ne derivarono furono, da un lato, l'incremento della rabbia di molti ex partigiani e, dall'altra, il ritorno alla vita pubblica di molti fascisti (es. liberazione di Amerigo Dumini, capo degli assassini di Matteotti; fuga di Mario Roatta [1], condannato all'ergastolo ed in seguito liberato). In questo modo molti esponenti del decaduto regime furono riciclati e collocati nei gangli vitali della società italiana, soprattutto negli organi di repressione dello Stato: per questo all'interno dei "corpi militari" non fu fatta alcuna epurazione dei fascisti che ancora avevano posti di comando, anzi, ad essere "eliminati", in particolare sotto Scelba [2], furono soprattutto i comandanti partigiani entrati a far parte dei corpi di polizia e i funzionari di alto livello "di sinistra", come il questore Ettore Trojlo, che scatenò un vera rivolta a Milano, con intervento della Volante Rossa [3], fatta poi passare per un gruppetto di comuni criminali.

Un altro emblematico caso di riciclaggio è quello di Marcello Guida, questore di Milano al tempo dell'omicidio di Giuseppe Pinelli, che era stato direttore fascista dei campi di detenzione per prigionieri politici antifascisti di Ventotene e Santo Stefano [4], poi abilmente trasformato, a fascismo caduto, in "esempio di poliziotto democratico".

Un caso emblematico di riciclaggio postumo: Gaetano Collotti

Il fascista Gaetano Collotti, appena ventiduenne, è vice commissario dell'Ispettorato di Pubblica Sicurezza di Trieste [5] e di seguito dirigente dell'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia, famigerato luogo di tortura degli antifascisti di cui esistono numerose testimonianze:

«I luoghi della memoria dell'oppressione e della lotta sono tanti. A cominciare da via Bellosguardo a Trieste, dove in una villa demolita ormai da tempo ebbe sede per un certo periodo l'Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia, l'organismo istituito dal regime nel 1942 con il compito di combattere il movimento partigiano ormai affermatosi anche nelle province giuliane. L'ispettorato si distinse per l'uso sistematico della tortura sugli arrestati e la villa di via Bellosguardo divenne nota per le urla dei seviziati che si sentivano dall'esterno [...]».
«[...] Io mi sono trovata a mezzanotte nella Villa Triste. [6] Durante l'interrogatorio, sono stata picchiata [...] Mi hanno rotto tre costole e mi hanno appesa per le mani, da dietro, a un palo [...] Non so quanto sono rimasta, perché sono svenuta [...] Mi picchiavano in continuazione [...] Mi sono svegliata dentro in una cella tutta bagnata e là mi hanno lasciata tutta la notte, per poi reinterrogarmi, il giorno dopo, sempre di sera. Sempre bastonata, sempre picchiata. Da Villa Triste mi hanno poi portata alle prigioni dei Gesuiti, che ora non esistono più. Là sono stata nuovamente interrogata e, sempre a suon di scappellotti, cercavano di tirarmi fuori qualche parola dalla bocca. Io non ho parlato mai, sono rimasta sempre in silenzio, ho sempre detto che quello che ho fatto l'ho sempre fatto per conto di Walter, mio fratello [...] Mi sono assunta tutte le responsabilità [...] Dai Gesuiti sono rimasta due mesi, poi mi hanno portato alle carceri del Coroneo, a Trieste, dove, dopo un paio di giorni, sono stata nuovamente interrogata dai tedeschi. Ho subito l'interrogatorio giù, nel bunker del Coroneo. Una cosa tremenda, altre botte, altro tormento». [7]

All'interno dell'ispettorato, con sede a Trieste in via Bellosguardo n. 8, nella cosiddetta "Villa Triste", comandanta da Giuseppe Gueli [8], fu cosituita la cosiddetta "Banda Collotti", responsabile di inenarrabili torture nei confronti dei triestini di madrelingua slovena, colpevoli di parlare nel proprio idioma. Collotti alla fine della guerra tentò la fuga, ma venne catturato il 29 aprile 1945 assieme ad alcuni suoi agenti e all'amante, giorno in cui fu immediatamente giustiziato dai partigiani.

Nonostante tutto, Gaetano Collotti, considerato tra i torturatori più efferati, è stato insignito nel 1954 dalla repubblica italiana della medaglia di bronzo al valore per il comportamento tenuto durante un'operazione antipartigiana, inoltre, diversi componenti dell'ispettorato caduti durante la guerra o nella resa dei conti a guerra finita sono ricordati sulla grande lapide che nell'atrio della questura di Trieste ricorda i poliziotti caduti nell'espletamento del proprio dovere (è da ricordare che Ercole Miani, fondatore del centro studi sulla Resistenza del Nord Est, nonché ex ardito assaltatore, legionario fiumano e medaglia d'oro della Resistenza, rifiutò l'onorificenza proprio a causa di quella data a Collotti, che era stato un suo torturatore. La medaglia gli fu assegnata postuma.

Per finire il triste capitolo sul torturatore fascista ed aggiungere qualcosa "agli onori di buon poliziotto" a lui concessi, si invita la lettura dell'articolo Il mostro e l'eroe (pubblicato su un sito della polizia italiana), in cui il "mostro" è Gaetano Collotti, cosa che di per sé stride col fatto che il suo nome sia commemorato nella questura di Trieste. Ecco alcuni stralci significativi:

«Presto diventa noto come uno dei migliori investigatori dell'Ispettorato, anche se i suoi metodi spesso sono brutali, con interrogatori spietati a base di pestaggi e "beveroni" di acqua e sale per far parlare i prigionieri».
«Lo abbiamo detto, Gaetano Collotti è un uomo duro, un investigatore capace e un poliziotto coraggioso, ma lentamente ed inesorabilmente, come il colonnello Kurtz di Apocalypse Now, inizia la propria personale discesa verso l'inferno [...] Ora è diventato un mostro. Non si può definire in nessun altro modo l'uomo che rastrella gli ebrei triestini e goriziani e li carica sui vagoni bestiame diretti verso Auschwitz dopo averli derubati dei loro beni, che brucia vivi nelle grotte carsiche i partigiani che si sono arresi, che uccide i prigionieri sotto le torture, che stupra le prigioniere, che arresta e fa deportare in Germania i poliziotti collegati alla Resistenza, dove moriranno quasi tutti. All'interno dell'Ispettorato crea una squadra speciale formata da individui crudeli quanto lui che diventano il terrore di Trieste, la cosiddetta Banda Collotti».

L'"eroe" è invece il poliziotto antifascista Ameglio Sguazzin, che all'inizio della guerra ha ventotto anni e presta servizio presso la questura di Udine:

«Ameglio ha raggiunto le montagne friulane nei primi mesi del 1944, dove gli altri due fratelli combattono da alcuni mesi (cadranno entrambi in combattimento contro i nazisti). Certamente all'inizio ha fatto parte del forte gruppo di Poliziotti antifascisti della Questura di Udine, destinato a essere distrutto dal tradimento nell'estate dello stesso anno».

Il tentativo istituzionale dei fascisti: il governo Tambroni e i fatti di Genova

Genova, 30 giugno 1960, corteo antifascista.

Nel marzo del 1960 il democristiano Fernando Tambroni ricevette l'incarico di formare il governo, viste le dimissioni di Antonio Segni. La fiducia fu votata in parlamento anche dai neofascisti del MSI, risultando determinante. Tambroni, travolto dalle polemiche e dalle accuse di filo-fascismo, dovette però dimettersi. Dopo una serie di tentativi, il governo ottenne nuovamente la fiducia grazie all'appoggio esterno del MSI, scatenando una reazione antifascista in tutta Italia contro lo sdoganamento dei fascisti voluto da Tambroni.

Quando l'MSI decise di convocare a Genova, medaglia d'oro della Resistenza, il suo 5° congresso, per le strade del capoluogo ligure si scatenò una vera e propria rivolta antifascista per impedirne lo svolgimento e l'entrata nel governo [9].

Scrive Sandro Pertini nella presentazione del libro A Genova non si passa di Francesco Gandolfi (Edizioni Avanti!, 1960), dedicato alla rivolta antifascista di Genova: «È Genova che ha riaffermato come i valori della Resistenza costituiscano un patronato sacro, inalienabile della Nazione intera e che chiunque osasse calpestarli si troverebbe contro tutti gli uomini liberi, pronti a ristabilire l'antica unità al disopra di ogni differenza ideologica e di ogni contrasto politico».

Indipendentemente dalla valutazione politica che si può avere di Sandro Pertini - indiscutibile e sincero antifascista, socialista e poi presidente della repubblica - la valutazione dei fatti di Genova, espressa come rivolta antifascista, è di per se stessa più che valida per descrivere quanto accadde nel secondo dopoguerra.

Rapporti tra istituzioni, fascismo e mafia

Cos'é la mafia? A questa domanda ben risponde Leonardo Sciascia nell'appendice del suo Il giorno della civetta:

«Ma la mafia era, ed è, altra cosa: un "sistema" che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel "vuoto" dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole e manca) ma dentro lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta».
Vito Genovese, in divisa regolare da ufficiale americano, con accanto Salvatore Giuliano, il futuro responsabile dell'eccidio di Portella della Ginestra (1 maggio 1947) contro la popolazione inerme che festeggiava il Primo Maggio. Giuliano godeva della protezione di Genovese quando passò con i "liberatori". Giuliano, inoltre, viene indicato, secondo molti documenti, come un ex marò della Xª MAS di Junio Valerio Borghese, corpo militare della RSI che si macchiò di crimini di guerra contro partigiani e civili disarmati.
L'anarchico Carlo Tresca.

La Sicilia al centro di intighi internazionali e reazionari

I rapporti desecretati dell'OSS e del CIC (i servizi segreti statunitensi della Seconda guerra mondiale) provano l'esistenza di un patto scellerato in Sicilia tra la cosiddetta "Banda Giuliano" e le forze paramilitari del fascismo di Salò (in primis la Xª MAS di Junio Valerio Borghese e la rete eversiva del principe Pignatelli nel Meridione), il tutto con la copertura di alcuni apparati dello Stato. Queste "scoperte" sono il risultato di una ricerca promossa e realizzata negli ultimi anni da Nicola Tranfaglia (Università di Torino) e dal ricercatore indipendente Mario J. Cereghino [10].

Nell'eccidio di Portella della Ginestra, per esempio, le inchieste-ricostruzioni proposte anche in documentari televisivi, hanno accertato la presenza fascista di esponenti dell'intelligence straniera e di appartenenti agli organi di repressione dello Stato italiano, soprattutto legati all'autonomismo siciliano, partito come istanza di sinistra guidata dall'antifascista Antonio Canepa [11]. Dopo l'efferato omicidio di Canepa ad opera dei carabinieri (con Canepa caddero anche due suoi compagni), il movimento separatista siciliano fu trasformato in strumento di repressione antipopolare, grazie all'infiltrazione di personaggi come il bandito Salvatore Giuliano, che godeva anche dell'appoggo di Vito Genovese [12], mafioso, simpatizzante fascista [13] e (presumibilmente) mandante dell'omicidio dell'anarchico Carlo Tresca [14] [15].

Rapporti incrociati fra la Xª MAS di Borghese, la mafia e il golpismo fascista si evincono anche dalla vicenda del giornalista Mauro De Mauro (rapito da Cosa nostra e mai più ritrovato), secondo quanto riportato da Andrea Cottone e Laura Nicastro in un articolo [16] pubblicato dalla testata giornalistica dell'Università di Palermo [17]. Un episodio visto, non solo dagli antifascisti ma anche da storici quali Philip Cooke [18], come un tentativo, coperto dagli apparati repressivi istituzionali, di restaurazione del fascismo per permettere il riciclaggio dei suoi membri.

In questo contesto, poi sfociato nell'eccidio di Portella della Ginestra, il comunista Girolamo Li Causi, alla camera dei deputati, denunciò l'implicazione di mafiosi, dei "servizi" e di molti post-fascisti [19], alcuni dei quali ex poliziotti già processati per crimini di guerra, come Giuseppe Gueli [20] Ettore Messana, e Ciro Verdiani.

Il finanziamento alla casa del fascio di Nola

Vito Genovese era in Italia quando l'anarchico Carlo Tresca viene assassinato. Vi giunse dagli USA nel 1935 con il beneplacito del regime fascista, che lo salvò così da un arresto per omicidio. In seguito l'OSS (ex CIA), investigando su questi avvenimenti, prese atto che la Casa del Fascio di Nola era stata costruita con un finanziamento proprio di Vito Genovese, che in questo modo intendeva ringraziare il duce per la protezione ricevuta. Genovese, durante l'armistizio, "trafficava" droga (sempre nel nolano) insieme al suo "segretario" Mike Miranda e in combutta col suo socio d'affari Lucky Luciano. Già prima di questo periodo i fascisti non lo ostacolarono per nulla nello sviluppo dei suoi affari. La moglie di Genovese ha descritto i propri viaggi negli USA (commissione Kefauver, 1952) necessari per prelevare e rifornire di denaro il consorte, di cui qualche "briciola" fu anche utilizzata per la costruzione della Casa del Fascio di Nola.

Genovese era entrato in "affari" con molti imprenditori del posto e aveva stabilito solidi rapporti con il probabile proprietario e/o comproprietario dell'industria Ferrarelle, il cui rappresentante di New York era, non a caso, proprio Mike Miranda. Tutti questi legami saranno utili a Genovese nel momento dello sbarco alleato, in cui ovviamente si riciclerà come antifascista. Occorre evidenziare anche un'altra "amicizia" importante di Genovese, cioè quella con Renato Carmine Senise, nipote del capo della polizia fascista Carmine Senise.

Secondo alcune testimonianze, Genovese sarebbe stato addirittura l'organizzatore dell'omicidio dell'anarchico Carlo Tresca [14]:

«Napoli vive i giorni della liberazione. Miseria e fame, speranze e disperazione sono le componenti della vita quotidiana. Alla testa del "Governo Militare Alleato" che amministra la Campania e la Puglia è l'italo-americano Charles Poletti; al suo fianco, come uomo di fiducia, un napoletano dal passato turbinoso, Vito Genovese. Ricercato dalla polizia americana per omicidio, Genovese era rientrato in Italia nel 1939 e si era stabilito a Napoli. I suoi rapporti col fascismo erano stati molto stretti (nel 1935, ad esempio, aveva inviato dall'America 250.000 dollari per la costruzione della Casa del Fascio di Nola). Secondo alcune testimonianze, Genovese sarebbe stato addirittura l'organizzatore dell'omicidio dell'antifascista Carlo Tresca, che su un giornale americano scriveva articoli infuocati contro Mussolini. Secondo altri, Genovese sarebbe stato compensato con la somma di 500.000 dollari. Una cosa è certa: una volta riparato in Italia, il fascismo lo protesse contro il rischio di un'estradizione negli Stati Uniti» [21].

Il colonello Poletti, fra l'altro, incaricò Genovese di condurre un'inchiesta amministrativa nei confronti di un sindaco sospettato di contrabbando. Proprio in quei giorni, un agente della Criminal Investigation Division giunse a Napoli per indagare su certe connivenze tra malavita locale e militari americani. Il 17 maggio 1945, con uno stratagemma e vincendo le resistenze dei protettori dei gangster, l'agente portò Genovese a New York in stato d'arresto. Ma l'unico teste d'accusa morì in carcere [22], avvelenato. Di nuovo libero, Genovese ebbe la definitiva consacrazione negli alti gradi della mala americana. L'antica camorra si trasformò, i suoi collegamenti con la mafia e col potere politico-economico divennero internazionali e ciò portò gli "investimenti" verso il mondo della droga, di cui ancora oggi si pagano le conseguenze sociali [21].

Testimonianze della repressione

Nuvola apps xmag.png Per approfondire, vedi Polizia.

Lo scontro sociale del secondo dopoguerra è ben illustrata dai dati di cui sotto e fu ulteriormente esacerbata dalle scelte di Mario Scelba.

  • «Così dal 1948 al 1954 si ebbero 148.269 arrestati o fermati (per motivi politici), di cui l'80 per cento comunisti, 61.243 condannati per complessivi 20.426 anni di galera (con 18 ergastoli), di cui il 90 per cento a comunisti. Nello stesso periodo in sole 38 province italiane vengono arrestati 1.697 partigiani, dei quali 484 condannati a complessivi 5.806 anni di carcere. Ma l'azione repressiva andava ben oltre: dal 1947 al 1954, in scontri di piazza tra forze di polizia e dimostranti, si contano almeno 5.104 feriti, di cui 350 da armi da fuoco, un numero imprecisato di contusi e 145 morti (quasi quanti gli uccisi dalla "Strategia della tensione"), questi ultimi compresi in 81 episodi distribuiti su tutto il territorio nazionale. I morti fra le forze repressive sono, nello stesso periodo, 19. Tutte queste cifre agghiaccianti parlano da sole. [...] Fra i fatti accertati: l'uso del bastone di nerbo di bue, l'immissione di sale e pietre nella bocca, abluzioni continuate di acqua fredda, percosse a sangue, legature di mani e piedi, il cospargere benzina sui piedi, carta bruciata sotto il naso e vicino le guance, denudazione di uomini e donne, percosse ai fianchi con pugni, getto di acqua salata sulla schiena, sigarette accese sulla faccia, sul ventre, sull'avambraccio, pugni, schiaffi, colpi di regolo, calci agli stinchi. Innumerevoli i casi di suicidio in soggetti che presentavano tracce di sevizie e maltrattamenti e a tal proposito si chiedeva retoricamente Lelio Basso: "Da chi sono uccisi i molti detenuti che vengono trovati morti nelle guardine e di cui solitamente i certificati medici dichiarano che sono morti per sincope cardiaca?" (Lelio Basso, La tortura oggi in Italia, Editrice Civiltà, 1953, p. 30)» [23].
  • «È interessante a questo punto riportare una dichiarazione, resa nel 1975, dunque lo stesso anno del commento di Brennan sulle operazioni speciali dell'OSS, da Mario Scelba, Ministro degli Interni dal 1947 al 1953 (e successivamente anche dal 1960 al 1962), a seguito della pubblicazione de Gli americani in Italia, con il proposito di difendere alcune posizioni indifendibili: "Nel dopoguerra i pericoli per la sicurezza dello Stato venivano dalle organizzazioni paramilitari comuniste che non avevano accettato l'ordine emanato dai governi dei Comitati di Liberazione Nazionale per la consegna delle armi, e anzi le custodivano ben oliate e pronte per l'uso". E così, con il pretesto del pericolo rosso, Scelba costituì una struttura semi-istituzionale che a lui solo avrebbe dovuto rispondere. "[...] nei primi mesi del 1948 era stata messa a punto una infrastruttura capace di far fronte ad un tentativo insurrezionale comunista. L'intero paese era stato diviso in una serie di grosse circoscrizioni, ognuna delle quali comprendeva varie province, e alla loro testa era stato designato in maniera riservata, per un eventuale momento di emergenza, una specie di prefetto regionale, che non sempre era il prefetto più anziano o quello della città più importante, perché in alcuni casi era invece il questore o un altro uomo di sicura energia e di mia assoluta fiducia... I superprefetti da me designati avrebbero assunto gli interi poteri dello Stato sapendo esattamente, in base ad un piano prestabilito, che cosa fare" (Cfr. Antonio Gambino, Storia dell'Italia nel dopoguerra, Laterza, 1975, pp. 473-474)» [24].

Note

  1. Il 9 settembre 1943 il fascista Mario Roatta fuggì da Roma, insieme al Re Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio, verso il Sud Italia. In seguito fu accusato di responsabilità nella mancata difesa di Roma, che permise un'agevole occupazione tedesca. Secondo la confessione di un colonnello del SIM, Mario Roatta, agli ordini del sottosegretario alla guerra generale Pariani, aveva predisposto l'uccisione dei fratelli Rosselli, noti antifascisti rifugiati in Francia. Per questo fu processato nel marzo 1945 a Roma, certificando la responsabilità diretta del duce e del maresciallo Badoglio nell'assassinio dei fratelli Rosselli. Badoglio, che continuava a godere di forti appoggi, uscì indenne e a pagare fu soltanto il generale Mario Roatta, anche se per poco. Infatti, alla vigilia del verdetto egli riuscì a fuggire dal liceo Virgilio di Roma, allora trasformato in carcere-ospedale, e a svanire nel nulla, sottraendosi all'ergastolo, che poi gli verrà anche amnistiato. Nella fuga è accertata la complicità del comando dei carabinieri (Taddeo Orlando, che era un subalterno fedele esecutore degli ordini di Roatta in Croazia, era in quel momento al vertice dell'arma) e del ricostituito SIM, guidato dal colonnello Pompeo Agrifoglio. Roatta è morto poi a Roma nel 1968 (stralcio estratto dal sito carabinieri e riportato sul sito dei bersaglieri).
  2. Mario Scelba è stato un politico italiano, eletto come presidente del consiglio dei ministri dal 10 febbraio 1954 al 2 luglio 1955. Membro della prima ora del Partito Popolare, con le elezioni del 1948 diventò deputato del parlamento italiano. Fu ministro dell'interno dal 2 febbraio 1947 al 7 luglio 1953 (dall'11 luglio al 18 settembre 1952 supplito per malattia) e dal 10 febbraio 1954 al 2 luglio 1955, dando il via ad una politica antidemocratica e repressiva verso gli scioperi, causando numerose vittime e feriti nel corso della sua funzione pubblica.
  3. Recensione del libro Storia e mito della Volante rossa, di Cesare Bermani, Nuove Edizioni Internazionali (con prefazione di Giorgio Galli).
  4. Da fuoriregistro.
  5. Note sull'Ispettorato Speciale di PS (Banda Collotti)
  6. Foto di "Villa Triste", in via Bellosguardo.
  7. Testimonianza di Nerina De Walderstein.
  8. Riciclaggi e Mancate Epurazioni nel Dopoguerra
  9. Per approfondire si legga Il precedente di Genova 2001: Genova 1960.
  10. Dal dossier a cura del Prof. Giuseppe Casarrubea.
  11. Rapporto del vicequestore di Trapani Giuseppe Peri.
  12. Approfondimenti su Vito Genovese
  13. Vedi Il finanziamento alla casa del fascio di Nola.
  14. 14,0 14,1 Ipotesi sulla morte di Carlo Tresca.
  15. Coordinamento delle ricerche presso gli Archivi Nazionali degli Stati Uniti (NARA, College Park, Maryland) e l'Archivio Centrale dello Stato (Roma): Nicola Tranfaglia (Università di Torino), Giuseppe Casarrubea (Palermo), Mario J. Cereghino (San Paolo del Brasile).
  16. Non solo mafia: i misteri del delitto De Mauro
  17. Quotidiano della Scuola di Giornalismo "Mario Francese".
  18. Philip Cocke, autore di Luglio 1960: Tambroni e la repressione fallita", Professore di Sviluppo Regionale all'Università di Cardiff e Direttore del Centre for Advanced Studies di tale università.
  19. Portella della Ginestra, intervento di Girolamo Li Causi all'Assemblea Costituente, seduta del 15 luglio 1947.
  20. Giuseppe Gueli è un personaggio assai singolare che troviamo implicato nei più sporchi accadimenti del fascismo, per cui riportiamo alcune testimonianze tratte dagli atti del processo a suo carico.
    • Il dottor Paul Messiner, di nazionalità austriaca, nel 1944 aveva l'incarico di capo-sezione giustizia del Supremo Commissariato della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico:
    «Mi è stato riferito che nell'anno 1944 l'Ispettorato di P.S. di via Bellosguardo, trasferitosi dopo in via Cologna, procedette all'arresto dei fratelli Antonio e Augusto Cosulich [armatori che avevano finanziato il C.L.N.]. Il barone Economo si rivolse al Supremo Commissario dott. Rainer per ottenere l'immediato trasferimento dei detenuti dall'Ispettorato alla sede delle S.S. di piazza Oberdan, a causa dei noti sistemi di tortura dei detti agenti italiani, usati contro patrioti. Il Supremo Commissario accolse subito la richiesta e disse che la polizia tedesca non usava i metodi crudeli e le sevizie escogitati dall'Ispettorato. Ho saputo da diverse persone, e tra queste dall'avv. Tončič, che la polizia italiana usava metodi barbari e sadici contro i detenuti. Ho parlato e fatto rapporto scritto al dott. Rainer... Mi sono state date assicurazioni in merito. [...] Il giudice Anasipoli sa che ho fatto arrestare due agenti dell'Ispettorato pur non rientrando nelle mie attribuzioni. [...] Ho dato ordine che i tribunali provinciali italiani non potessero giudicare antifascisti e che se avessero violato tale ordine sarebbero stati arrestati» (Note sull'Ispettorato Speciale di PS (Banda Collotti)).
    • L'avvocato Tončič:
    «Slavik mi disse di aver fatto un esposto al capo della sezione giustizia dell'ex-Commissariato dott. Paul Messiner e me lo mostrò. In tale esposto, oltre a narrare quanto contro di lui era stato commesso dagli agenti [dell'Ispettorato], espose anche i maltrattamenti e le violenze carnali commesse ai danni di una ragazza diciassettenne e di una signora di Trieste. Il dott. Slavik fu arrestato poco tempo dopo dalle S.S. germaniche e deportato a Mauthausen, dove purtroppo trovò la morte» (Note sull'Ispettorato Speciale di PS (Banda Collotti)).
    • Pietro Prodan, arrestato nel 1944, all'età di 16 anni, con le sorelle Nives e Nerina:
    «Tra i poliziotti che procedettero al nostro arresto c'era anche Sigfrido Mazzuccato». Dopo un periodo di circa un mese negli uffici del "gruppo Olivares", dove i tre furono percossi anche da Gaetano Collotti: «Mi hanno portato in Germania, al campo di Buchenwald, dove sono stato liberato dagli alleati. Nello stesso campo di concentramento è venuto, nel novembre del 1944, anche il maresciallo Mazzuccato, che la vigilia di Natale è stato, verso mezzanotte, trasportato nel forno crematorio e gettato in esso. Ho visto coi miei occhi la cartella, scritta dai tedeschi, in cui si diceva: "Mazzuccato, deceduto per catarro intestinale il 24 dicembre 1944"» (Note sull'Ispettorato Speciale di PS (Banda Collotti)).
    • Il rebus della sparizione di Mazzuccato, fatto rimuovere dal comando S.S. dall'incarico, è stato risolto. Agli atti del processo ci sono numerosissime testimonianze sui crimini ed i "metodi di interrogatorio": queste testimonianze sono agli atti sia del processo a carico di Gueli sia del processo relativo alla Risiera di San Sabba. Da tali testimonianze si deduce che il metodo della tortura non era occasionale ma sistematico e che lo stesso vescovo di Trieste Santin intervenne, tentando di porre fine a tal modo nefando di agire, nel 1942, dopo un periodo di incredulità su quanto era venuto a conoscenza; ovviamente il suo coraggioso intervento non ottenne gli esiti che il prelato si era prefissi.
    • Pietro Badoglio assegnò il controllo di Mussolini, appena deposto, a Giuseppe Gueli, che in una lettera, risalente a quel periodo, si dichiara apertamente ammiratore di Mussolini. Ebbene, appena Mussolini fuggirà, ritroveremo Gueli in Sicilia come poliziotto dirigente al tempo dei fatti inerenti Portella della Ginestra.
    • Gueli, Ispettore Generale: «Allorché mi convocò, il capo della Polizia mi chiarì che si trattava di salvaguardare la persona di Mussolini e di impedire, in tutti i modi, che i tedeschi lo rapissero. In tal caso, bisognava far fuoco sul prigioniero e far trovare un cadavere. Risposi che ero un uomo di battaglia, non un assassino, e allora lui mi disse che della bisogna erano stati incaricati i Carabinieri. Badoglio, volle conoscermi e a presentarmi al Capo del Governo provvide Senise. Il Maresciallo ripeté a me la consegna già data a Polito e io, come Polito, assicurai che l'avrei fedelmente e, occorrendo, personalmente eseguita. Nella notte, trascorsa insonne, però, presi la mia decisione: poiché la sorte, fra milioni d'italiani restati fedeli al Duce, dava a me l'occasione favorevole, dovevo fare di tutto per salvarlo. L'indomani mi recai in Sardegna e constatai che, per clima e per sicurezza, Mussolini si trovava molto male. Se gli inglesi avessero avuto notizia della sua presenza alla Maddalena, avrebbero potuto facilmente impadronirsene o seppellirlo sotto le macerie della villa con quattro cannonate delle loro navi» (La liberazione di Mussolini dalla progione del Gran Sasso). Fu dunque Gueli che stabilì il trasferimento di Benito Mussolini al Gran Sasso, dalla cui prigione venne poi fatto evadere dai paracadutisti guidati dal futuro terrorista mercenario internazionale Otto Skorzeny.
  21. 21,0 21,1 Sud e malavita, di Tonino Caputo e Gianfranco Langatta
  22. Il 9 febbraio 1954 morì in carcere anche Gaspare Pisciotta, "compagno" del bandito Giuliano. La causa del decesso, secondo gli esiti dell'autopsia, fu dovuta all'ingestione di 20 mg di stricnina. Pisciotta si accusò anche dell'uccisione di Giuliano, ma recenti indagini lo escludono. È più probabile che il bandito Giuliano sia stato invece assassinato perché al corrente di troppi lati oscuri della storia italiana.
  23. Gli eccidi operai e contadini del dopoguerra, di Gianni Viola (articolo completo in Sicilia Libertaria n° 206 del febbraio 2002).
  24. L'angolo morto, di Mario Coglitore (Intermarx - rivista virtuale di analisi e critica materialista, Osservatorio storico, ottobre 1999).

Bibliografia

Sulla rivolta antifascista di Genova

  • Rinascita, 1960, pp. 619-688
  • Anton Gaetano Parodi, Le giornate di Genova, Editori Riuniti, 1960
  • Francesco Gandolfi, A Genova non si passa, prefazione di Sandro Pertini, Edizioni Avanti!, 1960
  • Movimento 30 Giugno, Il 30 Giugno a Genova, 1960
  • Paolo Arvati e Paride Rugafiori, Storia della camera del lavoro di Genova dalla Resistenza al Giugno 1960, Editrice Sindacale Italiana, 1981
  • Paride Battini, L'occasionale storia di un porto e della sua gente, Editore Marietti, 1991
  • Philip Cooke, Luglio 1960: Tambroni e la repressione fallita, Teti Editore, 2000

Sugli accadimenti in Sicilia

  • Giuseppe Casarrubea, Fra' Diavolo e il governo nero. «Doppio Stato» e stragi nella Sicilia del dopoguerra, Franco Angeli, 1998
  • Giuseppe Casarrubea, Salvatore Giuliano. Morte di un capobanda e dei suoi luogotenenti, Franco Angeli, 2001
  • Giuseppe Casarrubea, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra, Bompiani, 2005
  • Giuseppe Casarrubea, Tango Connection. L'oro nazifascista, l'America Latina e la guerra al comunismo in Italia. 1943-1947, Bompiani, 2007
  • Giuseppe Casarrubea, Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato, Franco Angeli, 2016

Voci correlate

Collegamenti esterni